rivista anarchica
anno 48 n. 429
novembre 2018


dibattito

Oltre la società del lavoro

di Franco Bertolucci / foto di Paolo Poce

Le trasformazioni economiche, tecnologiche, sociali degli ultimi tempi hanno portato a una vera e propria rivoluzione nel mondo del lavoro. La disoccupazione crescente. Le nuove teorie (e alcune pratiche) contro il lavoro. La questione del reddito sociale. Un dibattito aperto, con mille conseguenze.

«L'estetica del lavoro
è lo spettacolo della merce umana»

(Da ZYG-Crescita Zero del gruppo musicale “Area”, 1974)

Papa Francesco recentemente in un'intervista al quotidiano della Confindustria ha rilanciato il messaggio della Chiesa sulla necessità di un nuovo «umanesimo dei produttori» aperto e inclusivo che «sappia mettere l'uomo al centro della società» e «l'impresa» al centro dell'economia («Il Sole 24 ore», 7 set. 2018). Subito gli hanno fatto eco i massimi vertici dell'imprenditoria italiana, a iniziare da Vincenzo Boccia presidente della Confindustria, plaudendo le sue parole e affermando che «il lavoro creativo e produttivo» è il «solo» mezzo che «rende liberi» e «conferisce dignità» al fine di costruire – soprattutto per i giovani – il loro percorso di vita («Il Sole 24 ore», 8 set. 2018).
Il sostantivo «dignità» è stato utilizzato anche dal decreto del governo «giallo-verde» (D.L. 12 luglio 2018 n. 87, convertito con modificazioni dalla L. 9 agosto 2018 n. 96, «Gazzetta Ufficiale» n. 186, 11/8/2018) che apporta notevoli modifiche alla regolamentazione del contratto a termine e del contratto di somministrazione di lavoro contenuta nel Jobs Act. Questo intervento del governo è l'antipasto di un'ulteriore iniziativa del proprio programma – il cavallo di battaglia dei M5S –, che dovrebbe concretizzarsi nel varo della legge del «reddito di cittadinanza».
Dunque, il tema del lavoro continua a essere oggi al centro del dibattito in ogni sfera della politica, dell'economia e dello «Spirito Santo», ma proviamo un attimo a riflettere bene sulla vera natura e sulla storia di questo confronto che in realtà nasconde nelle sue viscere un conflitto «antico» ma nel contempo attualissimo, quello tra capitale e lavoro.

Tutti i lavoratori del mondo

Secondo le Nazioni unite, nel 1800 il mondo aveva 1 miliardo di abitanti, 5 nel 1990, poco più di 7 al giorno d'oggi e, secondo le proiezioni attuali, nel 2100 saranno 11. Dai più recenti rapporti (maggio 2018) dell'Ufficio Internazionale del Lavoro di Ginevra i lavoratori salariati nel mondo sono circa il 58,6% della popolazione globale, e il loro numero è cresciuto negli ultimi anni.
Il numero dei proletari è, dunque, in espansione a fronte di una borghesia che assume una struttura sempre più oligarchica, circa 80 milioni di super ricchi, l'1% della popolazione, detiene un reddito superiore a quello prodotto dal resto dell'umanità; le classi intermedie declinano, piccoli produttori indipendenti – per lo più contadini di sussistenza nelle periferie e nei Paesi del Terzo e Quarto Mondo – piccoli artigiani e/o commercianti, si avviano gradualmente a essere minoranze che le condizioni del mercato pongono allo stesso livello dei salariati. Nelle nuove metropoli capitalistiche dei Paesi come Cina, India, Brasile, ecc. i lavoratori dipendenti sono da molto tempo la maggioranza della popolazione attiva.
Il rapporto OXFAM, uno dei documenti più noti che annualmente vengono pubblicati, ha certificato che la forbice tra ricchi e poveri in questi ultimi anni si è estremizzata sempre di più. «Multinazionali e super ricchi continuano ad alimentare la disuguaglianza facendo ricorso a pratiche di elusione fiscale, massimizzando i profitti anche a costo di comprimere verso il basso i salari», sfruttando a loro vantaggio ogni conflitto armato, la criminalità e «usando il loro potere per influenzare la politica». Così, nel biennio 2015/16 dieci tra le più grandi multinazionali hanno realizzato complessivamente profitti superiori a quanto raccolto dalle casse di 180 Paesi.
I paesi economicamente avanzati, con una voracità insaziabile di materie prime, coprono la propria politica di rapina con false campagne promozionali per lo sviluppo e il sostegno dei paesi del Sud del mondo quando in realtà stanno facendo esattamente il contrario. Non sono i paesi ricchi a sviluppare i paesi poveri, ma i paesi poveri, di fatto, a sviluppare quelli ricchi; e lo stanno facendo dalla fine del 15° secolo, come giustamente ha sottolineato l'antropologo e scrittore Jason Hickel in un recente libro.
Il divario oggi, però, ha radici ancora più profonde. Sette persone su dieci vivono in luoghi dove la disuguaglianza è cresciuta negli ultimi 30 anni: tra il 1988 e il 2011 il reddito medio del 10% più povero è aumentato di 65 dollari, meno di 3 dollari l'anno, mentre quello dell'1% più ricco di 11.800 dollari, vale a dire 182 volte tanto. In Italia, stando ai dati del 2016, i primi 7 super-ricchi posseggono un patrimonio superiore a quello del 30% più povero mentre l'1% più ricco può contare su oltre 30 volte le risorse del 30% più povero e 415 volte quelle del 20% più povero. Per quanto riguarda il reddito tra il 1988 e il 2011, il 10% più facoltoso ha accumulato un incremento di reddito superiore a quello della metà più povera degli italiani.

