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                È questa la sensazione che ci 
                  trasmette il nostro corrispondente dalla Grande Mela. C'è 
                  aria di guerra, camminando un sabato per la Broadway. “Rifacciamo 
                  grande l'America” è il ritornello trumpista. Ripensando 
                  al passato remoto e prossimo, verrebbe voglia di andarsene dagli 
                  Usa
                   
                  
                  
                     
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                      |   New York (USA) - La famosa Broadway inizia a Union Square, diviene la strada dei teatri nei pressi di Times Square e prosegue il suo percorso sinuoso per decine di chilometri attraverso Manhattan e il Bronx, fino ai confini settentrionali della Grande Mela  | 
                     
                   
                 
				“Sarà una dura pioggia a cadere” 
(Bob Dylan, 1963) 
				È l'alba di un sabato qualunque e già sono per 
                  strada. Mani in tasca, sguardo perso, cammino verso la Broadway. 
                  Affiora un po' di nostalgia di cari volti lontani, nostalgia 
                  di casa, anche se non so più quale sia casa, ormai. 
                  Non riesco a dormire bene, di questi tempi, mi sento seduto 
                  su una polveriera. C'è aria di guerra. Siria, Afghanistan, 
                  Corea del Nord, poi chissà che altro: l'America è 
                  tornata a flettere i muscoli, mostra al mondo lo scandalo metallico 
                  del suo immenso arsenale. Per lasciare una traccia visibile 
                  sui libri di storia servono morti con la divisa di un altro 
                  colore. Le medaglie appuntate sul petto degli eroi fanno alzare 
                  gli indici di gradimento. I padroni della guerra si fregano 
                  le mani: affari in vista, sessantacinque miliardi di nuovi dollari 
                  per la difesa, una gran parte sicuramente finirà nelle 
                  loro tasche. 
                  Rifacciamo grande l'America, è il nuovo motto e chi non 
                  ci crede è un nemico della patria. Il mondo è 
                  più sicuro quando l'America è più forte, 
                  dicono strateghi e politici. Qui si decide quali sono i nemici, 
                  per cosa vale la pena combattere, a quale prezzo si raddrizzano 
                  le storture. 
                  Assad può uccidere con armi convenzionali, lo fa da anni, 
                  con i gas no, è un modo esecrabile di assassinare. Nello 
                  Yemen si combatte da tre anni, anche lì i bambini muoiono 
                  di guerra, ma Yvanka non lo sa; non se ne parla, dunque quella 
                  guerra non esiste. Sarà perché l'hanno voluta 
                  i sauditi, vecchi amici degli Stati Uniti, che facevano affari 
                  con la famiglia Bush proprio nei giorni in cui il terrore è 
                  caduto dal cielo su New York. Gli oscurantisti che spargono 
                  nel mondo il sale fondamentalista del wahabbismo. Non è 
                  tempo di occuparsi dello Yemen, o del Sud Sudan, adesso è 
                  l'ora di liberare i nordcoreani e, forse, per aiutarli, sarà 
                  necessario ucciderne molti. L'obiettivo è più 
                  importante della loro vita. 
                
                
                   
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                    |   New 
                        York (USA) - La Broadway è l'unico grande viale 
                        newyorchese a seguire un percorso tortuoso  | 
                   
                 
                 Mi sento seduto su una polveriera e potrebbe anche non accadere 
                  nulla, essere solo uno show e la vita proseguire senza drammi. 
                  Basterebbe non pensarci, si può vivere anche facendo 
                  finta che l'ansia non ti divori, come quelli che abitano alle 
                  falde del vulcano sapendo che un giorno esploderà, ma 
                  suppongono che non accadrà proprio nel corso della loro 
                  vita e pensano di lasciare il problema alle future generazioni. 
                  È l'alba di un sabato di fine aprile e sto solo delirando. 
                  Una camminata fra la gente dovrebbe servire a schiarirmi le 
                  idee. Il cielo è grigio ma i rigori dell'inverno sono 
                  passati, si è affacciata una primavera incerta, come 
                  questi tempi, la gente è più distesa e sorride. 
                  Possibile che non sentano la polveriera che pulsa sotto i piedi? 
                  Mi viene in mente la mia unica visita al Partenone, in un agosto 
                  soffocante di tanti anni fa. Appresi che i turchi, nel Seicento, 
                  lo utilizzavano come polveriera e un colpo di mortaio della 
                  Repubblica Veneziana mandò tutto all'aria. Oggi mi sembra 
                  che Manhattan sia il Partenone di quei tempi e basti poco a 
                  farla saltare in aria. Ripasso uno dei copioni che mi sono immaginato: 
                  la Corea del Nord esegue un test nucleare; gli Stati Uniti reagiscono, 
                  perché l'hanno promesso; un sommergibile di Pyongyang 
                  penetra le difese della costa atlantica e lancia il suo carico 
                  di morte nucleare sui grattacieli di New York. Fantapolitica, 
                  certo, fino a quando non accade. È successo già, 
                  l'undici settembre 2001: l'America si è svegliata sotto 
                  attacco ed è finita la sua illusione di immunità. 
                
