   
                    
				Dentro gli squilibri sociali 
                Intervista a Domenico “Mimmo” Ferraro della casa editrice Squilibri 
                Camminare tra i vicoli di un centro storico, tra le mura di un antico borgo, tra i sentieri di un luogo abbandonato. Avvertire tutta la bellezza e la bruttura che l'uomo (a volte la stessa mano) ha saputo generare, affiancando pietra, legno e ferro a cemento, mattoni e plastica, zone di coltivo ad aree industriali, luoghi di silenzio e aree pedonali a piste di catrame e alloggi per auto. In armonico e disagevole “squilibrio”.  
Ecco, l'ossimoro, ineccepibile e inconfutabile, che da sempre esplica al meglio la dualità il conflitto e la contraddizione che l'essere umano porta in dote, ci permette di provare a camminare con sana curiosità e ritrovata passione tra le case (i progetti) e gli oggetti (le storie e i suoi protagonisti) di un antico borgo ripopolato da viandanti che, “fiutando” il passato, anelano ad una vita fatta di una stretta relazione con il “circostante”, dove la relazione con tutto quello che ci circonda, feconda la creazione mediante le molteplici sensibilità inespresse. E allora, altre ad abitare lo spazio e il luogo fisico, ci si riappropria dell'abitare lo spazio e il luogo interiore, dell'Io, anarchica e salvifica via per vivere il Noi all'interno dello squilibrio sociale.  
La metafora o, se credete, il delirio introduttivo di quest'ennesima tappa cartacea de “La terra è di chi la canta”, serve per presentare il borgo che ho provato a descrivere, Squilibri, cantiere editoriale che utilizza i rudimenti e le fondamenta del passato e della contemporaneità che porta il nome di cultura popolare. Lascio quindi il narrare della genesi e del senso di Squilibri al suo mentore e cantastorie Domenico “Mimmo” Ferraro. 
                G.F. 
                 Domenico “Mimmo” Ferraro - A voler rimanere all'altezza 
                  di questa bella metafora, potremmo dire che Squilibri si è 
                  ritagliato un angolo di strada nella città vecchia, verso 
                  l'estrema periferia che sfocia in aperta campagna, oppure, il 
                  che è lo stesso, in qualche paesino di montagna ma vicino 
                  e incombente sulla città che si staglia al suo orizzonte. 
                  Fuor di metafora: nessuna nostalgia nel guardare al popolare, 
                  ma, al contrario, l'ostinata volontà a ricercare in quel 
                  mare magnum che chiamiamo tradizione, premesse di un futuro 
                  diverso o anche istanze ancora valide in questa nostra contemporaneità, 
                  fossero anche solo di natura estetica e culturale.  
                  
                Gerry Ferrara - Da quale contesto, territoriale, 
                  sociale, politico ti sei mosso, quali le tue sensibilità 
                  inespresse (o represse) che ti hanno spinto a dar vita ad un 
                  progetto così “consapevole” e quali le direzioni 
                  da seguire. 
                  Se davvero c'è una qualche forma di consapevolezza nel 
                  nostro agire, è arrivata negli anni assieme al progressivo 
                  definirsi di un progetto che non è nato sulla base di 
                  un preciso disegno. L'inizio è stato molto casuale e 
                  ricade per intero all'interno di un grande piccolo festival 
                  che si teneva in Sila: pochissimi soldi, tanto entusiasmo e 
                  voglia di fare, con una crescita esponenziale di pubblico e 
                  problemi. A un certo punto, sarà stato il 2000, giusto 
                  per non farci mancare nulla, abbiamo avuto l'idea di provare 
                  a fare qualcosa di più duraturo, destinando parte di 
                  quei pochi soldi alla produzione di libri e CD, alcuni dei quali 
                  realizzati con Il Manifesto.  
                  Da lì a pensare di farlo in proprio e in modo permanente 
                  il passo è stato breve. A spingerci in questa direzione 
                  era anche il desiderio di liberarci dal vincolo, sempre più 
                  ingombrante, della politica che grava come un macigno sulle 
                  scelte di un'associazione, soprattutto in provincia. Per quanto 
                  possa sembrare paradossale, il mercato, con tutte le sue contraddizioni, 
                  sembrava garantirci una maggiore libertà non dovendo 
                  rendere conto ad altri delle nostre scelte.  
                  Da qui il varo, con non pochi timori, di Squilibri come casa 
                  editrice e il passaggio di queste attività dalla Calabria 
                  a Roma. Il rapporto con le istituzioni – che è 
                  cosa profondamente diversa dal rapporto con la politica, soprattutto 
                  in ambito locale – ovviamente rimane e siamo ben contenti, 
                  quando succede, di poter dare vita a progetti altrimenti difficili 
                  a farsi ma non è fondamentale, come invece lo è 
                  il rapporto con i lettori e con quanti, comprando un libro, 
                  di fatto contribuiscono a tenere in vita questo progetto editoriale. 
                  