Uso retorico e strumentale

Nella storia della civiltà umana in questi ultimi tre secoli, il lavoro è diventato una vera e propria religione e/o ideologia che si è inserita all'interno delle nostre vite, permeando ogni nostra relazione, al punto che non riusciamo più neppure a immaginare una vita senza il lavoro.
Il tema del lavoro, incluso l'uso retorico e strumentale del termine, ha caratterizzato tutto il '900. Ha ispirato la Costituzione della nostra Repubblica che lo ha dichiarato diritto e dovere del cittadino, è stato codificato in legge (Statuto dei lavoratori) e ha trovato centralità anche nel fascismo con l'enfasi propagandistica sulla «nazione proletaria». Perfino i campi di concentramento nazisti venivano presentati cinicamente come campi di lavoro; si pensi, ad esempio, alla Arbeit Macht Frei sul cancello d'ingresso di Dachau e di molti altri lager: una funerea ironia per indicare nel lavoro il raggiungimento della «libertà». Per non dimenticare poi i famosi campi di «rieducazione» in URSS e nella Cina di Mao Tse-tung.
Ma è con il passaggio dalla prima alla seconda rivoluzione industriale e con l'avvento del fordismo, negli anni Trenta del '900, che il lavoro ha assunto una dimensione totalizzante: ha portato alla trasformazione radicale della società e al superamento delle forme di lavoro fondate sull'artigianato e sull'operaio di mestiere; ha plasmato l'uomo come proprio strumento (il tempo, l'ambiente, le abitudini, il vivere) e si è posto non solo come tecnica scientifica di produzione, ma ha inaugurato un «organico e inedito modello sociale»: «un sistema integrato di nuove tecniche», ha scritto Marco Revelli riferendosi all'idea di fordismo formulata da Gramsci in Americanismo e fordismo, «nuove relazioni sociali e nuove forme istituzionali focalizzate intorno alla centralità della produzione».
Come ha acutamente osservato il sociologo francese Alain Bihr, l'avvento del fordismo ha avviato la «parcellizzazione e meccanizzazione del processo di lavoro» alterando la composizione socio-professionale (o “tecnica”) del proletariato occidentale e portando alla «totale integrazione dei consumi del proletariato nel rapporto salariale», con la conseguente e progressiva scomparsa della produzione domestica, l'imposizione via via di uno «standard medio di consumo» (alloggi e merci strumentali come le automobili e gli elettrodomestici), l'accesso al «credito al consumo» attraverso la regolazione dei livelli salariali e la «socializzazione del salario grazie allo sviluppo del “salario indiretto”», volto all'individuazione dei servizi sociali gestiti dallo Stato (il Welfare State come fondamento del compromesso fordista).
Non solo: l'accesso al consumo generale e al soddisfacimento di bisogni indotti ha generato nel proletariato l'aspirazione a un cambiamento di status sociale in senso borghese, con conseguente perdita o autolimitazione della propria coscienza identitaria. La produzione di beni e merci, la stessa tecnica come strumento di impiego di forza-lavoro, ha persino sovvertito la finalità e l'uso strumentale del lavoro, arrivando al suo opposto, rivelando le merci non solo come feticci (come intuito da Marx ben prima dell'avvio del fordismo), ma presentando la stessa tecnica, fine a se stessa, come «dialettica negativa della modernità, che segna, appunto, l'approdo estremo, terminale e non reiterabile della parabola della razionalità strumentale, rovesciarsi in radicale distruzione di senso». Hiroshima, in tal senso, ha costituito l'epifenomeno del «mostruoso» dispiegarsi della modernità, della produzione e del lavoro ad esso correlato, in cui l'uomo utilizza la tecnica non più come mezzo di produzione, ma per produrre la distruzione dell'umanità, cioè di se stesso.
Eppure, nelle società avanzate, come quelle dell'Europa e del Nord America, il lavoro è in crisi da molti decenni, almeno dagli anni '70 e '80. Una crisi che rappresenta l'altra rottura che si è avuta con l'avvento del ciclo di mobilitazione della fine degli anni '60, in cui è stata posta seriamente e radicalmente in discussione l'impostazione del compromesso fordista: «sorgeva così», ha sottolineato Bihr, «la cosiddetta “crisi del lavoro”, riguardante insieme la natura del lavoro fordista (rifiuto di un lavoro alienante) e il ruolo del lavoro nell'esistenza individuale e sociale (rifiuto di fare del lavoro il fulcro della propria vita)».

