rivista anarchica
anno 48 n. 423
marzo 2018




Incontri

Vivere nella Grande Mela è un'esperienza particolare, segnata molto dalla solitudine. Con un gran numero di “lavori servili”, dai numerosi e immancabili portieri agli uomini-sandwich che segnalano la fine di una fila o un negozio nei dintorni.

“A chi abbia a cuore premi tanto insoliti,
New York concederà i doni della solitudine e del riserbo”

(Elwyn B. White, “Here is New York”, 1948)

Il libretto comincia così. Mi è capitato fra le mani quasi per caso e mi ha subito colpito quella frase, la prosa ironica e malinconica. Elwyn B. White lo mise assieme in pochi giorni, immerso nel sudore della torrida estate del 1948, alloggiato in una squallida stanzetta d'albergo. Ho poi scoperto che quelle pagine, una cinquantina in tutto, sono considerate fra le più poetiche mai scritte su New York. La lettura mi ha messo addosso una strana agitazione.
La New York di White è confinata nell'isola di Manhattan, il resto sono anonimi quartieri dormitorio abitati da pendolari che, della Grande Mela, conoscono solo gli orari dei treni e l'indirizzo del loro posto di lavoro. Gli altri protagonisti della vita della metropoli sono quelli che ci sono nati, che danno per scontato che New York sia quello che è; poi i migranti, quelli giunti dalle addormentate campagne americane o da chissà quale lontano paese: uomini e donne in fuga da un passato spiacevole o alla ricerca di un futuro diverso, che hanno trovato qui la loro destinazione finale, la città entusiasmante e vibrante che li ha accolti come una madre benigna. Questi ultimi sono gli innamorati, gli entusiasti ad ogni costo. Ne ho conosciuti tanti.
White trascorse volontariamente gran parte della vita in una fattoria del Maine, uno staterello di confine fra l'oceano e il Canada, con piccoli centri urbani sparsi fra dense foreste d'acero. Un posto alla fine del mondo, di cui si fa fatica a ricordare l'esatta collocazione, lontano anni luce dall'assordante fragore della grande città. Eppure anche lui subì il fascino di questa inquietante metropoli, la sua fatale attrazione.
Nel corso di sette decadi la città ha cambiato volto mille volte, ma il suo spirito più profondo non è molto mutato. Con i suoi milioni di abitanti, i suoi grattacieli avvolti dalle nuvole, le sue fortune accumulate in poche ore di speculazioni in borsa e le sue grandi miserie, New York è rimasta quello che era: un luogo di solitudini e di incontri mancati, di gente “persa dentro i fatti suoi”. Quale sarà allora la magia, l'incantesimo che spinge tanti ad amare questa accozzaglia di cemento, ferro e vetro con incrollabile entusiasmo?

I portieri all'ingresso del Dakota building dove vivevano
John Lennon e Yoko Ono sono delle star per turisti

