rivista anarchica
anno 48 n. 427
estate 2018


dibattito femminismo

La sfida intersezionale

di Elena Tognoni

“La sfida intersezionale dei femminismi tra umani, animali e natura” è il titolo originario di questo scritto. Una riflessione sull'evoluzione dei pensieri femministi a contatto con le problematiche poste da approcci ecologici e vegani. Un dibattito aperto.

Noi non possiamo addurre come scusa l'ignoranza, ma solo l'indifferenza. La nostra generazione sa come stanno le cose. Siamo noi quelli a cui chiederanno a buon diritto: tu che cos'hai fatto quando hai saputo la verità sugli animali che mangiavi?”
Jonathan Safran Foer

Quando mio fratello (già sul finire del 2015) ha deciso di diventare vegano, sono rimasta sorpresa - e sconvolta - dalla sua scelta: fino ad allora non avevamo mai parlato di animali e di alimentazione, per entrambi gli animali erano cibo e non ci eravamo mai interrogati sull'origine di questo legame... Sarò per sempre grata a mio fratello per questo “scossone” della coscienza.
Da quando ho iniziato ad interrogarmi, come sempre accade per le grandi domande, la ricerca non si è sostanzialmente mai esaurita: più ci si interroga, più le questioni diventano grandi, coinvolgono altri ambiti, toccano e si intersecano con diversi temi. Più leggevo, studiavo, mi documentavo, più mi rendevo conto di quanto tutto quello che stavo scoprendo fosse ingiusto, di quanto il nostro modo di vivere presupponesse un privilegio invisibile e intoccabile, quello umano.
Mi sono sempre considerata una femminista: mi sono occupata di storia delle donne, della storia dei nostri diritti, prima negati, ancora oggi minacciati; credevo di essere una persona consapevole, consapevole del mio ruolo nel mondo, della mia storia come giovane donna bianca, occidentale, consapevole del privilegio che porto con me, nei miei geni. Eppure, quando ho scoperto quale sia l'impatto delle mie scelte alimentari sulle donne del Sud del mondo e sulle femmine delle altre specie, i cui corpi riproduttivi, come il mio, sono violentati, annichiliti, sfruttati, e poi uccisi, ho dovuto rimettere tutto in discussione.
Il femminismo, inteso come metodo di lettura della realtà, è un discorso critico che tende a rivolgere domande scomode su tutte le forme di oppressione e che mette in discussione le strutture sociali, storiche, culturali delle dinamiche di dominio. In alcuni paesi occidentali, l'oppressione e la discriminazione nei confronti delle donne sono oggi meno evidenti e meno immediati di 50 o 60 anni fa: le donne hanno accesso al voto, le donne possono lavorare, le donne hanno praticamente accesso a tutti i tipi di professione e hanno garantiti tutti i cosiddetti “diritti umani”. A prima vista potrebbe sembrare che non sia più necessario un movimento femminista, e questo è esattamente ciò che il sistema vuole che crediamo: che il femminismo sia qualcosa del passato.
Ma se andiamo più in profondità e ampliamo la nostra prospettiva, le sfide sono oggi più grandi che mai, e le parole chiave sono tutte intorno a espressioni come “oppressioni interconnesse” e “riconoscimento dei privilegi”.
Dobbiamo ringraziare le riflessioni del femminismo Black per la consapevolezza di come i diversi livelli di oppressione e discriminazione debbano essere riconosciuti per essere adeguatamente combattuti: il femminismo nero è stato il primo ad aver parlato appunto di intersezionalità volendo sottolineare come sessismo e razzismo non siano due fenomeni diversi, divisi, separati, ma come invece non solo si intersechino nella vita delle donne nere, ma anche e soprattutto come provengano da un'origine comune. Il mancato riconoscimento di questa radice è il vero mezzo attraverso cui le discriminazioni si mantengono e rinforzano.
Per avere femminismi veramente inclusivi e intersezionali, dobbiamo tornare all'inizio: il femminismo si è affermato come “la nozione radicale che anche le donne sono esseri umani”. Il problema è che quella stessa nozione di “umanesimo”, di “ciò che definisce l'umano” non è mai stata messa in discussione. Le femministe hanno dato per scontata la correttezza della nozione occidentale di “umano”. Non è sufficiente ridefinire le donne dall'essere meno che umani ad esseri umani. Quello che dobbiamo fare è mettere in discussione la nozione stessa di ciò che si definisce umano e, andando ancora oltre, mettere in discussione la nozione di essere umano come l'elemento in cima a tutte le gerarchie. I femminismi della terza ondata hanno riconosciuto che i problemi con le società umane (e specialmente quelle occidentali) si fondano su concetti binari che creano dinamiche di gerarchia e privilegio come maschio/femmina, bianco/nero, cultura/natura, ecc.