Perdita della centralità del lavoro

La crisi ha accompagnato in questo periodo anche la crisi economica, ambientale e istituzionale, in particolare quella delle cosiddette democrazie avanzate, del loro modello economico di sviluppo, una crisi che sta toccando, nell'impatto relativo ai cambiamenti climatici e nello sfruttamento delle risorse naturali energetiche, il punto di non ritorno. Inoltre, a questa crisi ne è seguita un'altra: quella prodotta dalla «rivoluzione tecnologica informatica».
L'aumento della tecnologia inserita nei processi produttivi ha creato un nuovo paradigma del sistema di produzione, ora fluido e flessibile, che ha trasformato rapidamente e sostituito i vecchi modelli e ha inaugurato una nuova epoca scandita dal venir meno del fondamento stesso del compromesso fordista: i margini per l'accesso al consumo dei lavoratori si sono progressivamente ristretti, come anche i servizi sociali forniti dallo Stato, mentre il luogo del lavoro si è frammentato. La fabbrica, intesa «come spazio omogeneo e contiguo, separato nettamente da un ambiente esterno considerato potenzialmente ostile o comunque produttivamente inerte», si è disciolta in rivoli sempre più piccoli, si è cioè capillarizzato il «luogo del lavoro» al punto da invadere lo spazio della vita privata, «fino a rendere quasi impercettibile quella differenza tra luoghi della produzione organizzata e luoghi della vita sociale che era stata costitutiva della modernità economica fin dai tempi della prima rivoluzione industriale».
L'età della globalizzazione è l'età della genericità e della mancanza di riferimenti sia spaziali (come la fabbrica di una volta), sia temporali (non esiste più nella maggioranza dei casi il lavoro come posto fisso e con un orario stabilito), sia funzionali (oggi nella vita di un salariato è diffusa la possibilità di svolgere più mansioni e più professioni). Questo è l'effetto della flessibilità di un mercato che ha come regola l'assenza di regole.
Negli ultimi due decenni del '900 si è sviluppato in Occidente un dibattito sulla perdita della centralità del lavoro nelle società avanzate. Alcuni intellettuali si chiedevano se questa crisi della società del lavoro dovesse essere intesa come la fine della possibilità della rivoluzione del lavoro. Tale riflessione nasceva dalla constatazione che era in atto un processo di riduzione sostanziale della classe operaia industriale, si profetizzava la «fine del proletariato», con tutte le conseguenze teoriche e politiche derivanti da questa formulazione. Jeremy Rifkin, economista e sociologo statunitense, nel 1995 pubblicava La fine del lavoro che divenne subito un bestseller internazionale. Rifkin prevedeva la prossima e definitiva affermazione delle macchine sul lavoro umano, proponendo possibili soluzioni per ridurre l'impatto sociale e anzi trarre vantaggio da questa trasformazione. Più o meno in questi anni iniziavano anche a uscire varie nuove riflessioni contro il lavoro.
Una delle prime è stata quella del Gruppo della redazione della rivista tedesca «Krisis» che, nel 1999, ha pubblicato il Manifesto contro il lavoro. La tesi sostanziale di questo gruppo è quella per cui la società odierna si trova nel bel mezzo di una crisi senza ritorno della società del lavoro. La merce-lavoro, infatti, scarseggia, e nessuna politica di welfare, così come nessuna opzione di stampo liberista, riusciranno a restaurare il mito decadente del lavoro. La disoccupazione, dovuta principalmente al progresso tecnologico e informatico, diverrà sempre più massiccia, mettendo così in forse non soltanto la sussistenza materiale dei cittadini-lavoratori, ma anche la capacità stessa del capitale di progredire nel processo di accumulazione.
Il lavoro, in sostanza, starebbe scomparendo, e il capitalismo, di conseguenza, si starebbe avviando verso la sua crisi definitiva.

