rivista anarchica
anno 48 n. 424
aprile 2018




Incontri ravvicinati

Le contraddizioni personali e sociali del vivere negli Stati Uniti analizzate tramite alcuni incontri: da un club esclusivo patriottico all'acquisto di prodotti degli amish fino a una chiesa con storie di donne perseguitate, simboleggiate da una donna crocefissa. E nuda.

Da bambino il mio mondo era diviso in classi
e il ricco regalava al povero i panni smessi
e mentre si scannavano a trovare una soluzione
è arrivato il blue-jeans, la vera rivoluzione.

(Edoardo Bennato, “Stop America”, 2003)

“Sei nel più antico club di New York, fondato ai tempi della guerra civile per sostenere la causa nordista”. Steve accompagna le presentazioni con una sobria stretta di mano. “Abbiamo anche una galleria coi ritratti dei presidenti americani, la prossima volta te la faccio visitare”.
Quando la sua segretaria mi aveva confermato l'appuntamento stavo rincasando col vento nelle orecchie e a stento avevo sentito il richiamo del cellulare dal fondo della sacca della bici. Annotando l'indirizzo del posto mi ero fatto un'idea su come raggiungerlo: dopo il lavoro mi sarei cambiato e avrei pedalato lungo la Park Avenue verso sud. Ma il cellulare si agitò ancora per un'ultima raccomandazione, dimenticata nella fretta dei saluti: obbligo di giacca e cravatta, niente jeans o scarpe da ginnastica. E niente bici, sospirai rassegnato.
Immaginavo che il club stile inglese con rigida etichetta fosse roba spazzata via due secoli fa dalla rivoluzione: qui vanno ai concerti di musica classica in tuta sportiva e tante volte ho visto i presidenti USA rilasciare interviste in maglietta e cappello da baseball. Per fortuna nel campo delle convinzioni errate sono in buona compagnia, la democrazia dei jeans ha ingannato anche Edoardo Bennato: l'etichetta sopravvive.
Arrivo all'ora fissata e subisco il severo esame di un usciere nerissimo in uniforme rossa, uno dei tanti portieri che mi sbarrano la strada qui a New York,1 ma più elegante della media. Ammesso con qualche riserva, mi ritrovo proiettato in un luogo incontrato solo nei fumetti di genere e in qualche film. L'anonima facciata esterna non lasciava presagire nulla del genere: costosi tappeti, pareti rivestite di legni pregiati, scaloni che portano a ballatoi protetti da eleganti ringhiere. Alle pareti quadri dalle pesanti cornici dorate con rappresentazioni epiche di storia americana. Nel bar luci soffuse, atmosfera ovattata, gente elegante intenta all'aperitivo.
Al tavolo, con Steve e la moglie Julie, circondato dalle premure di un cameriere in guanti bianchi, decido che una prossima volta non ci sarà, che i ritratti dei presidenti me li posso anche risparmiare. Mi trovo a disagio fra questa gente, non so dove mettere le mani e le mando di continuo ad aggiustare il nodo della cravatta, la voce di Frank Sinatra, diffusa dagli altoparlanti nascosti nel soffitto, mi distrae.