L'archetipo delle oppressioni: il privilegio umano

Ho iniziato questo articolo dicendo che il femminismo è qualcosa che riguarda le oppressioni, in tutte le sue possibili forme. C'è una sola scuola di pensiero femminista che sin dall'inizio ha sfidato la nozione di umano, e che ha approfondito e allargato le lotte delle femministe creando una visione inclusiva di tutte le oppressioni e di tutti gli esseri viventi oppressi: questa scuola di pensiero si definisce “EcoFemminismo”, o meglio ecofemminismi, al plurale, in quanto le teorie ecofemministe si articolano in varie formulazioni e sono da considerarsi parte sia dell'ecologismo, che del femminismo (o meglio degli ecologismi e dei femminismi).
Gli ecofemminismi sfidano direttamente il “concetto binario” e portano il concetto di “intersezionalità” (per il quale - voglio ribadire - dobbiamo ringraziare le femministe nere e la loro profonda analisi delle strutture di oppressione e discriminazione) ad un nuovo livello: non solo le categorie di sesso, razza, classe, ma finalmente anche la categoria di umano/non umano, che è poi la categoria delle “specie”, viene aggiunta all'analisi teorica.
Per citare le parole della più famosa ecofemminista del movimento, Carol J. Adams: “L'uguaglianza non è un'idea; è una pratica. La pratichiamo quando non trattiamo altre persone o altri animali come oggetti”.1
Le femministe avevano (e hanno tuttora) il grande merito di aver problematizzato, discusso e svelato molti privilegi. Gli ecofemminismi sfidano l'archetipo di tutte le oppressioni: il privilegio umano. Ciò è particolarmente interessante in quanto, in diversi momenti della storia, gli uomini hanno usato la categoria di “animale” per molti esseri diversi, compresi gli esseri “umani” (come tutti sappiamo, comprese le donne e i neri) sottolineando ancora una volta come le categorie oppressive non siano soltanto dannose in sé, ma per il modo in cui possono essere utilizzate e interpretate. Tutti quelli che, di volta in volta, sono stati identificati come “animali” sono stati oppressi, discriminati e uccisi. Ecco perché è il concetto stesso di “animalità” ad essere problematico.
La prospettiva è rivoluzionaria perché richiede alle femministe di interessarsi non solo agli esseri della specie umana, ma di allargare la riflessione a tutti gli esseri viventi, compresi quelli di altre specie. C'è un solo e potente esempio che mi ha colpito da quando l'ho scoperto la prima volta (e posso sicuramente dire che scoprirlo ha cambiato la mia vita di donna, come attivista e femminista): come posso considerarmi una femminista, lottando per porre fine all'oppressione e alla discriminazione, se non mi interessa (e peggio, se prendo parte) al sistema che manipola, abusa e sfrutta i corpi riproduttivi di animali come le mucche, che vengono ingravidate solo perchè così noi - umani - possiamo ottenere il latte che vogliamo sui nostri tavoli e nel nostro cibo? Sono profondamente convinta che i diritti riproduttivi e i corpi riproduttivi delle femmine di non-umani sfruttati per il privilegio degli esseri umani siano particolarmente problematici da una prospettiva femminista, una prospettiva che si è giustamente occupata della libertà dei corpi femminili di essere scollegati dal loro potenziale riproduttivo.
Angela Davis, probabilmente una delle più grandi femministe, teoriche e attiviste nere di tutti i tempi, ha recentemente rilasciato un'intervista in cui usa le seguenti parole: “Com'è sedersi a tavola e mangiare quel cibo che viene generato solo per lo scopo del profitto e che creano tanta sofferenza?”2
È così che si entra in un campo ecofemminista ancora più specifico, cioè l'eco-femminismo vegano: la mia lotta femminista per porre fine alle oppressioni include la scelta di smettere di nuocere e uccidere gli animali, la scelta di smettere di vedere gli animali come cibo, e iniziare a riconoscer loro il diritto alla vita e di esseri senzienti.