Espansione (senza precedenti) della disoccupazione

A ben guardare, però, in questi anni si è invece realizzata una palese espansione del lavoro salariato, a partire dall'enorme ampliamento del processo di salarizzazione nel settore dei servizi: si è verificata una significativa eterogeneizzazione del lavoro, espressa anche mediante la crescente incorporazione di un ampio contingente di manodopera femminile e minorile nel mondo operaio, ciò in modo particolare nel sistema produttivo asiatico che rappresenta sempre più l'asse portante dell'economia mondiale; nel contempo si è anche intensificata una sottoproletarizzazione – grazie all'espansione del lavoro part-time, precario, subappaltato, interinale, che caratterizza la società duale nel capitalismo avanzato – della quale il lavoro in nero è un esempio, così come l'enorme contingente di lavoro immigrato che si dirige in un flusso inarrestabile verso il Primo mondo, alla ricerca di ciò che rimane del welfare occidentale – in verità ben poco –, rovesciando il flusso migratorio dei due secoli precedenti, che dal centro del mondo economico in sviluppo si dirigeva verso la periferia.
Il più brutale risultato di queste trasformazioni in particolare in Europa, è stata l'espansione, senza precedenti, della disoccupazione che va di pari passo alla crescita demografica dei paesi sottosviluppati e che colpisce il mondo su scala globale. Un periodo storico, questo, caratterizzato da una costante politica militarista e guerrafondaia funzionale al controllo delle risorse energetiche ma che nel contempo ha alimentato politiche fondamentaliste, non solo in campo religioso ma anche in quello più propriamente politico dove tendono a emergere movimenti sovranisti e nazionalisti.
Il rifiuto, quanto meno del mito del lavoro, negli ultimi anni di fatto si è andato saldando, anche praticamente, a situazioni di miseria ed estrema precarizzazione che, ad esempio in Grecia ma pure in alcuni casi nella Torino degli Squat o di altre metropoli europee, hanno visto la nascita e lo sviluppo di «economie» altre – o «pirata» – che prescindono, anche se forzatamente, dal lavoro produttivo. Soluzioni «illegali» – di recupero, di organizzazione della marginalità, di fuoriuscita dal ciclo della merce, di mutua solidarietà, di cultura del dono, delle coltivazioni urbane etc. – che, se da un lato si muovono sul ristretto terreno della mera sopravvivenza, dall'altro più o meno consapevolmente prospettano e praticano una società che non ha più al centro il binomio lavoro/consumo e le sue relazioni di potere.
Resta ovviamente da capire quanto l'autogestione della miseria possa tornare utile a uno Stato, non più in grado di fornire alcun welfare, per scongiurare conseguenze/insorgenze sociali ben più gravi. Ma al di là del rifiuto del lavoro e della possibilità di costruire isole di resistenza del non lavoro – esperienze che possono nascere in particolari condizioni sociali ed economiche – per affermare la propria identità etica «alternativa», oggi più che mai s'impone la necessità di aggredire la divisione sociale del lavoro e la sua gerarchia offrendo una prospettiva politica d'uscita.

