rivista anarchica
anno 48 n. 424
aprile 2018





Anne Henriette Estorges (nota come Rirette Maitrejean)/
Anarchica francese della Belle Epoque

Rirette Maitrejean. Vita di un'anarchica parigina negli anni della Belle Epoque (Arshile booklet, Torino 2015, pgg. 30, € 9,50) è il titolo di un elegante volumetto, dedicato alla memoria dell'anarchica francese Anne Henriette Estorges, più nota come Rirette Maitrejean, scritto da Susanna Fisanotti.
Il testo, semplice ed essenziale, della Fisanotti narra dell'infanzia della Maitrejean (nata il 14 agosto del 1887 in un piccolo borgo della Francia, a Saint-Mexant, nel dipartimento di Correze), delle alterne vicissitudini della sua famiglia (che passa dalla miseria ad un discreto benessere e poi di nuovo ripiomba nella precarietà) e della sua volontà di studiare ed istruirsi per poter, un giorno, andare via, dal luogo natio, nel quale non vede alcuna prospettiva per il suo futuro. Per questo, approda a Parigi, all'inizio del '900, nella città, frenetica e industriosa che per l'Esposizione universale, aveva ospitato 50 milioni circa di visitatori.
Qui, la Maitrejen – ricorda ancora la Fisanotti – trova alloggio nel Fouborg Saint-Antoin e mentre svolge lavori saltuari, frequenta i corsi organizzati dalla Coopèrative des Idées – una sorta di Università popolare, fondata nel 1899 da George Deherme, un ebanista anarchico e da Gabriel Séailles, che è professore alla Sorbona – che saranno fruttuosi per la sua istruzione e che faranno nascere in lei una libera e convinta adesione ai principi dell'anarchia, dei quali diventa convinta propagandista. Ai corsi della Coopèrative des Idées, tenuti da personaggi di gran carisma, come Albert Joseph Libertad “colui che le ha lasciato i migliori e i più puri ricordi dell'anarchia”, incontra Louis Maitrejean, di cui si innamora e che sposa nel 1905, assumendone il cognome.
Il matrimonio e i figli che ne nasceranno, pur impegnandola molto, non le fanno venir meno la passione per l'impegno politico, che si concretizza nell'organizzazione numerosa di azioni di lotta e di protesta per i diritti delle donne e degli oppressi e nella collaborazione al periodico l'anarchie, che ha sede sulla collina di Montmartre, sul quale scrive evidenziando le terribili contraddizioni sociali della capitale francese, in cui c'è chi, ricco e benestante, vive lo splendore della belle epoque e chi, invece, diseredato e misero, patisce stenti e sofferenze. “Noi ameremo fare lunghi vagabondaggi versi i mari maestosi e le salubri montagne, - scrive la Maitrejean - far riposare i nostri occhi su orizzonti dove la natura è ancora sovrana, abbiamo invece davanti a noi i tetti di povere mansarde e gli altiforni, le nostre prigioni quotidiane. E l'inesorabile vita ci porterà schiavitù, dolore e perpetua lotta!”
Frequentando la redazione de l'anarchie, la Maietrajean, conosce Maurice Vandamme, che diventa il suo nuovo compagno, col quale, fra l'altro, farà un viaggio in Italia, nel 1908; poi, sempre nello stesso luogo, incontra Victor Serge, figlio di esuli russi, e a lui si lega in un rapporto d'amore e militanza, che porterà entrambi, nel 1913, in carcere, per avere dato aiuto e protezione a due membri degli “illegalisti” anarchici della Bande à Bonnot.
Uscita dal carcere e lasciata da Serge, la Maietrajean, continuerà a vivere e a lottare per le sue idee anarchiche, a Parigi.
Come annota la Fisanotti, nel secondo dopoguerra, sarà in amicizia con Camus, continuerà la collaborazione con testate libertarie, lavorerà come correttrice di bozze per il famoso editore Flammarion, sino alla morte, a 74 anni, nel giugno del 1968, “proprio nei giorni in cui a Parigi esplode il maggio francese, che vede studenti e operai lottare a fianco nel desiderio di creare una società più giusta e più libera”; “nulla avrebbe reso più felice Rirette che vedere le sue idee rinascere in una nuova generazione”, scrive la Fisanotti, che col suo libretto (corredato da una ventina di belle e rare fotografie d'epoca) rende un utile e grazioso omaggio ad una figura di donna e d'anarchica, forse ancora poco nota ma di certo importante e interessante.