                In continuo movimento 
		        Mi piace anche riportare un frammento dell'introduzione 
                  che utilizzate sul vostro sito “rappresentare quanto si 
                  muove, o deve essere ricordato, in quel particolare universo 
                  in cui abita la musica degli uomini, una certa musica in particolare”. 
                  Insomma, il borgo e l'abitare di cui sopra non è poi 
                  solo una metafora. 
                  Metafora del tutto pertinente, soprattutto se si considera la 
                  mobilità che caratterizza oggi l'abitare contemporaneo 
                  per cui ci si sposta con una facilità una volta impensabile: 
                  una precisazione che è utile a rimarcare quello che ho 
                  detto in apertura sulla progressiva definizione di un programma, 
                  il suo delinearsi a mano a mano che prendono forma i singoli 
                  progetti che, tutti insieme, disegnano poi una rotta e un ritratto 
                  allo stesso tempo. Una rotta, per forza di cose, in continuo 
                  movimento e un ritratto che va caricandosi continuamente di 
                  colori nuovi, rivelando tratti e sfumature che in un primo momento 
                  non si coglievano perché erano come in ombra.  
                  Con il riferimento a 'una certa musica' pensavamo di avere trovato 
                  la nostra identità e l'ambito al quale dedicarci in modo 
                  pressoché esclusivo, quello delle musiche di tradizione 
                  orale: una vocazione che si è poi concretizzata lungo 
                  tre linee principali vale a dire materiali sonori di rilevante 
                  interesse storico e documentaristico, materiali sonori altrettanto 
                  interessanti ma riguardanti il presente e, infine, le disparate 
                  possibilità di riuso dei materiali della tradizione, 
                  con riferimento non solo ad esponenti storici del folk revival 
                  come Otello Profazio ma anche operazioni di confine, progetti 
                  artistici del tutto originali ma carichi di richiami e rimandi 
                  alla tradizione. Ci sbagliavamo però: non eravamo ancora 
                  a casa o, per lo meno, quella casa aveva bisogno di essere ampliata. 
                   