Riduzione del tempo di lavoro a parità di salario

Urge ripensare la critica al lavoro, di rinnovare le basi teoriche «per concretizzare l'utopia della fine del lavoro» al fine di avviare una riduzione sostanziale del lavoro socialmente necessario, del tempo che la società nel suo insieme – e dunque ciascun membro – deve consacrare alla riproduzione materiale e organizzativa. Ad esempio, per Bihr «questa prospettiva corrisponde a una aspirazione e a un sogno tra i più antichi dell'umanità, che oggi cessa di essere pura utopia grazie allo sviluppo delle nuove tecnologie elettroniche» grazie alle quali a fronte di un incremento delle potenzialità della produttività, offrono l'occasione di «lavorare (molto) meno».
Fa parte di questa considerazione la consapevolezza che oggi il capitalismo sta realizzando questa «utopia», trasformandola però in un vero incubo. «Infatti, la riduzione del tempo di lavoro necessario, reso ineluttabile dallo sviluppo tecnologico, prende la forma di un massiccio sviluppo della disoccupazione e del precariato». D'altronde, «la produzione sociale resta prigioniera di rapporti capitalistici e la riduzione del tempo di lavoro necessario costituisce soltanto un mezzo per aumentare il pluslavoro (il plusvalore)». Questa condizione di forte subalternità dei proletari che al giorno d'oggi gioca sulla «frammentazione» – ovvero su una molteplicità di figure socio-giuridiche eterogenee, risultato di una crescita della disoccupazione e del precariato – è una minaccia costante ai diritti dei lavoratori e alla loro unità, che si frappone nettamente all'idea di «lavorare meno, lavorare tutti e a parità di salario».
Ogni aspirazione di ogni giovane che si affaccia al mondo del lavoro, e che aspiri non solo a un salario decente ma anche a un'attività «socialmente utile», «attraente» e gratificante, è frustrata da una condizione concreta dove si mantiene un forte livello di alienazione nel processo produttivo, con alta precarietà e bassa qualità del lavoro. Va ricordato che «lavoro utile» è quello che porta alla formazione di valore d'uso ed è perciò condizione necessaria per l'esistenza umana; in questo senso è indipendente dalla forma di società in cui si svolge, essendo il suo scopo quello della mediazione nel rapporto tra uomo e natura.
D'altronde, nell'età dell'automazione e della terza rivoluzione industriale, il solo mezzo per rispettare il principio di un lavoro per tutti è la riduzione del tempo del lavoro a parità di salario. Nel sistema economico capitalista, il capitalista acquista col salario non il lavoro svolto dal produttore ma una parte del suo tempo; la quantità di tempo necessaria per fabbricare un oggetto misura il suo valore di scambio; la misura del tempo quindi è «un dato indispensabile» alla produzione e si concreta nei calcoli relativi alla giornata lavorativa, basati sui tempi del lavoro socialmente necessario e sulla forza produttiva o produttività del lavoro, che dipende dal grado medio di abilità dell'operaio e dal grado di sviluppo tecnologico degli impianti. Quanto maggiore è la forza produttiva, tanto minore è il tempo di lavoro necessario per produrre una data quantità di merce nell'unità di tempo; ciò indica che per ottenere una certa produzione giornaliera si può ricorrere tanto al miglioramento degli impianti quanto a un aumento delle ore lavorative nella giornata.

Quale reddito sociale?