Silvestro Livolsi


Cancro/
Un ammalato denuncia

Con questo contributo, leggero per mole e ponderoso in quanto a contenuti, l'autore Franco Cantù (Controindagine (minima) di un malato sul “male incurabile”. Della patogenesi sociale e dell'eziologia politica del demone-cancro, Nautilus, Torino 2017, pp. 62, € 3,50) decide di affrontare il più scomodo degli argomenti, quello della malattia che inevitabilmente implica anche l'aspetto della morte, e lo fa – come apertamente dichiarato nel titolo – non dalla parte del tecnico del morbo, del professionista, ma da quell'altra, quella del paziente (per la verità impaziente assai) che si rivolta contro lo specialismo e rivendica la sua possibilità di rigirare la sua catastrofe contro il sistema che l'ha prodotta, coltivata e fatta crescere. Perché quella delle patologie di cui il tumore è solo il più fiero e massmediatico rappresentante (a volte scalzato da altre emergenze come aids, ebola, morbillo, meningite e così via a seconda delle esigenze dei ceti politici lautamente sovvenzionati dalle multinazionali) è una storia che non può essere compresa neanche in misura minima se non viene collegata a tutto lo sviluppo di una società alla quale è funzionale la diffusione capillare di malati spaventati e remissivi, non certo di critici radicali dello sviluppo.
Quello di Cantù non pretende certo di essere un esauriente trattato sulla relazione tra strutturazione democratico-capitalista e patogenesi, ma propone una sintesi delle argomentazioni che conducono necessariamente a una sfiducia sostanziale verso “la casta sacerdotale medica”, soprattuto carnefice, ma anche vittima, in quanto i medici: “subiscono una pressione fortissima attraverso la formazione e l'attività professionale che li torce più o meno consapevolmente verso la cura estrema dell'interesse miliardario dell'industria farmaceutica”. Anche se il testo non si addentra in documentazioni specifiche – e forse se proprio si vuole trovare un limite al volumetto è la scarna bibliografia riportata – alcuni passi forniscono spunti di grande interesse per i lettori desiderosi di approfondire. In particolare il capitolo Statistiche che “danno i numeri” descrive con efficacia la qualità dei dati che vengono diffusi e le strategie informative che sostengono validamente l'apparato tutto.
Scrive Cantù: “viene definito guarito colui che sopravvive almeno cinque anni dal giorno della diagnosi. Se muore dopo cinque anni e un giorno, se alla fine del quinto anno ha un cancro enorme che lo sta divorando, sempre di paziente guarito si tratta, grande successo della medicina, proprio perché non è morto nei cinque anni presi in considerazione per convenzione, o per meglio dire, per convenienza. Perché cinque anni?
Perché è stato osservato, storicamente, che la sopravvivenza media di una persona che si ammala di cancro, si attesta proprio intorno ai cinque anni dal momento in cui la malattia si manifesta, tranne le forme più aggressive e a rapida evoluzione, ma questo vale per tutte le malattie, che possono esitare anche in conseguenze fulminanti.
L'aspettativa media di vita di un malato di tumore attesa attorno ai cinque anni si palesa sia nel caso che egli si “curi” sia nel caso non faccia nulla.”
Le argomentazioni di Cantù non sono certo circoscrivibili alla questione cancro, ma occupano evidentemente gli infiniti anfratti della relazione tra istituzioni e corpo, della quale il potere medico-farmaceutico è solo un aspetto, e il piccolo passo fatto dall'autore per contribuire alla critica dell'intero sistema va senz'altro nella giusta direzione, ovvero di un'opera che ha bisogno di contributi molteplici.
Proprio per questo mi pare doveroso dissentire dalla citazione di Riccardo D'Este che recita: “Ciò che nessuno scienziato o filosofo dirà mai, è che l'insieme delle condizioni sociali, l'insieme mondo, ha una valenza più rilevante, e assai, della somma delle sue parti”.
Al contrario, ritengo che l'elaborazione di un approccio complessivo all'interazione tra il corpo-mente dell'individuo con quello degli altri, sia un compito che riguarda tutti, e chi si occupa di ricerca scientifica dovrebbe essere impegnato in prima fila. Anche se è tristemente vero che chiunque abbia avuto esperienza della sanità industrial-tecnologica sa che nella sua feroce e sarcastica descrizione della “casta sacerdotale medica”, Cantù coglie pienamente nel segno.

