rivista anarchica
anno 48 n. 424
aprile 2018




La morale del rischio


1.
Nello stesso giorno in cui gli è stata regalata la temibile “PlayStation” – una sorta di obbligazione sociale e l'accettazione implicita di un regime –, a mio nipotino Leonardo è stato regalato anche “Monopoli”. Il fatto di averlo trovato, il mattino dopo, intento a giocarci mi ha concesso fin un respiro di sollievo: nel gioco simbolo del capitalismo – dove la logica, chiarissima, è quella della concorrenza spietata fino al prevalere sugli avversari; che l'uno si mangi con l'altro –, riscontro almeno quella necessità di conoscenza – e condivisione – di regole cui, nell'approccio ai giochini elettronici, si può anche non far caso. Nel decidere fra speculazioni in alternativa e nel maneggiare denaro ci vedo perlomeno l'esercizio di un briciolo di intelligenza. Perfino nel dipendere entro certi limiti da un lancio di dadi ci vedo l'eventualità di qualche avvedutezza nonché una moralità maggiore rispetto all'annichilimento virtuale di grumi elettronici o loro palliativi. Può darsi che io ne sappia troppo poco, ma a me sembra che le strutture narrative tipiche dei giochi da playstation comprendano essenzialmente metafore di morte, sia che trovino applicazione verso simulacri di fantasia che verso rappresentazioni più o meno naturalistiche – agguati, inseguimenti dietro un mirino, deflagrazioni organiche, polverizzazioni, sterminii, ottenuti tramite gesti irriflessi ad un ritmo di frenesia che non ammette pensiero, tantomeno se critico o venato di qualche moralità.
2.
Nei confronti del rischio il giudizio morale dei benpensanti è ambiguo. Un esempio perfetto ce lo mostra Thomas Mann ne I Buddenbrook. Ad un dato momento della sua epopea le cose cominciano ad andar male e la grande famiglia borghese sta perdendo pezzo dopo pezzo. Suggerita da una sorella più facile al pragmatismo, al fratello maggiore che si fa scrupolo, viene offerta l'opportunità di risollevarsi approfittando di un dissesto altrui, ma lui reagisce in malo modo: “Non capisci che mi stai consigliando un'azione estremamente indegna, un maneggio poco pulito? Vuoi ch'io peschi nel torbido? Che sfrutti brutalmente il mio prossimo? Che scanni un inerme approfittando dell'imbarazzo in cui si trova? Che lo costringa a cedermi a metà prezzo il prodotto di un'annata per incassare un profitto da usuraio?”.
Poco tempo dopo, tuttavia, questo “galantuomo” – questo rappresentante della borghesia “illuminata” –, torna sui suoi passi e riconsidera con altri argomenti “l'occasione di raddoppiare il capitale”: ecco, allora, il “cenno del destino”, l'“invito a risollevarsi”, il “buon colpo” – “un primo colpo” fortunato, accettabile perché “il rischio che vi era collegato forniva una nuova confutazione di tutti gli scrupoli morali”. Il rischio, il rischio della scommessa, compensa, allora, l'immoralità della speculazione.

