rivista anarchica
anno 48 n. 427
estate 2018


architettura

Freespace

di Franco Bunčuga

Freespace: parola che volendo potremmo tradurre dall'inglese come spazio libero, spazio gratuito, spazio esente, spazio franco, spazio disponibile, spazio sciolto. Ma anche per assonanza volendo: spazio inutilizzato, spazio liberato, spazio vuoto, spazio vacante, spazio pubblico, spazio disponibile. E molto altro. Dal nostro inviato alla 16a Biennale di Architettura, aperta a Venezia fino al 25 novembre.

Visitatori sovrastati dal caotico bric-a-brac
dell'installazione Lieux Infinis nel padiglione francese


Si sa, la lingua degli inglesi è più sintetica e ha meno aggettivi e bizantinismi di noi, forse per questo nel mondo anglo-sassone a volte si confondono ambiti diversi o semplicemente si fa difficoltà a comprendere la complessità dei problemi. Coscienti di questo handicap, credo, le curatrici per declinare nei significati più ampi e esaurienti lo spunto iniziale attorno al quale ruota la loro intuizione iniziale, il concetto di FREESPACE che informa la Biennale di Architettura veneziana in corso, chiedono aiuto ad altre lingue, aprendo un mondo. O forse il vaso di Pandora.

Per noi l'architettura è la traduzione di necessità – nel significato più ampio della parola – in spazio significativo. Nel tentativo di tradurre FREESPACE in uno dei tanti splendidi linguaggi del mondo, speriamo che possa dischiudere il dono che l'invenzione architettonica ha la potenzialità di elargire con ogni progetto.”

Così le curatrici. Per loro lo spazio libero, il FREESPACE, fondamentalmente è quell'elemento che definisce l'architettura per il semplice fatto di esserne respinto, area di risulta che dialoga con la categoria del dono nelle sue connotazioni di pubblico o privato e solo per accidente coinvolge episodicamente la categoria che più mi interessa, quella del diritto nella sua fondamentale connotazione collettiva. Tra le possibili declinazioni di FREESPACE infatti credo sia interessante investigare in particolare la sua valenza di spazio della libertà o meglio delle libertà possibili. Questa idea di dono, a una prima lettura, presuppone che chi dà e chi riceve siano in posizione gerarchica e che non vi sia necessariamente uno scambio che ponga i soggetti del territorio su un piano orizzontale.
Lo spazio libero si crea, si prende, si conquista non si riceve in dono. Lo spazio veramente libero deve avere in sé l'energia attiva di uno spazio liberato.

La tenda di corde alle Corderie

Compitini fatti bene

Le curatrici dell'edizione di quest'anno, Yvonne Farrel e Shelley McNamara sono conosciute anche come le Grafton dal nome del loro studio Grafton Architects, situato nella omonima centralissima via di Dublino e in virtù della loro consolidata pratica di lavoro comune.

Nel centro di Los Angeles, Star Apartments di Micheal Maltzan Architecture è
un progetto realizzato di edilizia sociale: 102 appartamenti per ex senzatetto
che possono creare all'interno il loro freespace, una forma di auto-costruzione

Le Grafton per dare unità all'esposizione di quest'anno il 7 giugno dell'anno scorso hanno divulgato FREESPACE, un manifesto programmatico che indicava le finalità dell'esposizione e contemporaneamente voleva fornire alcune linee guida ai partecipanti: “Ci è servito come misura e guida per trovare una coesione nella complessità di una mostra di enormi dimensioni”. E la coesione e l'aderenza al tema iniziale in questa edizione sicuramente non sono mancate, così come l'attenta analisi ai singoli progetti selezionati dalle curatrici nella loro sezione tematica.

Uno degli schemi delle città appenniniche di Arcipelago Italia

Una delle cose che mi ha colpito iniziando il percorso dalle Corderie è che a corredo di ogni progetto è stata approntata una efficace didascalia divisa in due parti e bilingue (italiano/inglese): nella prima parte una descrizione a cura dei singoli progettisti, nella seconda un commento delle curatrici, uno strumento veramente utile per orientarsi nei progetti e comprendere il percorso elaborato dalle curatrici. Una bella novità. Siamo stati abituati a edizioni, anche nella scorsa a cura di Alejandro Aravena, in cui la mano del curatore era di difficile percezione: niente grandi documenti programmatici né dettagli esplicativi, solo grandi idee guida e forte presenza mediatica della star di turno.
Questa impostazione con una spiccata connotazione didattica a qualcuno è piaciuta (finalmente un ritorno alla professione e un'attenzione ai singoli progetti) ma a gran parte dei critici è sembrato un limite che finisce con il livellare i progetti e incasellarli in una mostra eccessivamente pedagogica e descrittiva, un po' noiosa, nella quale le due Grafton finiscono per fare bene i loro compitini come due brave maestrine.
In alcuni casi le scelte espositive appaiono più che ovvie: “Secondo noi l'edificio stesso può essere considerato partecipante attivo di questa mostra”, recita il cartello all'ingresso delle Corderie, l'antico edificio in cui si producevano le funi per le navi della flotta veneziana, dove inizia il percorso espositivo curatoriale.
Geniale! Perché le altre volte no?
Comunque per non confonderci e per illustrare il concetto in modo efficace le Grafton hanno posto all'ingresso una bella tendina di ruvide gomene attraverso le quali si deve passare per iniziare la visita. E nel buio dell'atrio una proiezione di immagini storiche dell'edificio in questione.