New York, Basilica di St. John The Divine
Christa, la crocefissa

Gente indesiderata

I gesti di Steve sono precisi e autorevoli ma il suo sguardo vaga, non si fissa mai negli occhi e mi dà la sensazione che a questo tavolo siamo ciascuno per conto proprio; penso che se lo dovessi incontrare per strada non lo riconoscerei. È un incontro mancato.
Julie fa domande educate, flirtando delicatamente col secondo bicchiere di prosecco. Anche la conversazione vaga e, a un certo punto, scivola sull'argomento dei profughi: il presidente non li vuole e Julie è d'accordo con lui, dice che dovrebbe essere l'Africa ad occuparsene, in fondo è gente loro. La sua nozione di Africa deve essere piuttosto confusa. Aggiunge che i paesi civili, dice proprio così, dovrebbero fare uno sforzo per aiutare economicamente chi accoglie, anziché riempirsi il territorio di gente indesiderata. La nozione di “paesi civili” mi distrae e i pensieri navigano ora per altre rotte. Ogni popolo ritiene di essere il più civile, è una caratteristica presunzione della nostra specie. Il diario di un prete italiano che viaggiava per il regno del Congo nel 1687 mostra la sorpresa del redattore nello scoprire l'arroganza con cui quella gente riteneva di essere al mondo la più importante, la più felice e la più bella. Essi vedevano nei bianchi dei barbari, bisognosi di tutto. Altrimenti, diceva il re al nostro cronista, perché avrebbero fatto tanta strada per andare a saccheggiare le loro terre?
Immagino che per Julie, invece, “paesi civili” significhi nazioni ricche, potenti, industrializzate. Civili sono gli europei ed i loro discendenti. Il mio pensiero corre al napalm che straziava i corpi in Indocina, alle città giapponesi annientate dal fungo atomico, all'equipaggio di Enola Gay che, decenni più tardi, si mostrava privo di rimorsi per la morte nucleare sganciata con maligna precisione.2 Corrono i miei pensieri alle sanzioni europee che hanno ucciso silenziosamente i bambini iracheni, ai congolesi mutilati dai belgi perché non racimolavano abbastanza oro per il re, alle carestie scatenate dagli inglesi nell'impero per favorire i loro commerci, ai gas e alle bombe italiane sulle colonie. Tutti regali dei cosiddetti paesi civili. Ripenso al té sorseggiato nel silenzio delle tende beduine in Cisgiordania, alle peregrinazioni sugli altopiani d'Etiopia e di Eritrea, a quella gente che ho amato e all'amicizia che vi ho trovato. In certi luoghi, fra i poveri, non mi sono mai sentito solo come fra questi tavoli di cristallo.
La voce di Steve mi scuote, chiedendomi notizie di Maurizio, una comune conoscenza. Li informo che da qualche anno vive a Teheran e si mostrano sorpresi. “È pericoloso”, sentenzia Julie. L'argomento è scivoloso, in fondo io sono qua per discutere di altro, dovrei glissare, invece sbotto: “Maurizio sta benissimo, sarà in pericolo quando gli Stati Uniti decideranno di bombardare”.

New York, Basilica di St. John The Divine
Inquietanti e buffe sculture profane segnano
il passaggio dalle navate gotiche alla chiesa romanica