                  Che tipo di operazione hai dovuto fare per tirar 
                  fuori dalla polvere una parte fondamentale del patrimonio della 
                  tradizione e della cultura popolare evitando il rischio di incasellare 
                  il tuo lavoro di ricerca e il tuo spirito editoriale nelle sterili 
                  e posticce categorie come “recupero della memoria”, 
                  “estetica del canto” o, peggio ancora, “forme 
                  e stili etnici e identitari”, queste ultime facili prede 
                  dei nuovi crociati alla conquista dei volgari e violenti territori 
                  delle “radici e dei costumi.” 
                  Già nell'organizzazione di quel festival silano avevamo 
                  sviluppato qualche antidoto al rischio di derive identitarie 
                  dato che volevamo – cito dal booklet di uno dei cd pubblicati 
                  allora dal Manifesto – “inoltrarci per le antiche 
                  vie dei canti dove i suoni del mondo formano figure ibride che 
                  irridono agli sforzi di chi vorrebbe rinchiudere l'identità 
                  di un popolo nel tepore artificiale di una serra”. Anzi, 
                  in qualche modo l'abbandono – consapevole e deliberato 
                  – di alcuni entusiasmi generosamente militanti riguardo 
                  alle forme dell'espressività popolare, deriva anche dall'intento 
                  di non offrire il destro alle appropriazioni indebite di questi 
                  patrimoni, tentate periodicamente da venditori a prezzo di saldo 
                  di mal precisate identità.  
                  L'agitare vessilli ideologici, del resto, rischia di immiserire 
                  la portata e il valore di questi patrimoni, rendendoli di parte 
                  quando invece sono universali e intrinsecamente e irrimediabilmente 
                  politici e di una politica altrettanto fortemente e inevitabilmente 
                  orientata in una direzione. Per questo preferiamo deporre ogni 
                  altro bellicoso intento, ritenendoci sufficientemente motivati 
                  da ragioni culturali ed estetiche, relative all'importanza e 
                  alla bellezza dei repertori popolari. 
                  Tutt'altro discorso bisogna invece fare per “il recupero 
                  della memoria” che rimane per noi una prospettiva di fondamentale 
                  importanza, soprattutto se integrata con la lezione di un maestro 
                  come Alessandro Portelli che ha evidenziato il carattere “attivo” 
                  di questa facoltà che, lungi dall'essere irrimediabilmente 
                  protesa verso il passato, appartiene a un determinato soggetto 
                  che, per il suo tramite, lega al contrario passato e futuro 
                  nel prisma della contemporaneità.  
                  Succede così che una ricerca, come quella condotta dal 
                  Circolo Gianni Bosio nell'area dei Castelli Romani con Mira 
                  la rondondella, pur avendo una precisa delimitazione cronologica 
                  (1968-2012), debba fare i conti con figure emblematiche della 
                  militanza politica, da Garibaldi a Gramsci, o anche con episodi 
                  di grande portata simbolica, come le rivolte anticlericali di 
                  fine Ottocento, perché vivi e attuali nei ricordi dei 
                  protagonisti di quella ricerca e a tal punto da alimentare un 
                  ritrovato orgoglio politico che poi si rinnova al presente nelle 
                  lotte per l'ambiente o nel confronto con le culture migranti. 
                  Per non renderla un documento asettico e mutilato nella sua 
                  stessa natura, a una “certa” musica era dunque necessario 
                  abbinare anche il vissuto dei suoi protagonisti lungo quei sentieri 
                  che conducono alla storia orale, alla quale mi piacerebbe dedicare 
                  più spazio di quanto abbiamo fatto finora. 
                   
                  Inevitabile che la tua terra d'origine, isola tra 
                  due mari, terra di confine e soprattutto terra di passaggio, 
                  la Calabria, ti abbia fornito tanto materiale, umano e artistico. 
                  Se dovessimo usare due figure tra passato e presente, Otello 
                  Profazio e Peppe Voltarelli ai quali, non solo artisticamente, 
                  sei legato, cosa ti sollecita raccontare di questa terra che 
                  ancora oggi, da una parte, paga un dazio pesantissimo nell'economia 
                  di svuotamento e depredamento delle risorse e dei saperi, dall'altra 
                  viene guardata come possibile terra d'approdo per seguire il 
                  vento del cambiamento. 
                  Per amor di patria, per così dire, preferirei non parlare 
                  del mio rapporto con la Calabria sulla quale grava una maledizione 
                  biblica che si rinnova di generazione in generazione: quella 
                  di non avere una classe politica all'altezza delle enormi potenzialità 
                  del suo popolo che ha così sviluppato una forma di disincanto 
                  estremo, per quanto espresso il più delle volte nelle 
                  forme di un'amara, amarissima, ironia. Del resto, è soprattutto 
                  su questa immobilità quasi metafisica della Calabria 
                  e, per estensione, di tutto il meridione che Otello Profazio 
                  ha eretto la sua sterminata rivisitazione dei repertori popolari, 
                  evidenziando come dalle parti nostre le 'masse' fossero tutt'altro 
                  che inclini a travestimenti rivoluzionari per via delle tante 
                  speranze troppe volte deluse, spesso anche drammaticamente. 
                  Ed è sintomatico che quando un artista come Peppe, formatosi 
                  in tutt'altri ambienti, avverte la necessità di riannodare 
                  un legame con la propria terra, ritiene quasi naturale farlo 
                  per il tramite di un omaggio allo stesso Profazio, rinnovandone 
                  in qualche modo la lezione con la rappresentazione dolente e 
                  stralunata di un meridione eternamente eguale a se stesso, alle 
                  prese oggi con gli stessi problemi di ieri, dalla mafia all'emigrazione. 
                  L'uno e l'altro, però, a riprova della tenacia del calabrese, 
                  sono lontani da ogni pietosa autocommiserazione e, ancora di 
                  più, da ogni leghismo in salsa meridionale. Così, 
                  pur cantando in musica le ferite sanguinolente della storia, 
                  rivendicano come un diritto il loro essere orgogliosamente 'periferia', 
                  lontani e diversi rispetto alla tendenza uniformatrice e livellante 
                  del 'centro'. 
                  