Il capitalismo, nella sua lunga storia, è ricorso e ricorre indifferentemente alle due soluzioni. La durata della giornata lavorativa è stata ed è calcolata sulla base di pure esigenze economiche: l'uomo è qui semplicemente il mezzo per raggiungere uno scopo a lui estraneo, cifra di un calcolo economico in cui, fino a quando non riguarda l'entità del profitto, la durata della vita della forza-lavoro è priva di interesse. Il calcolo infatti deve limitarsi a prevedere un logoramento «normale» di tale forza; ma che cosa significa normale? Il termine è molto vago e su questo si sviluppa una controversia tra classe operaia e capitalisti per definire la durata contrattuale della giornata lavorativa «normale», che solo la forza può decidere.
In questo senso riprende vigore e attualità nella battaglia per il superamento della divisione sociale del lavoro – ma anche per l'allargamento e la radicalizzazione del processo per una vera democrazia sociale – il superamento della divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale che richiede inevitabilmente un'imprescindibile «democratizzazione delle competenze» (come profeticamente sottolineato a suo tempo da Bakunin e Kropotkin), che a sua volta presuppone una formazione permanente, generale, professionale, inconcepibile senza una riduzione sostanziale del tempo di lavoro necessario.
La democratizzazione delle capacità costituisce anche una delle condizioni affinché un maggior numero d'individui possa accedere all'esercizio di mansioni professionali qualificate, complesse e creative. E, nondimeno, una condizione per accedere ai processi politici decisionali, così come all'autogestione dei compiti collettivi e alla produzione sociale nel suo complesso, processi fondamentali per l'avvio di un percorso di transizione da una società ineguale a una egualitaria e libertaria. Liberarsi dal lavoro necessario, riducendolo al minimo indispensabile, non impedisce tuttavia di cercare di liberarsi da ciò che ne resterà, ossia di cercare di trasformarne profondamente i modi e i contenuti. Insomma, se occorre lavorare meno per poter lavorare tutti, si tratta nello stesso tempo di lavorare in maniera diversa.
Inoltre, ogni politica di riduzione del tempo di lavoro prevede dunque necessariamente, in una forma o in un'altra, un «reddito sociale garantito». Nelle mani della classe dominante, il reddito sociale garantito diventa un «salario di disoccupazione e di precarietà», un «aiuto caritatevole» che la società capitalista concede a coloro che essa stessa emargina. In questa versione, il reddito sociale garantito ha unicamente lo scopo di rendere l'esclusione sopportabile, permettendo a questa società di perpetuarsi e scongiurare rischi della crisi economica e politica. Al contrario, la forma di reddito sociale garantito che il movimento operaio e le forze rivoluzionarie dovrebbero rivendicare, dovrebbe avere un'altra natura.
Occorre difendere un'idea di reddito sociale garantito come diritto riconosciuto dalla società a ciascuno per tutta la durata della vita, come controparte dell'obbligo di partecipare al lavoro socialmente indispensabile che necessariamente e progressivamente si ridurrà. Solo in questa forma, il reddito sociale garantito rispetta la dignità e, soprattutto, la libertà dell'individuo conferendogli un diritto sulla società come contropartita dell'adempimento dell'obbligo sociale. Le forme di «reddito minimo» proposte, o messe in atto, costringono invece la persona nella condizione di proscritto, a cui è impedita la possibilità di condurre una normale vita sociale a cui degli organismi, pubblici o privati, possono in ogni momento chiedere conto.
Da un punto di vista rivoluzionario e libertario, la proposta, ad esempio, del «reddito di cittadinanza» andrebbe liquidata come l'espressione moderna dell'antico sogno piccolo borghese di un capitalismo per soli borghesi. Si immagina infatti un mondo con più redditi senza porre la domanda dell'origine del valore. La produzione di merci non interessa, l'importante sono i soldi. Idolatria del denaro in versione hardcore, o come ha scritto l'economista punk-marxista Giulio Palermo, un «nuovo feticcio dell'economia volgare»! Pretendiamo dai giovani lavoro senza retribuzione (tra stage, tempo di lavoro a scuola, volontariato ecc) però si pensa di dare un reddito in cambio di nessun lavoro che è comunque una forma di marginalizzazione delle nuove generazioni.
Il lavoro, la civiltà del lavoro, dunque, che si è affermata dalla Rivoluzione industriale ai nostri giorni non è, e non può essere, il fine principale del futuro dell'umanità. Questo abbiamo il dovere di comunicare e trasmettere alle presenti e future generazioni. Lo sviluppo dell'umanità e la sua felicità dipenderanno, al contrario, da quanto riusciremo a liberarci dal lavoro come esso è inteso oggi, per riconquistare il nostro tempo, la nostra vita, rivendicando anche il «diritto all'ozio».

Franco Bertolucci

Questo testo è un estratto della relazione presentata al Festival Con_Vivere, Carrara, 6-9 settembre 2018.

Leggere il lavoro

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