Assurda retorica patriottica

Poco dopo guadagno l'uscita, slacciandomi finalmente la cravatta. L'usciere a stento mi saluta: a forza di stare su quella soglia ha imparato a distinguere i veri gentlemen da quelli come me, che non sanno portare con disinvoltura i pantaloni con la piega e hanno la camicia spiegazzata.
A quelli come Steve e Julie, facoltosi, boriosi, scontati, convinti della superiorità morale del loro paese, preferisco i tipi come Bill, che incontro ogni tanto a teatro o a un concerto. Lui è simpatico ma non è un candido, piuttosto un cinico, capace di ridere su cose terribili. Dice infatti ridendo che il benessere di cui gode si fonda sulla forza militare del suo paese e non vede di buon occhio eventuali sviluppi pacifici nella penisola coreana, perché ne soffrirebbe l'industria bellica, che fa affari d'oro con i paesi dell'area. Bill non parla di nazioni civili, non si nasconde dietro ai miti. Sa che la pace non fa bene all'economia del suo paese e non ne fa mistero. Per lui va bene così, basta che le bombe caschino lontano da qui. Eppure è uno come tanti, ama l'arte e la buona musica. Ma con lui si può passare dall'apprezzamento sul balletto appena visto all'opportunità della guerra, combattuta da altri, s'intende, ed è a questo punto che mi assale la nausea e mi viene voglia di fuggire. Qui mi ricordo delle grandi marce contro i Cruise a Comiso e mi rendo conto che hanno prevalso gli indifferenti, perché le testate nucleari sono ancora lì ma nessuno più ci fa caso.
Nei miei incontri ravvicinati tento di capire le mie stesse contraddizioni: si può vivere nel cuore dell'impero che ha l'esercito più potente e l'arsenale atomico più spaventoso, senza farci caso; si può diventare involontari complici: con ogni tassa che pago finanzio questa economia di guerra. I social network sono pieni di accorati appelli a sostenere “gli eroi” che ci proteggono e affrontano rischi e inenarrabili disagi in luoghi lontani e ostili, che molti qui non saprebbero nemmeno individuare sul mappamondo. Quando mi capita di leggere questi pezzetti di assurda retorica patriottica sul sogno americano armato fino ai denti, mi chiedo chi siano quelli che, mentre bevono il primo caffé del mattino pensando alla giornata che hanno davanti, cliccano “Like”, con assonnata gratitudine. Mi domando se siano davvero contenti che la loro banale quotidianità sia protetta da droni e soldati che seminano terrore e morte in qualche sperduto villaggio afgano. In fondo lungo il mio cammino trovo soprattutto gente affabile e mi è difficile riconoscere in questi volti l'impero prepotente che domina e minaccia.
Eppure è fra questa gente che l'esercito arruola le sue reclute e io, di frequente, ho anche incontrato quelli che aspirano alla divisa, alle sicurezze che offre e alle avventure che promette. In nessuno di questi sono riuscito a intuire la ferocia, che pure da qualche parte deve albergare. Sono aspiranti impiegati del terrore senza averne l'aria, come quel giovane sommergibilista, appena sposato e subito imbarcato, con la bella moglie lasciata a casa ad aspettare, che mi ha mostrato felice le foto del matrimonio, dove lui appare sorridente nella divisa immacolata, come un divo di un qualche film di guerra degli anni quaranta, quando il dramma ancora non ha colpito e su tutto aleggia un'aria di irreale serenità.
Il dramma lo incontro ogni tanto in una donna claudicante dallo sguardo amaro che vive nel mio palazzo e incontro fra l'ascensore e il supermercato, la breve trincea della sua vita sofferente. In tutte le stagioni indossa un cappellino da baseball con cucita sopra la bandiera americana e la scritta Disabled Veteran3. Non so dire se lo porti con l'orgoglio dell'eroe o solo perché la gente la lasci in pace, ma vedo che attorno le si forma sempre una zona di rispetto: una veterana di guerra è una specie di monumento. Ma lei non sorride mai a nessuno.
A forza di pensare a tutto questo le vertigini mi assalgono e allora mi presento da Dominick, il medico col sorriso da topo che se ne va in giro per New York col cappello da cowboy calato sulla testa a nascondere la calvizie. Mentre mi ausculta o mi ruba fiale e fiale di sangue ama parlare di politica ed economia. La sua paura è a est: per lui è la Cina il vero nemico, quello che tiene il suo paese in pugno e ne minaccia la ricchezza. La crescita cinese lo terrorizza e non può sopportare l'idea che quelle masse possano aspirare a un benessere uguale al suo, di lui che, la prima volta che l'ho incontrato, approfittando dell'apertura di Obama, si era organizzato una vacanza a Cuba: andava lì a divertirsi ma anche a cercare occasioni per qualche buon investimento ed era ansioso di vedere il paese prima che i turisti americani lo invadessero, a danno del colore locale.

New York, Basilica di St. John The Divine
“Santi” gay, quadro di un artista messicano esposto in una cappella