Giuseppe Aiello


Sindacalismo/
I sindacati “autonomi” tra corporativismo e deriva politicante

La ricognizione del sindacalismo autonomo nato ancor prima della rottura del Patto di Roma nel 1948, quando venne sancita la fine del sindacato unitario, formato oltre che dai sindacati di massa presenti all'epoca dell'immediato secondo dopoguerra, anche dagli anarchici attivi nella Cgil (non tutti e fra molte polemiche interne nel movimento), è la materia del libro di Myriam Bergamaschi I sindacati autonomi in Italia 1944-1968 (BFS Edizioni, Pisa 2017, pp. 336, € 27,00).
L'autrice con passione, competenza storica archivista e bibliografica non comune riporta alla luce una storia sindacale che ha interessato una consistente porzione del mondo del lavoro impiegatizio ed operaio di quegli anni. Si tratta del sindacalismo che si pretendeva autonomo dalla ideologia dei sindacati di sinistra, in particolare dalla Cgil, nonchè dalla Cisl, dalla Uil e dalla Cisnal, ma che si rendeva più direttamente correlato ad alcuni politici di riferimento che si occupavano della gestione governativa del lavoro dipendente pubblico e privato. Viene concretamente descritta la modalità di comportamento del sindacalismo corporativo, che certamente si differenziava dal sindacalismo della CGIL, della CISL e della UIL ed era diametralmente opposto alle esperienze che gli anarchici intrapresero in quegli anni per incidere nel mondo del lavoro, ma che presentava una presa di massa fra i lavoratori.
Questa realtà riportata alla luce dall'autrice certamente fa meditare su quanto fosse compatta e diffusa la resistenza di una parte non trascurabile dei lavoratori a cambiamenti radicali negli equilibri delle forze in gioco nel mondo del lavoro. Come venisse preferita alla lotta di massa, la trattativa di vertice dei vari sindacati con il politico di riferimento, spesso a principale favore dei vertici stessi, ma senza escludere importanti conquiste contrattuali e normative per i sindacalizzati. Eppure si trattava di esigenze dei lavoratori che pur incentrate sul “particulare” e col ricorso allo sciopero quanto meno possibile, erano pur sempre esigenze di miglioramento, che da questi sindacati venivano rappresentate, sul piano dei diritti e sul piano economico. Particolarmente interessanti sono le pagine dedicate all'esperienza del sindacato corporativo all'Olivetti, alla Comunità dell'Olivetti che sappiamo quanto sia stata importante per dare spazio di raccoglimento creativo al nostro Ugo Fedeli. Le pagine dedicate alla nascita del SIDA alla Fiat forse ci possono aiutare a capire come sia stata possibile la “marcia di massa” dei 40.000 quadri FIAT a Torino il 14 ottobre del 1980, comunemente indicata come una linea di svolta delle relazioni sindacali in Italia.
Nell'insieme il libro ci parla di una realtà, quella sindacale corporativa, che è sostanzialmente diversa da quella rappresentata dalla CGIL, CISL ed UIL, che in genere, sul piano della storiografia, non prendiamo in considerazione. La penultima scheda del libro è dedicata all'USI, della quale viene tracciata una breve sintesi dalla sua costituzione a Parma nel 1912 agli anni '60.
Abituati come siamo a tener presente il dibattito che ad Amsterdam vide nel 1907 Malatesta e Monatte chiarire i termini della questione, tenuto conto della nutrita bibliografia che in Italia ha trattato dell'anarcosindacalismo e del sindacalismo rivoluzionario, ricordando la gloriosa CNT, siamo spronati da questo libro a riflettere anche sui problemi più comuni e prosaici, ma fondamentali del lavoro. Come ad esempio l'orario ed il tempo di lavoro al quale l'autrice dedicò un libro oltre 20 anni fa, sempre per le BFS edizioni.