Chi non ce la fa resta solo

I miei incontri newyorchesi sono forse diversi da quelli di White, il tempo aggiunge e sottrae. Lui descrive marciapiedi ingombri di mendicanti e di ubriachi addormentati, non parla di matti. Io di matti ne incontro ad ogni angolo di strada, ne sento a volte le urla entrare dalla finestra in piena notte. La città è piena di gente fuori di testa che grida e insulta nemici immaginari. I bollettini medici dicono che la malattia mentale qui è spesso legata allo stress di una società estremamente competitiva che non concede nulla ai perdenti: chi non ce la fa resta solo, senza reti di protezione e il risvolto è talvolta questa follia che incontro ad ogni passo, nell'uomo dagli abiti stracciati che, minaccioso, chiede l'elemosina al semaforo, in quello che canta e ride in metropolitana, nella donna seduta su una panchina che urla oscenità a chi le passa davanti. Disperazioni che possono lasciare inquieti oppure indifferenti, ricordi che in genere evaporano nel giro di due isolati. Però, qualche tempo fa un giovane dal volto butterato mi ha urlato in faccia, senza avvisaglie. Ero a braccetto con mia moglie e a stento ho trattenuto un grido di paura. Mi aveva colpito la sua strana faccia e forse l'avevo irritato, scrutandolo troppo a lungo. O forse quella nostra semplice intimità lo ha ferito. Il suo volto enigmatico e feroce mi è rimasto scolpito nella memoria.
New York è un turbine di lingue, accenti, religioni e colori della pelle e, come scrive White: “Qui si possono fare gli incontri più stravaganti, ma ci si può anche vivere senza mai davvero conoscere qualcuno: non è necessario. New York miscela il dono della riservatezza con l'emozionante possibilità di partecipare e, meglio di altre comunità densamente popolate, riesce a isolare l'individuo che lo desideri. E molti lo desiderano o lo necessitano”. Sono le parole che mi mancavano per descrive certe sensazioni, la sottile angoscia, la solitudine che mi sorprende, inscatolato fra milioni di persone che mi girano attorno indifferenti.
Sono, in fondo, solitari, anche i portieri di Manhattan, che incontrano ogni giorno centinaia di persone e ci parlano senza mai dire davvero nulla. I portieri qui sono una vera istituzione, ogni palazzo che si rispetti ne ha almeno uno, i grandi edifici multipiano e i grattacieli ne hanno tanti. Sono persone discrete e quasi anonime e uscendo al mattino si può passare loro accanto senza un cenno di saluto. Molti lo fanno. Gli anni possono trascorrere senza che se ne sia imparato il nome, conosciuto la storia, senza sapere da dove vengano e se abbiano o meno una famiglia che li aspetta.
Esistenze senza storia, eppure i newyorchesi sembrano incapaci di vivere senza il loro ausilio. Le loro mansioni appaiono indispensabili ad un esercito di condomini che arrivano a tutte le ore senza chiavi, aspettano le camicie dalla lavanderia, o i corrieri postali, e hanno mille altre piccole esigenze. l'incontro coi portieri scandisce la giornata, negli appuntamenti di lavoro e nelle visite agli amici, quando si viene ammessi dopo un serio scrutinio, quasi che ogni palazzo di New York fosse un club privato. Li si vede in strada che si sbracciano, lanciano richiami con fischietti da vigile per attirare l'attenzione dei tassisti, ad uso dei loro condomini che paiono incapaci di svolgere da soli questo compito.
Se piove li vedi andare avanti e indietro con l'ombrello ad accompagnare studenti, donne in carriera e signori incravattati fra il portone e il taxi. Si inzuppano per proteggere il prezioso capo dei loro condomini. D'inverno, con la neve, il ghiaccio e le temperature polari, se ne stanno ancora fuori, a caccia di taxi, mentre i loro padroni aspettano nell'androne riscaldato. In certi palazzi c'è, in aggiunta, uno che passa la giornata ad aprire la porta a chi entra ed esce. Un piccolo esercito di servi, giovani e anziani in livrea e cappello con visiera, che svolgono i propri compiti con efficienza e salutano con deferenza. Compiti, però, spesso completamente superflui. Quando lo dico i miei interlocutori, in genere, mi fanno osservare che, se i newyorchesi rinunciassero ai loro servizi, un sacco di gente resterebbe disoccupata. Dio ne scampi.

Al supermercato una ragazza indica la fila alle casse

Non solo i portieri

Tuttavia non posso fare a meno di chiedermi da dove sia nato questo bisogno di circondarsi di lavori servili e spesso inutili. Immagino che coloro che trovano collocazione in questo settore siano persone che non potrebbero avere di meglio, gente forse espulsa presto dalla scuola, che non potrebbe aspirare nemmeno a un semplice lavoro manuale di una qualche utilità sociale. Perciò non auspico certo il licenziamento in massa dei portieri di New York, ma preferirei vivere in una società in cui un giorno non vi fossero più candidati per compiti tanto futili, dove tutti avessero l'opportunità di fare qualcosa di significativo e utile e i newyorchesi si rassegnassero ad alzare da soli la mano per fermare un taxi sotto casa.
Sono incontri che mi fanno riflettere su una società tanto ammirata, che ha dovuto rinunciare agli schiavi ma non alle comodità che offre una sterminata servitù.
Queste riflessioni, del resto, non riguardano solo i portieri, è facile incontrare tanti altri che sbarcano il lunario con lavori astrusi: persone-pubblicità, il cui unico compito è starsene su un marciapiede sorreggendo un cartello con una freccia che indirizza verso un vicino negozio; persone-segnale-di-pericolo, che nei centri commerciali, nei momenti più affollati, vengono piazzate accanto alle scale mobili a ripetere ossessivamente, a chiunque salga o scenda: “fate attenzione al gradino”; persone-indicatore-di-fila che in un grande supermercato passano la domenica in fondo alla coda delle casse, che si snoda come un serpente fra le corsie, e sorreggono un rudimentale cartello su cui campeggia la scritta: “La fila comincia qui”.
A quanto mi raccontano alberghi e ristoranti di lusso hanno persino impiegati che stazionano fissi nei bagni, addetti ad aprire e chiudere l'acqua a chi si deve lavare le mani, affinché i loro clienti non abbiano a toccare un rubinetto che altri orinatori potrebbero aver contaminato. Nei ristoranti, non certo di lusso, che occasionalmente frequento io, invece, per fortuna al bagno si fa tutto da soli, ma c'è pieno di giovani camerieri il cui compito principale sembra sia passare fra i tavoli a rabboccare d'acqua i bicchieri di clienti che, assorti in conversazione, nemmeno si accorgono della loro esistenza.
Sul marciapiede all'angolo del palazzo dove abito, per nove mesi all'anno staziona un signore di una certa età. Sorregge un cartello con scritto: “Affitto biciclette”. Una freccia indica la direzione del negozio, poco distante. Non ci ho mai scambiato una parola, non so come si chiami e mi resta il dubbio di come debba essere, a quell'età, ritrovarsi a fare un lavoro così, se almeno basti per vivere. I doni di New York ti si appiccicano addosso e finisce che trovi inopportuna una cosa tanto naturale come scambiare due chiacchiere con uno che incontri ogni giorno.
Ma i luoghi forse più solitari e inquietanti di New York non sono le strade e nemmeno gli appartamenti dove ci rifugiamo. Sono piuttosto le zone di passaggio fra questi due mondi: i tristi androni spesso sproporzionati, i veloci ascensori sigillati come bare, i lunghi, anonimi corridoi su cui affacciano tante porte, sempre chiuse. Spazi angosciosi di rari e fugaci incontri: il tizio diretto in lavanderia coi panni della settimana, l'altro che getta l'immondizia nell'apposito sportello, la vecchietta un po' sorda della porta accanto e sua nipote, che bussa forte e la chiama, sorridendo imbarazzata se la incroci tornando a casa. Spazi popolati di volti anonimi, incontrati tante volte in ascensore senza scambiare parola. Gente col volto illuminato dallo schermo del telefonino, vicini abituati a veloci saluti formali e imbarazzanti silenzi, della cui vita non sappiamo nulla.
Un giorno ho incontrato all'ascensore una vicina sempre vista con al guinzaglio un cagnolino dallo sguardo feroce e dagli stessi modi bruschi della sua padrona. Quel pomeriggio però il cane non c'era e così sono venuto a sapere che era morto già da sei mesi: mezzo anno andato senza nemmeno accorgermi che quella signora, che abita due porte più in là, era rimasta sola.