Quella chiesa episcopale a gestione progressista

Sono troppi i miei incontri ravvicinati, manca lo spazio per raccontarli tutti, ma vorrei parlare almeno di Ruth, un'assistente sociale che lavora nel Bronx e alla sera rincasa piena di ansia. In passato viveva a Salt Lake City4 e quando me ne parla le si indurisce lo sguardo, già severo. Racconta della sua esperienza clinica con i mormoni ortodossi: secondo lei sono ancora poligami, con le autorità che chiudono un occhio, e considerano le mogli incubatrici dei loro figli. Mi racconta di una donna mormone devastata da gravidanze che ormai le mettevano a rischio la vita e della fredda delusione del marito in risposta ai suoi moniti: “a che serve se non può più avere figli? Quello è il suo compito”.
Ruth racconta un'America oscura, arretrata e misogina che, vista da New York, sembra un altro pianeta. Ma non è poi necessario arrivare fino in Utah: a duecento chilometri da qui gli amish si muovono ancora sui loro vecchi carretti tirati da cavalli, rifiutano l'elettricità e altre “diavolerie” moderne. Ma al supermercato compro le loro uova, le più sane e biologiche, vendute in confezioni di plastica, certo trasportate su camion frigorifero di cui i loro figli forse ignorano l'esistenza. Gli amish rifiutano la modernità e si isolano, ma fanno buon mercato con gli infedeli.
La religione è uno dei grandi enigmi di questo paese che ha inventato la separazione fra stato e chiese. Qui convivono convinzioni oscure e riti medievali con i più arditi fra i teologi, sul filo della scomunica. Qui ho fatto l'incontro forse più sorprendente, camminando un giorno fra le vaste e un po' assurde navate di Saint John the Divine, immensa cattedrale episcopale a due passi da casa5. È una chiesa con una gestione progressista, attenta ai problemi sociali del paese e del quartiere. Ospita spesso opere di artisti coraggiosi, spettacoli di denuncia sociale e persino simboli di altre fedi, in una cappella dedicata al dialogo interreligioso.
Eppure sono ugualmente rimasto a bocca aperta nello scoprire, in una delle incongrue cappelle che coronano l'altare maggiore, Christa6, la crocefissa. Un Cristo donna, una crocefissa nuda. Ho provato a immaginare quali reazioni avrebbe suscitato in Italia chi fosse stato tentato di esporre quel bronzo, non dico in una chiesa, ma anche solo in un museo. Mi correvano davanti vecchie immagini di repertorio: proteste, messe riparatrici, dichiarazioni indignate di politici ossequiosi e fedeli in lacrime a strapparsi i capelli. Da allora con Christa ci siamo incontrati più volte. Lei è sempre lì, appesa. Nessuno trova da ridire ed io cerco di capire il mistero che la circonda e che mi attrae. A volte, in quella stessa cappella, sono ospitate opere di artiste contro la guerra, lo sterminio, il genocidio, il razzismo o qualche altra diavoleria umana. Christa le osserva dalla sua parete e mi appare come il simbolo di un paese che non riesco mai a capire fino in fondo.
Se mai mi venisse voglia di rimettermi la cravatta per andare a vedere i ritratti dei presidenti, penso che mi porterei una foto della scultura, magari da lasciare di soppiatto in un angolo della galleria, a fare scandalo; oppure per mostrarla a Steve e Julie, per sapere loro cosa ne pensano. Perché certamente questo loro paese civile è un altro mondo rispetto a quello di chi ha voluto, in chiesa, la donna in croce.

Santo Barezini

  1. Vedi A 423, Incontri, pagg. 76-79.
  2. Nel commovente documentario “White Light / Black Rain, the Destruction of Hiroshima and Nagasaki” (USA, 2007) tre membri dell'equipaggio di Enola Gay, l'aereo che sganciò la bomba atomica su Horishima, confermano di non aver mai avuto ripensamenti o sensi di colpa. Il primo: “Dovevamo farla finita con la guerra, non ho mai provato né rimpianti, né compassione”. Il secondo: “Su quei fatti ho sempre dormito sonni tranquilli, mai avuto incubi, nulla”. Il terzo: “Abbiamo distrutto delle vite umane, certo, questo è lo scopo della guerra: distruggere gente”.
  3. Reduce disabile.
  4. La capitale dell'Utah, fondata dai mormoni nel 1847.
  5. La cattedrale più grande del mondo, strano miscuglio di gotico e romanico, che ospita sulle grandi vetrate scene di vita sacra e di storia delle scoperte e delle invenzioni umane e sui pilastri sculture profane. La costruzione, iniziata nel 1892 non è mai davvero terminata. Si veda stjohndivine.org.
  6. Opera realizzata nel 1974 dalla scultrice inglese Edwina Sandys per rappresentare il dolore delle donne. Esposta per la prima volta nella cattedrale nel 1984 e in modo permanente dal 2016, nell'ambito del “The Christa Project” (vedi http://www.stjohndivine.org/programs/christa).