Il recupero in maniera moderna ed eco-sostenibile
delle tipologie circolari di case collettive nella campagna cinese

Le curatrici hanno allestito una mostra non invadente, come mi aspettavo, minuta, attenta all'architettura costruita, al locale, al terzo mondo, che si articola in un interessante catalogo di progetti spesso professionalmente illustrati da plastici ed elaborati grafici.
La focalizzazione sugli spazi vuoti è in realtà un buon escamotage per introdurre il discorso sull'uso sociale dell'architettura ma poche volte questo obbiettivo viene raggiunto. Spesso i progetti si riducono all'esposizione della loro parte formale. Tranne eccezioni, naturalmente. E come spesso succede alla Biennale, proprio a causa della sua formula particolare, gli spunti più interessanti li troviamo nei vari Padiglioni Nazionali piuttosto che nel nucleo compatto affidato ai vari curatori.
L'esposizione di quest'anno non ha un impatto così forte come quella precedente affidata ad Alejandro Aravena (che peraltro è presente alle Corderie nel settore delle Grafton con un bellissimo e minimalista lavoro sugli spazi liberi) che mediaticamente era tutt'altro personaggio. Quando mesi fa ho assistito alla presentazione stampa virtuale delle curatrici (realizzata via skype nei saloni veneziani della Biennale a causa di un'emergenza meteo in Irlanda che aveva bloccato tutto il traffico terrestre e aereo locale e internazionale) ho capito che questa edizione sarebbe stata ben diversa da quella precedente allestita dal bel architetto col ciuffo.
L'edizione del 2016, che io ritengo una delle migliori degli ultimi anni, è stata molto criticata in pubblico e in privato da gran parte degli architetti e dai critici che conosco. “Ma hai visto che vanesio quello lì con quel ciuffo? Chi si crede di essere?”,“Fa tanto l'architetto alternativo, dice di lavorare per una committenza sociale e per i poveri e poi per gli altri progetti ha a che fare con i fondi speculativi internazionali più rapaci!”, “Sì, libertario quello! Realizza edifici per le favelas solo per farsi nome e far carriera”.
Perché gli altri architetti internazionali che hanno curato le edizioni precedenti erano forse pericolosi rivoluzionari o santi anacoreti?

L'Argentina con “Vertigine Orizzontale”, installazione degli architetti
Javier Mendiondo, Pablo Anzilutti, Francisco Garrido e Federico
Cairoli riproduce artificialmente lo spazio infinito delle sue pampas

Numerose interessanti varianti di spazio libero

Le tipologie di edifici parzialmente auto-costruiti dagli abitanti progettati del suo gruppo Elemental per le favelas sudamericane rimangono comunque un modello per chi lavora alla riqualificazione del tessuto urbano degradato. Tipologie che inoltre Aravena ha gratuitamente messo on line unitamente a tutti i disegni esecutivi di progetto. Tutto Open Source, nelle intenzioni un vero creatore di Free Spaces.
Le Grafton certo non hanno l'aspetto da archistar né fortunatamente inseguono quel modello ormai divenuto logoro e a volte quasi ridicolo. I tempi sono cambiati. In meglio sicuramente, i temi sociali, l'urbanistica, l'autocostruzione e la partecipazione, nostri temi tradizionali stanno tornando attuali negli ultimi anni. Certo il loro aspetto un po' scialbo e le loro mise da vecchie zie molto anglosassoni non le espone a critiche estetiche o ad invidie come è stato per il macho Aravena. Progettiste attente al concreto, al dettaglio e ai materiali, le curatrici si dimostrano attente alla piccola dimensione così come alle relazioni organiche con il tessuto urbanistico, alla comunità accogliente e orizzontale ed esprimono al meglio la loro lettura femminile di una disciplina troppo spesso lasciata all'esigenza maschile di segni forti sul territorio, monumenti, fortezze o altissimi fallici grattacieli che siano.
Non a caso uno dei padiglioni più interessanti a mio parere è il padiglione irlandese che fornisce uno splendido esempio di progettazione comunitaria, fornendo un esempio dell'humus disciplinare da cui parte la loro esperienza. Yvonne Farrel e Shelley McNamara, entrambe docenti universitarie si sono spesso dedicate oltre alla pratica dell'insegnamento alla progettazione di strutture scolastiche, universitarie e edifici pubblici e questa impronta nell'allestimento si percepisce. In Italia sono conosciute per la progettazione della nuova sede della Bocconi a Milano, per aver rappresentato l'Irlanda nella edizione del 2002 della Biennale e per aver meritato nell'edizione del 2012 il Leone d'Argento per il lavoro Architettura come nuova geografia (tema molto sensibile anche nell'urbanistica libertaria).
Molti padiglioni nazionali ed ospiti di questa edizione hanno ben volentieri accettato di dialogare con il manifesto FREESPACE e propongono numerose interessanti varianti del concetto di spazio libero: oltra al padiglione citato mi hanno colpito il padiglione cinese che con Building the future countryside presenta un progetto di rigenerazione urbana dei piccoli centri agricoli in chiave ecologica e con il recupero di forme e tipologie tradizionali, la riflessione tecnologica sul rapporto tra uomo e natura del Padiglione Nordico e la riflessione di taglio politico/sociologico del progetto Lieux Infinis, construire des batiments ou des lieux? (Luoghi infiniti, costruire edifici o luoghi?) del padiglione francese. Veramente coinvolgente il progetto Work, Body, Leisure del padiglione olandese nel quale, tra le altre installazioni, si può assistere alle bed-interviews di Beatriz Colomina e dei suoi ospiti, tutti rigorosamente in bianchi pigiama. Per l'occasione la performer instaura dialoghi provocatori col pubblico sdraiata su un letto in una stanza che riproduce fedelmente la famosa Room 902 dell'Amsterdam Hilton Hotel dove nel '69 John Lennon e Yoko Ono fecero i loro storici bed-in per la pace a favore dei giornalisti di tutto il mondo.
Coraggioso l'esperimento UNCEDED del Canada che per la prima volta presenta le opere di 18 architetti e designer indigeni della Turtle Island che elaborano gli effetti del colonialismo europeo e la forza di resilienza delle culture autoctone.
Ottima anche la scelta del Padiglione Italia curata da Mario Cucinella di investigare i piccoli paesi della dorsale appenninica in vista di un recupero organico e funzionale con il progetto Arcipelago Italia.