3.
Un secolo e mezzo dopo, “Gratta e Vinci”, estrazioni di numeri al Lotto tutti i giorni e più volte al giorno, slot machines, virtualità varie e altri marchingegni veloci e non necessitanti né di pensiero né di abilità alcuna da parte dell'utente – marchingegni promossi alla luce del sole da tutti i governi che si sono succeduti nel nostro disgraziato Paese – rispondono ad un'esigenza ben più ampia di quella che, in qualche misura, può essere ricondotta alla consapevolezza individuale. Ho l'impressione, infatti, che costituiscano il sintomo di una tendenza più generale che, già ben presente nella società italiana, spinge a più non posso il pedale del consumismo americanizzante.
Come se, nella testa di noi tutti, avesse preso il sopravvento l'atteggiamento probabilistico-casualistico a tutto danno dell'atteggiamento deterministico. Questi lunghissimi anni di crisi economica – molto più lunghi di quanto ci racconta la maggior parte di coloro che ambiscono a rappresentarci politicamente – ci hanno quasi costretti ad una frettolosa ricerca del “colpo fortunato” (al “Lucky strike” che, non a caso, è il nome di una sigaretta americana) – a scommesse senza calcolo il cui senso sfugge nell'attimo.
Questo, allora, a mio avviso, è il risultato di un processo di lungo periodo. Ha a che fare con la crisi della coscienza sociale oltre che con la crisi economica, con la rassegnazione al malgoverno ed alla corruzione che hanno portato all'abbandono di ogni partecipazione politica perché è sempre più diffusa la convinzione di non contare alcunché – che, in un modo o nell'altro, con le buone o con le cattive, chi comanda deve continuare a comandare e chi ubbidisce a ubbidire. E tutto ciò, infine, ha a che fare con il credito perenne in cui ci sentiamo con il sistema democratico. Se la diagnosi è corretta, ahimé, stiamo per consegnarci – mani e piedi, figli e nipoti – al “medioevo prossimo venturo” (per citare il profetico titolo di un libro di Roberto Vacca, pubblicato nel 1971).

4.
Che la tendenza suddetta fosse già presente in alcuni ambiti della società italiana è facilmente desumibile da un noto episodio del nostro cosiddetto “risorgimento”. Come racconta Denis Mack Smith, Garibaldi entra a Napoli il 7 settembre del 1860 e, come prima cosa, deve cercare di superare la diffidenza dei napoletani cui, dell'“Unità d'Italia”, importava pochino. Per sua fortuna, come arriva, si liquefa subito il sangue di san Gennaro; la seconda sera si fa vedere al teatro San Carlo e grida “Viva Vittorio Emanuele” dal palco; cerca di non inimicarsi i preti e via così paciosamente e ottimisticamente. “La breve dittatura di Garibaldi”, dice Mack Smith, “fu una completa novità per Napoli: una parentesi coloratissima e quasi di sogno della sua storia”. Propose riforme sociali, volle liberalizzare l'educazione, pensò di aumentare i posti di lavoro dando il via a costruzioni ferroviarie e – fedele all'idea di realizzare equità sociale –, contrariamente a quanto hanno fatto i suoi successori, per conferire un'impronta di grande moralità al suo governo, pensò di abolire il gioco d'azzardo – lotto compreso, ovviamente. Gli fecero subito capire che la cosa non andava fatta; che il sogno del “colpo fortunato” e il lungo sonno sociale all'interno del quale cresceva questo sogno non andavano disturbati. Per farla breve: due mesi dopo, il 9 novembre, Garibaldi se ne torna a Caprera.

5.
Mentre mi compiaccio del fatto che Leonardo impari qualche regola – se passi in Vicolo Corto paghi di meno che se passi in Parco delle Vittorie, gli alberghi possono essere costruiti soltanto dopo le case, se vai in prigione rimani fermo un giro, e via normando –, mi capita di dare un'occhiata al coperchio della scatola. Sulle prime non credo a quel che leggo, poi, rileggendolo tale e quale, devo accettare le cose come stanno: “Monopoli”, non si chiama più così, ma si chiama “Monopoly” con la i greca finale. Avessero almeno spostato l'accento – avrebbero messo sulla strada giusta per capire anche un bambino –, no. L'hanno normalizzato, l'hanno reso più adeguato a quel linguaggio degli attuali padroni del mondo di cui fanno parte anche le playstation.

Felice Accame

Nota
I brani da I Buddenbrook, nella traduzione di Anita Rho (Einaudi, Torino 1992, pag. 418 e pag. 434. Per il periodo “napoletano” di Garibaldi, cfr. D. Mack Smith, Garibaldi (Lerici, Milano 1959, pagg. 95-102).