                Oltre la musica tradizionale 
		        Quali i progetti che ti hanno creato maggiori complessità 
                  e quelli che non avresti mai pensato di realizzare. Gli artisti, 
                  i cantori, i “profeti” con i quali hai avuto un 
                  rapporto “spontaneo” (per stare in tema con il canto) 
                  e quelli che ti hanno “squilibrato” l'idea di partenza. 
                  Ogni progetto è di per sé impegnativo, ma quelli 
                  che più hanno 'squilibrato' le nostre idee di partenza 
                  sono proprio quelli che mai avrei pensato di fare, gli stessi 
                  che ci hanno poi consentito di precisare meglio la rotta da 
                  seguire. Ne vorrei citare almeno tre. Il primo è il volume 
                  di Timisoara Pinto su Enzo Del Re che ci ha rivelato l'esistenza 
                  di altri mondi contigui a quello delle musiche di tradizione 
                  orale. Quella di Enzo Del Re, non a caso refrattario ad ogni 
                  lusinga o attrazione del folk, è infatti 'canzone d'autore' 
                  ma, per molti versi, inconcepibile senza quel sostrato di suoni 
                  e istanze che provengono dal popolare, per quanto tali suoni 
                  e istanze siano stati assimilati e trasfigurati in una originalissima 
                  dimensione artistica. I confini di una 'certa' musica dovevano 
                  dunque ampliarsi per andare oltre il tradizionale e includere 
                  altre musiche, votate allo stesso modo al racconto e sorrette 
                  dalla stessa caparbia inclinazione a muoversi controvento.  
                  Il secondo è un volume di Lello Voce, Piccola cucina 
                  cannibale, che ci ha rivelato l'esistenza di altri mondi 
                  vicini e solidali, a partire da una poesia che rivendica il 
                  ritorno alle proprie origini, quando era una disciplina fondata 
                  sul ritmo e la musicalità, affidata alla viva voce del 
                  poeta e impensabile senza l'abbraccio di una comunità: 
                  un radicale cambiamento di prospettiva, in realtà, perché 
                  il comune denominatore di questi ed altri mondi ancora non è 
                  tanto il “tradizionale”, qualunque cosa si possa 
                  e voglia indicare con questo termine, ma l'oralità, ritornata 
                  prepotentemente in auge dopo secoli di predominio di una cultura 
                  fondata sulla scrittura.  
                  Il terzo è quello che, inaspettatamente e contro ogni 
                  mio proposito, ho finito con lo scrivere io stesso, vale a dire 
                  il volume dedicato a Roberto Leydi e alla Milano dell'immediato 
                  dopoguerra, scoprendo che molto di quanto andavamo cercando, 
                  e di cui in qualche modo stiamo parlando anche ora, era parte 
                  significativa del programma di quegli autori che, insofferenti 
                  verso rigide ripartizione di ambiti disciplinari e avversi alle 
                  asfissianti chiusure proclamate in nome di un'ideologia o di 
                  un'appartenenza, guardavano per l'appunto all'oralità 
                  come a un paradigma ampio attorno al quale costruire una cultura 
                  'altra', diversa e irriducibile a quella ufficiale e straordinariamente 
                  inclusiva potendo abbracciare le musiche di tradizione orale 
                  e il jazz, la musica elettronica e le marionette, il cinema 
                  e i fumetti o, per lo meno, un 'certo' cinema e 'certi' fumetti. 
                  Era come se il cerchio si fosse chiuso, offrendoci le parole 
                  per definire urgenze non più procrastinabili e ricercare 
                  nell'antico e nel popolare qualcosa da spendere, con ritrovata 
                  consapevolezza, anche in questo nostro presente. 
                  