Enrico Calandri


Storia/
L'anarchismo in Calabria

Con il volume di Antonio Orlando, Anarchici e Anarchia in Calabria (Cosenza 2018, pp. 352, € 15,00), prefazione di Donatella Arcuri, la Casa editrice di Emilio Pellegrino, “Edizioni Erranti” (CS), inaugura la collana Refractaria, destinata ad ospitare opere che riguardano storie di anarchici e di anarchismi. Antonio Orlando è uno degli storici calabresi che ha dato tanto e, conoscendo i suoi progetti futuri, darà ancora molti contributi alla ricerca storica sulla Calabria. Avvocato, docente di discipline giuridiche negli istituti superiori, è socio di varie fondazioni e centri studi libertari. Terminata con la pubblicazione a cura di Zero in condotta, la lunga ricerca comune su Francesco Barbieri (Chico il professore. Vita e morte di Francesco Barbieri, l'anarchico dei due mondi, 2013) l'autore ha potuto riprendere in mano, ampliandole ed arricchendole, le storie di vita e di azione di alcune tra le più importanti individualità anarchiche calabresi. Dall'impegno eroico di Nino Malara che scelse di rimanere a Cosenza anche sotto la dittatura, alla vita avventurosa di Luigi Sofrà a quelle di Cosimo Pirozzo, Paulino Scarfò, Bruno Misefari, Antonio Pietropaolo e Alessandro Bagnato è un continuo narrare, “un riannodare i fili di esistenze spesso sconnesse, in scenari di tribolazione e disordine, vascelli corsari, non portaerei, diretti non si sa bene verso quale forma di libertà compiuta o infelicità personale ineludibile”. Nel volume, oltre agli scritti scelti sui singoli anarchici su citati, vi sono quattro capitoli che riguardano la storia collettiva. Il primo di questi racconta la storia della “presenza anarchica” in Calabria tra ottocento e novecento, un filo che, come ha scritto Paolo Finzi nella prefazione al libro di Leo Candela “Breve storia del movimento anarchico in Calabria dal 1944 al 1953” Sicilia Punto L, edizione Ragusa 1987, “non si è mai spezzato”. Il secondo ricostruisce le difficili fasi della riorganizzazione del movimento libertario dopo la seconda guerra mondiale, il terzo parla della “strategia della tensione” e dello strano e misterioso incidente stradale di Ferentino (FR). Il 26 settembre 1970, in quell'incidente persero la vita cinque ragazzi, quattro calabresi e una tedesca, tutti anarchici, che indagavano, oltre che sull'intreccio mafie - massoneria deviata- neofascisti sulla bomba fatta esplodere sui binari della ferrovia, nei pressi della stazione di Gioia Tauro (RC), mentre transitava il treno Freccia del Sud diretto da Palermo a Torino, che provocò la morte di sei persone e il ferimento di altre 70. Nel quarto capitolo dal titolo “L'ultima mazurka”, sull'attentato al Kursaal Diana di Milano del 1921, il racconto di Antonio Orlando si fa quanto mai preciso e toccante. Apprendiamo ad esempio, dai suoi scritti, che fu Antonio Gramsci, a seguito dell'impossibilità di Umberto Terracini ad assumere incarichi legali, poiché in partenza per Mosca, ad indicare il ventiquattrenne avvocato comunista Leonida Repaci, calabrese originario di Palmi (RC), già collaboratore del giornale L'Ordine Nuovo, come difensore di uno degli imputati minori di tale attentato: il calzolaio pugliese Federico Giordano Ustori. Dopo 18 udienze, il processo si chiude e il 1 giugno 1922 viene emesso il verdetto. L'unico degli imputati che verrà assolto, con formula piena, è proprio Federico Ustori. Come accadrà all'On.le Giovanni Amendola, qualche anno dopo, a Leonida Repaci i fascisti la faranno pagare immediatamente. Il giovane avvocato calabrese verrà aggredito in Galleria Vittorio Emanuele II° a Milano dalle squadracce nere e verrà selvaggiamente bastonato a sangue.
L'assoluzione di Ustori fu una piccolissima vittoria giudiziaria inscritta in una immane tragedia umana. I morti innocenti del Diana, com'è giusto che sia, peseranno per sempre sulla coscienza degli attentatori. Nei decenni che seguiranno, il solo ricordo di quella strage costituirà motivo di riflessione per tutti coloro che, in qualche modo, cercarono di giustificare o esaltare tali atti perché, come scrisse Camillo Berneri, “l'enfatizzazione del “gesto eroico” porta alla riaffermazione di una cultura del dominio e il dominio, questa volta, sarebbe quello della violenza assoluta e pura”.
Per l'accuratezza e l'originalità del lavoro, questo libro rientra a pieno titolo tra le migliori opere sull'anarchismo calabrese. Due sole critiche mi sento di rivolgere ad Antonio. Al suo posto avrei riprodotto in copertina immagini di esponenti del movimento anarchico calabrese o titoli di pubblicazioni diffuse in questa regione e non le testate di due giornali, seppur prestigiose, ma editate in America. La seconda riguarda il titolo il quale, a mio avviso, non è rispondente al contenuto del libro trattandosi di una miscellanea di scritti scelti, già pubblicati dall'autore e non di una ricostruzione della storia del movimento anarchico calabrese. L'augurio che mi sento di fare ad Antonio Orlando è di continuare su questa linea di ricerca tesa a far riconoscere la storia degli anarchici calabresi come una componente importante della nostra identità regionale, affiancando le pregevoli ricerche effettuate dagli storici del Dipartimento di Storia dell'Università della Calabria e quelli degli ICSAIC di Cosenza e di Cittanova.

