rivista anarchica
anno 48 n. 424
aprile 2018


migranti

L'indifferenza, non la frontiera

reportage di Mirko Orlando


A ucciderli non è la frontiera, come molti dicono, ma la nostra indifferenza, l'indifferenza di chi finge di non vedere ciò che accade sotto i propri occhi.
La denuncia di una volontaria, attiva a Ventimiglia, Italia. Dove ogni giorno il senso di umanità soggiace alla logica implacabile della fortezza Europa.


Non c'è civiltà che non abbia dovuto fare i conti coi flussi migratori (e a dirla tutta non c'è civiltà che non ne abbia tratto vantaggio per arricchire la propria cultura), eppure a partire da quelle che ricordiamo come le “Primavere arabe” l'Europa continua a parlare di emergenza. Ebbene un'emergenza evidentemente c'è, ma non riguarda i numeri, riguarda piuttosto la gestione politica e strategica di questi numeri.
Non c'è nessuna invasione in atto, in Italia quanto in Europa, ma c'è certamente una mala gestione dei flussi migratori di cui l'Europa dovrà prima o poi assumersene la responsabilità. Il punto è che il mondo cambia: cambia il valore di mercato di alcune risorse, cambia il costo della manodopera, cambiano le ragioni che spingono le persone a spostarsi in cerca di lavoro, diritti, opportunità, o semplicemente per restare in vita. Stiamo ridisegnando un nuovo planisfero e sembriamo non accorgercene, oppure fingiamo di non accorgercene per difendere la roccaforte Europa che tanto è costata ai nostri padri.
Ebbene la nostra Europa è costata anche ai padri di quanti oggi cercano di entrarvi, perché è attraverso stragi e genocidi che abbiamo costruito le nostre democrazie, le quali non sono state il prodotto delle nostre più alte ambizioni, ma il risultato dei nostri più profondi rimorsi. La “Dichiarazione Universale dei Diritti Umani” l'abbiamo scritta al culmine della nostra disumanità. Questo è quanto accaduto, ma lasciamo perdere la storia, lasciamo da parte i rimorsi coloniali e le responsabilità politiche dell'Occidente affinché non si stabilizzino i governi dei paesi del terzo mondo.

La paura dello straniero

Lasciamoci alle spalle le riflessioni sociologiche e le critiche all'Europa e parliamo di noi. Parliamo dell'Italia, dove un tempo i leader politici tentavano di sedurre l'opinione pubblica promettendo un milione di posti di lavoro, mentre oggi promettono 600.000 immigrati in meno. Parliamo di quanto la paura dello straniero sia diventata la carta che tutti i politici, di destra e di sinistra, stanno giocando per ottenere consenso. Parliamone, ma lasciando da parte i clandestini, gli irregolari, quelli che si sottraggono al nostro sistema di controllo. Parliamo di quelli che hanno collaborato con le istituzioni facendosi identificare, di quelli che hanno ottenuto un documento (asilo politico, protezione sussidiaria, ma più comunemente un permesso di soggiorno per motivi umanitari).
Parliamo di loro, alcuni dei quali, al termine dei progetti di accoglienza, si ritrovano gettati per strada, senza una dimora, e senza reali opportunità di lavoro. Succede proprio sotto i nostri occhi, e sotto il cavalcavia sul fiume Roja a Ventimiglia. I ragazzi dell'associazione Alharaz (vicini ai migranti di Ventimiglia da circa due anni) mi fanno sapere che sulle rive del fiume ci sono almeno 200 ragazzi, di origine straniera, alcuni dei quali, al termine del periodo di accoglienza (nella provincia di Imperia) si sono ritrovati senza nulla tra le mani.
Questa condizione rende loro ancor più difficile rinnovare i documenti, trovare lavoro, e ovviamente gli impedisce di raggiungere altre destinazioni europee. Parliamo di loro perché la retorica del clandestino non serve ad altro che a coprire l'inefficacia di un sistema che non riesce a tutelare neppure chi ha requisiti per ottenere lo status di rifugiato, per cui prima ancora che su questioni morali è sulla corretta gestione e applicazione delle norme che siamo deficitari. Ciò, chiaramente, non ha nulla a che vedere con la “guerra tra poveri” di cui tanto si parla, ma con la solita “guerra tra ricchi e poveri”, dove qualcuno continua a speculare sulla pelle degli indigenti, italiani o stranieri che siano. Infatti i fondi per coprire i progetti di accoglienza ci sono e vengono erogati, ma vengono gestiti male... talvolta colpevolmente.