                Con contraria e ostinata passione 
		        Il riconoscimento come miglior realtà culturale 
                  nel 2012 dal Premio Nazionale Città di Loano per la musica 
                  tradizionale italiana, Targa Tenco miglior album in dialetto 
                  nel 2017 Canio Loguercio e Alessandro D'Alessandro con il napoletano 
                  “sussurrato” di Canti, ballate e Ipocondrie d'Ammore. 
                  In qualche modo un “riequilibrio” alla vostra contraria 
                  e ostinata passione. 
Questi ed altri premi e riconoscimenti li prendiamo come incentivi a proseguire sulla stessa strada per continuare a produrre opere meravigliose e fuori da ogni registro come questa di Canio ed Alessandro, ognuno per proprio conto eversore e rifondatore di un canone e di uno strumento. Certo, devi avere anche la fortuna di imbatterti in opere di questo genere ed è anche per questo che coltiviamo con i nostri autori un rapporto che non è solo di lavoro ma anche di amicizia, con a volte una condivisione profonda di intenti ed obiettivi. E, sugli altri versanti della nostra produzione, nulla avremmo potuto fare senza la fiducia che continuano ad accordarci i nostri autori, tra le migliori espressioni della ricerca etnomusicologica contemporanea. 
 
                  Da Diego Carpitella a Roberto Leydi, da Ernesto De 
                  Martino ad Alberto Mario Cirese, dall'Accademia Nazionale di 
                  Santa Cecilia a AESS-Archivio di Etnografia e Storia Sociale 
                  della Regione Lombardia fino all'Archivio “Franco Coggiola” 
                  del Circolo Gianni Bosio. Come “convivono” architravi 
                  del genere nel cantiere editoriale Squilibri, alla luce di un 
                  sistema educativo, scientifico, di ricerca, ma soprattutto sociale 
                  ed economico che non contempla “l'estetica del passato” 
                  e le ragioni storiche per analizzare il presente. 
Mi pare una convivenza felice, soprattutto perché indicano anche come siamo lontani dall'aver assolto a un compito di fondamentale importanza qual è la sistematica pubblicazione di materiali di eccezionale valore storico e documentario oltre che di rara bellezza, in molti casi sconosciuto agli stessi addetti ai lavori perché del tutto inedito: e basti pensare a quanto poco si era pubblicato, prima della collana Aem, di quei tesori inestimabili conservati negli Archivi di Etnomusicologia dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Noi vorremmo fare anche di più ma a volte, il più delle volte, mancano le competenze necessarie per dare vita a lavori adeguati all'importanza di questi materiali. 
 
                  Dai lavori filologici alla documentaristica, dai 
                  cantastorie alle lingue minoritarie, dalle mostre alla didattica 
                  e ai lavori nelle scuole fino alla “riproposta” 
                  del lavoro discografico. Quanta farina da impastare e che lievitazione 
                  lenta per crescere, “che solitudine e che bella compagnia 
                  e che grande il mio tempo” recitava il Cantore Faber. 
                  In che modo “sciamboli” (per citare uno dei vostri 
                  progetti più interessanti) sull'altalena che oscilla 
                  tra quello che vorresti pubblicare e quello che ti viene proposto. 
Considerato che siamo una squadra a dir poco esile e che nessuno di noi ha insane inclinazioni stakanoviste e, anzi, tutti continuiamo ad augurarci la liberazione dal lavoro molesto, pubblichiamo solo quello che ci piace. Un lusso che, nelle disordinate ma imperiose frenesie del mercato, credo si possa concedere solo un piccolo, piccolissimo editore come Squilibri: e noi siamo molto contenti di esserlo. 
 
                  “Antropologia e storia orale costituiscono 
                  un riferimento imprescindibile per meglio comprendere come ogni 
                  espressione culturale –e non solo la musica- non sia mai 
                  un “mondo a parte” ma ricada sempre e inevitabilmente 
                  in più complessi sistemi di relazione tra gli uomini.” 
                  scrive Mimmo Ferraro sul sito Squilibri... Per essere fedeli 
                  e in linea con questo pensiero bisogna, con coraggio e leggerezza, 
                  liberarci delle zavorre che “la normalità” 
                  impone, per dirla alla maniera del maestro Enzo Del Re “Tengo 
                  na voglia, na voglia e fa... niente!!!” 
 
Contatti: 
                  www.squilibri.it 
                  info@squilibri.it  
                 Gerry Ferrara        
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