Angelo Pagliaro
angelopagliaro@hotmail.com


Fumetti/
Quell'uccello rom che vigila sul fumetto

Poter guardare il mondo con occhi più puri, bambini, non tanto contaminati dall'età adulta e dalla razionalità - spesso con una vena di cinismo dovuto al mondo che ci circonda - è un dono prezioso che i fumetti o le graphic novels, per esempio, regalano. Una narrazione diversa rispetto a quella stimolata in un libro, che gioca con l'immaginazione, suggerendo attraverso le immagini e una dialogicità più diretta e continua, il filo conduttore della storia. I fatti si svolgono in un milieu fatto di colori, tratti e personalità, delineati non solo dell'autore dei testi, ma anche del disegnatore, che dà volto a personaggi, spazi e luoghi contribuendo ad una connotazione più completa, se vogliamo più coinvolgente, del senso del racconto.
Quando ho cominciato a leggere Il buco nella rete (di Marco Gastoni e Nicola Gobbi, edizioni Tunuè, Latina 2017, pp. 96, € 14,90), lo ammetto, i miei occhi adulti hanno fatto subito aporia di giudizio sulla possibilità dei fatti; la classica pallonata che supera i confini della scuola porta Doriano, un bimbo delle elementari, ad allontanarsi dal giardino della scuola e a scoprire, nella ricerca della palla, un campo rom poco distante, dove conosce Miro, un coetaneo che studia equilibrismo su una palla enorme invece delle solite materie sui banchi di scuola. I due, dopo un primo approccio che subito rivela come l'essere bambini travalichi ogni pregiudizio e stereotipo, instaurano un'amicizia sincera, nutrita di interesse per l'alterità reciproca che genera curiosità e dialogo anziché paure e chiusura.
La cosa che mi ha subito sorpreso è che nessun insegnante si arrabbi o si allarmi troppo per la prolungata assenza di Doriano dalla scuola. I miei occhi adulti suggeriscono un epilogo, al rientro in classe, con tanto di note, punizioni o richiami. E invece no, perché Damiano non studia in un normale istituto ma in una scuola libertaria, dove gli alunni non sono obbligati a seguire tutte le lezioni ma hanno facoltà di scegliere le materie e proporre apertamente i propri interessi, argomentandoli in assemblee collettive dove partecipano studenti e insegnanti. Primo punto di stimolo per il lettore, a cui viene ribaltato l'immaginario se abituato a pensare alla scuola come qualcosa di coercitivo o a cui viene proposta una valida e stimolante alternativa all'idea di istruzione, se ha la fortuna di non essere ancora stato fagocitato dal grigio pensare del mondo adulto. Se avessi letto da bambina questo fumetto non mi sarebbe affatto sembrato strano che Doriano e Miro potessero instaurare un'amicizia quotidiana proprio durante le ore di scuola e mi sarebbe venuta voglia di trovare la scuola libertaria più vicina a casa.
Per non svelare la trama non dirò altro rispetto alla sinossi; Doriano condivide con i suoi compagni e con gli educatori la sua nuova conoscenza e l'interesse dilaga in forma collettiva, allargata, partecipata. Si stringono nuove relazioni e Miro ben presto apporterà un grande contributo alla scuola libertaria, insie-me alla sua famiglia comunitaria e allargata, ricca di storie da raccontare e abitudini da condividere e la scuola aiuterà il villaggio rom, perché tutti hanno bisogno degli altri e perché ognuno è indispensabile col proprio sapere.
In tutto il fumetto abbiamo un altro punto di vista, che definirei quasi “animalista”, che è quello di un piccolo personaggio volatile, presente in quasi tutte le tavole, a volte come personaggio secondario, altre come trait d'union visivo e significante della vicenda. Uno sguardo dall'alto che interagisce con silente sapienza con i vecchi saggi della comunità. È la cutrettola, uccello simbolo della cultura rom come spiega poi la nonna di Miro, libero e senza confini come dovrebbero essere le menti umane. Il lieto e meritato fine del fumetto dovrebbe farci riflettere sul fatto che non è così difficile in fondo poter coesistere, abbattere muri e lanciare palloni alla scoperta di mondi diversi da quelli a cui siamo abituati, che nascondono meraviglie interessanti e non solo stereotipi che ci hanno inculcato.
Certo bisogna avere cuori puri, come quelli dei bambini, che non giudicano né sentenziano chiusure solo perché si trovano davanti a realtà diverse, ma che da esse anzi trovano stimolo e alimentano curiosità meticcciando saperi e culture.

Gaia Raimondi