Il corridoio dove affaccia l'appartamento dell'autore

La mela avvelenata di New York

Solo poche settimane prima il sorriso mi si era aperto rincasando, quando avevo scorto, indaffarata alla serratura, la signora che vive nell'appartamento quasi di fronte al mio. Quasi, sì, perché, nell'ossessione della privacy, le porte opposte non sono allineate nei corridoi, in modo che nessuno, uscendo da casa, possa, anche solo involontariamente, sbirciare nell'appartamento di fronte.
Di questa signora non avevo avuto più notizie dalla notte in cui ero accorso alle sue grida d'aiuto e l'avevo trovata riversa sul pavimento, davanti alla soglia della sua casa. Aveva avuto la forza di accostare la porta ma dalla fessura rimasta potevo intravedere un mobiletto rovesciato, medicine e vestiti sparsi disordinatamente sul pavimento del corridoio. Nessun altro si era affacciato, nessuno aveva sentito. Chiamai l'ambulanza col cuore impazzito e le dita tremanti.
Nella snervante attesa le parlavo, per tenerla vigile. Le chiesi se avessi dovuto avvisare qualcuno. Non c'e nessuno da avvisare, mi rispose. Nelle settimane successive non avevo saputo più nulla di lei ed ero in ansia. Per questo il giorno che l'ho rivista, fragile ma in piedi, l'ho salutata con sollievo. Lì, nel corridoio, senza neanche invitarmi in casa per un caffè, mi ha spiegato che il veloce soccorso l'aveva salvata da un pericoloso aneurisma alla gamba e mi ha poi quasi subito liquidato con uno spiazzante: “grazie per i suoi servizi”.
Non l'ho più rivista, nonostante l'invito di mia moglie ad affacciarsi. Mi spiace che non senta il bisogno di conoscerci o anche solo di sapere i nostri nomi. Quei minuti trascorsi in attesa di veder spuntare medici e barella, mentre lei giaceva a terra, discinta, vulnerabile, spaventata, e io accanto, accucciato, le parlavo, sono stati di grande intimità. Per me in quel momento si è formato un legame.
Dopo, scosso e tremante, non riuscivo a riprendere sonno, pensando a quella donna sola, senza parenti da avvisare, portata via nel cuore della notte in una solitudine di strade e palazzi addormentati. Abitiamo a pochi metri di distanza, le ho, forse, salvato la vita, eppure fra noi resta una distanza incolmabile. Forse pesa anche il fatto che io sia un bianco, per definizione inaffidabile, pericoloso. Lo vedo come i miei vicini, tutti afroamericani, sono gentili con noi, ma formali, più calorosi e spontanei fra di loro. Anche il maledetto colore della pelle pesa, questa differenza senza colpa brucia negli incontri che si fanno in città. Oppure, forse, non è questo, forse è solo il dono della solitudine che New York concede a ciascuno. Che molti cercano.
Ultimamente mi sono accorto che questa particolare qualità di Manhattan mi sta lentamente cambiando, che questa solitudine la cerco anche io: evito gli inviti del fine settimana, preferisco chiudermi dentro casa o camminare per strada, anonimo, ad osservare gli altri. Vago fra questi milioni cercando di non attirare l'attenzione, sfuggo le compagnie. È una malattia, la mela avvelenata di New York.
Qui forse siamo un po' tutti come l'albero che chiude il breve racconto di White: un salice stentato, in un giardino triste, tenuto assieme dal fil di ferro che gli impedisce di cadere a pezzi. Contro ogni aspettativa, nella sua solitudine, l'albero continua a vivere anzi, addirittura cresce, si allunga verso l'alto, si protende a cercare il sole.

Santo Barezini