La riproduzione della Room 902 dell'Hotel Hilton di Amsterdam nel padiglione olandese

Il vero FREESPACE

Credo comunque che il padiglione più coerente con il manifesto FREESPACE, e aggiungo conseguenza della scarsa flessibilità della lingua inglese di cui sopra, sia alla fine quello Britannico. Il progetto Island infatti è contemporaneamente scioccante e perfettamente coerente con lo humor inglese. Si divide in due parti, Il padiglione abbandonato lo spazio interno assolutamente e coerentemente free, cioè completamente vuoto con le pareti bianche – non perfettamente, si vedono chiaramente i segni delle occupazioni precedenti –, nel quale non c'è alcuna mostra, solo un luogo libero nel quale organizzare incontri o dibattiti in modo anche informale. E La piattaforma una struttura esterna in tubi innocenti, che ricorda le passerelle veneziane per l'acqua alta che conduce a una specie di altana veneziana montata sul tetto del padiglione da cui si gode una vista stupenda sulla laguna. E come tradizione ogni giorno alle sedici, tempo permettendo, sulla piattaforma sarà servito il tè.

Un'altra stanza dell'installazione del padiglione olandese

FREESPACE di riflessione

Alla fine del percorso espositivo mi sembra manchi qualcosa e una domanda sorge spontanea: può esserci FREESPACE in una società che libera – FREE – non lo è affatto? In cui lo SPACE è frutto di speculazione e il metro cubo colonizza il metro quadro senza lasciare centimetri liberi se non per il consumo o per il controllo? Lo spazio libero è gentile concessione del mecenate di turno, del caso, del disinteresse della speculazione o deve essere uno spazio conquistato, difeso e modellato dalla collettività? E ancora, una comunità, organizzata nelle sue istituzioni, è in grado oggi di progettare nel tempo la forma e l'uso del territorio? In poche parole esiste ancora la disciplina dell'urbanistica dopo la celebrazione dell'ubriacatura speculativa del Post Moderno che ha decretato la fine dell'urbanistica e il solo sopravvivere dei singoli oggetti architettonici? In tutto FREESPACE non si tocca il punto: chi deve essere il soggetto del cambiamento del territorio abitato? C'è distinzione tra urbanistica e architettura? Sul tema si glissa, nella parte curatoriale la risposta frammentaria è affidata a tanti piccoli progettini che non dialogano col contesto.
Ogni caratteristica del nostro ambiente celebra la morte dell'urbanistica: una disciplina liquidata in una società liquida. Una disciplina lenta (ragiona sui decenni) in un panorama di continui cambiamenti magmatici delle forme della società e dei suoi esoscheletri cementizi.
Forse lo spazio che caratterizza in maniera più adeguata l'attuale modello urbano è quello che Rem Kohoolas definisce Junk Space, uno spazio spazzatura in continuo divenire affidato alla speculazione e non gestibile dalle autorità territoriali perché non delimitato da confini riconoscibili. Uno spazio in cui il costruito si diffonde senza piano o progettazione urbanistica possibile, un grande cancro a scala planetaria. Anch'esso una possibile – anche se peggiorativa - traduzione di FREESPACE.

Franco Bunčuga