Suffragette e vegetariane

Potremmo pensare che si tratta di una corrente femminista molto nuova, ed è anche quello che ho pensato quando ho incontrato per la prima volta il lavoro di alcune ecofemministe, come Carol J. Adams (probabilmente la più famosa), Marti Kheel, Greta Gaard, o il lavoro rivoluzionario di Amie Breeze Harper, precursora nel campo dell'ecofemminismo nero con il suo lavoro pionieristico “Sistah Vegan”. Ma quando ho terminato la mia tesi specialistica in Storia, che ho deciso di scrivere proprio su questo movimento femminista, la vera sorpresa è emersa: gli intrecci tra il movimento femminista e la liberazione animale hanno radici molto profonde e antiche, che provengono direttamente dalle origini di entrambi i movimenti, e risalgono alla seconda metà del 1800, all'interno del movimento Suffragista del Regno Unito.
È così che ho scoperto come le suffragette combattevano sia per il loro diritto al voto, sia per porre fine alla vivisezione. Molte di loro erano vegetariane, organizzavano cene vegetariane per raccogliere fondi per le loro campagne e per i loro incontri si davano appuntamento nei primissimi ristoranti vegetariani di Londra. Ciò che è interessante notare è che ciò che queste donne hanno realizzato: e cioè che la loro situazione di donne aveva molto in comune con la situazione in cui vivevano gli animali:
“Vedere questa pecora sembrava rivelarmi per la prima volta la posizione delle donne in tutto il mondo. Mi sono resa conto di quanto spesso le donne siano disprezzate come esseri al di fuori della dignità umana, escluse o confinate, derise e insultate a causa di condizioni di cui non sono responsabili, ma che sono dovute a ingiustizie fondamentali nei loro confronti, e agli errori di una civiltà che non hanno potuto contribuire a formare”.3

E l'ambiente?

Proprio come danneggiare gli animali è una questione femminista, anche danneggiare l'ambiente è una questione femminista. Peccato che, spesso, la preoccupazione per l'ambiente non sia direttamente collegata al consumo di carne: sono dati ormai noti. L'allevamento animale è responsabile del 20% delle emissioni di gas serra, più delle emissioni combinate di tutti i settori del trasporto. L'allevamento animale è responsabile per l'80-90% del consumo di acqua negli Stati Uniti. Sono necessari 2.500 litri d'acqua per produrre 1 chilo di carne di manzo. L'allevamento animale è responsabile per il 20%-33% di tutto il consumo di acqua nel mondo.4 E, per finire: un terzo delle risorse idriche mondiali viene utilizzato per l'allevamento, e il 70% della produzione globale di cereali finisce nelle mangiatoie degli animali da macello, sottraendo cibo e risorse alle popolazioni umane povere: attualmente stiamo coltivando abbastanza cibo per nutrire 10 miliardi di persone.
Uccidendo gli animali stiamo danneggiando e uccidendo il pianeta. Il femminismo non dovrebbe avere paura di dire la verità: scoprire e sfidare ciò che è considerato “normale” è sempre stata la missione femminista.

Allargare gli orizzonti

L'eco-veg-femminismo porta le prove di come diverse forme di sfruttamento e oppressione siano interconnesse. Non possiamo porre fine a una forma di oppressione o un'altra; non possiamo scegliere di prenderci cura di una sola forma di oppressione (Donne? Animali? Ambiente?): dobbiamo renderci conto che, identificando le radici del sistema oppressivo, tutte le oppressioni saranno affrontate.
“Tutte le disuguaglianze sociali sono collegate. Un completo cambiamento sistemico avverrà solo se saremo consapevoli di queste connessioni e lavoreremo per porre fine a tutte le disuguaglianze - non solo le nostre preferite o quelle che influenzano più direttamente la nostra parte dell'universo. Nessuno è in disparte; con le nostre azioni, o inazioni, con la nostra cura o indifferenza, siamo o parte del problema o parte della soluzione.”5
Questa è oggi la più grande sfida per il femminismo: riscoprire una prospettiva più ampia e inclusiva all'oppressione e alla violenza, che includa finalmente esseri viventi di tutte le specie e riconnetta gli umani, i non umani e la natura in un mondo pacifico e gentile per tutti.
Mi rendo conto di quanto il tema sia scottante: nonostante l'origine patriarcale e maschile delle strutture sociali in cui siamo tutti e tutte incastrati, quando si volge lo sguardo allo sfruttamento animale, è anche il genere femminile ad essere messo “sotto accusa”, in quanto portatore di quel privilegio dell'umano rispetto al non-umano, la base della dinamica specista e antropocentrica. Mi auguro che il movimento femminista, anche e soprattutto quello italiano, abbia il coraggio di allargare i propri orizzonti e di mettere in discussione il proprio privilegio.

Elena Tognoni

  1. Adams Carol J., The Sexual Politics Of Meat, Continuum, New York 1991
  2. “Vegan Angela Davis Connects Human and Animal Liberation” su www.counterpunch.org
  3. Leah Leneman, The awakened instict: vegetarianism and the women's suffrage movement in Britain in “Women's History Review”, p. 279
  4. Gerbens-Leenes, P.W. et al. The water footprint of poultry, pork and beef: A comparitive study in different countries and production systems. “Water Resources and Industry. Vol. 1-2”, March-June 2013, Pages 25-36
  5. Michelle R. Loyd-Paige, una delle ecofemministe incluse nel libro Sistah Vegan.