Proprio dove mancano le opportunità finanziarie, iniziative di libero soccorso promosse dai comitati di volontari o da piccolissime associazioni no profit riescono dove falliscono le istituzioni. Cose semplici: coperte, vestiti, legna per scaldarsi, pasti caldi, informazioni. Cose semplici ma fondamentali per sopravvivere in attesa che la lenta burocrazia italiana faccia il suo corso e decida se un singolo individuo ha diritto o meno allo status di rifugiato. Sulle sponde del fiume vivono alcuni bambini e comunque molti minori non accompagnati, e nell'insieme quasi tutti sono passati dalla Libia.
Quando ne parlano, ne parlano come di un inferno, e la Libia post-Gheddafi lo è diventata davvero. “Lì la vita di un uomo non vale niente”, mi dice T., “un ragazzino di dodici anni può spararti per prenderti le scarpe, un orologio, forse anche solo per le sigarette”. “Quando scoppiavano gli scontri in strada ci rintanavamo nelle case, due, tre giorni... si fermava tutto. Poi lentamente qualcuno riapriva la bottega, mettevi la testa fuori e ricominciavi daccapo, in attesa che tutto si ripetesse ancora”. Alcuni di loro sono stati letteralmente trattati come schiavi e torturati. J. ha 19 anni, ed è stato in un centro di accoglienza per migranti in Libia. Mi dice che era un massacro, e che lui aveva il compito di ripulire la stanza dopo che vi erano state malmenate delle persone.

“Vita semplice: lavorare, mangiare...”

Stipati come bestie le giornate si ripetevano un sopruso dietro l'altro, e questi sono i 19 anni di J., che ora mi dice non riesce a smettere di fumare hashish e bere. “non cerchiamo soldi” mi dice S., “non vogliamo diventare ricchi o roba del genere. Vita semplice: lavorare, mangiare, magari una serata con gli amici. Qui, in Francia, in Germania, è uguale. Questa è la vita che c'è per noi, ciò che cerchiamo disperatamente di ottenere... dove non importa. Vita semplice”.
Prima di ripartire passo all'ospedale di Sanremo, dove è stato ricoverato un ragazzo malato di tubercolosi. Sta male, malissimo, e nell'ospedale non c'è nessuno che parli l'arabo. Non un mediatore, non un addetto, non un infermiere. Dall'ospedale chiamano direttamente Musa (il mio contatto dell'associazione Alharaz) che volontariamente (gratuitamente) media tra i medici e il malato perché si possa procedere con le cure. H. soffre moltissimo, e soffre lontano da casa, dalla sua famiglia, da tutti, e persino dalla possibilità di dire il suo dolore.

Sara (volontaria di Alharaz) ha ragione: “A ucciderli non è la frontiera, come molti dicono, ma la nostra indifferenza. L'indifferenza di chi finge di non vedere ciò che accade sotto i propri occhi, l'indifferenza di chi vede ma non ha il tempo di fare perché troppo impegnato a pontificare sulla pelle degli altri, l'indifferenza di chi strumentalizza la disperazione a proprio vantaggio lasciando volontariamente i ragazzi schiavi dei propri aiuti. Forse la verità è che i migranti e gli immigrati li stiamo lentamente uccidendo”.

Mirko Orlando