                
                   
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                    |   New York (USA) - Colazione all'aperto nei locali della Broadway in un tiepido sabato mattina di inizio primavera  | 
                   
                  
                Un delirante prodotto dell'immaginazione 
		        Con le mani in tasca seguo il percorso ambiguo della Broadway 
                  verso sud, guardandomi attorno. È un quartiere come tanti, 
                  nulla di speciale. Casalinghi, supermercati, bar, barbieri, 
                  ferramenta, chiese, cartolerie, una casa di preghiera, la sala 
                  del Regno, una sala da gioco, un teatrino, ristoranti, locali 
                  dove si può ascoltare l'ultima tendenza jazz sorseggiando 
                  una birra, banchetti di libri usati, orsetti lavatori nel vicino 
                  parco. C'è un po' di tutto. La gente fa la fila per comprare 
                  bagel1 o sosta fuori dai locali 
                  in paziente attesa di un tavolo libero per la colazione. I newyorchesi 
                  hanno una predilezione per le file. Musei, teatri, cinema o 
                  ristoranti, la fila non è un deterrente neanche in pieno 
                  inverno. Forse è il pretesto per fermarsi un po' a riflettere 
                  nella loro vita sempre di corsa. Chissà se mentre aspettano 
                  parlano di missili, di guerra o del prossimo incontro degli 
                  Yankees.2 
                  Una passeggiata fra questa gente dovrebbe servire a tranquillizzarmi, 
                  invece mi mette ansia, mi chiedo se gli altri non stiano solo 
                  fingendo normalità o se non abbiano per caso una smisurata 
                  fiducia nella provvidenza o, peggio, nel governo. Mi chiedo 
                  come sia andata nell'ottobre del 1962, durante la crisi dei 
                  missili a Cuba, quando Krushev e Kennedy flettevano i muscoli 
                  anche loro e il mondo è stato a un passo dalla terza 
                  guerra mondiale, quella che ci avrebbe annientati. Che facevano 
                  in quei giorni i newyorchesi? Probablmente la fila per i bagel 
                  e le scorte per il rifugio antiatomico nell'interrato del palazzo. 
                  Ho il sospetto che questa smisurata fiducia sia una delle conseguenze 
                  di quell'astrusa certezza che hanno gli statunitensi di appartenere 
                  a un paese unico, con un destino speciale. L'hanno chiamato 
                  eccezionalismo americano: strani filosofi, politologi 
                  e storici hanno conferito dignità scientifica a un delirante 
                  prodotto dell'immaginazione. 
                  Racconta Bob Dylan che quando compose A hard rain's gonna 
                  fall, magnifica lirica sull'olocausto nucleare in cui: “Ogni 
                  verso vale una canzone”,3 
                  cercò di pubblicarla nel più breve tempo possibile, 
                  perché si viveva nella certezza dell'imminenza di una 
                  guerra atomica e temeva che non avrebbe fatto in tempo. Mi sono 
                  chiesto se si trattasse di lucida follia o di folle speranza. 
                  Speranza che una canzone potesse fermare il corso degli eventi? 
                  Folle testamento artistico da lasciare ai pochi che fossero 
                  sopravvissuti? Dylan non ce lo dirà mai, ma sono passati 
                  oltre cinquant'anni e, per fortuna, il mondo resiste. 
                  Domani è domenica, al centro ci sarà l'ennesima 
                  manifestazione anti-Trump. Non andrò. In pochi giorni 
                  l'esercito americano ha lanciato missili Tomahawk sulla Siria, 
                  la madre di tutte le bombe sull'Afghanistan e minacciato 
                  di attaccare la Corea del Nord, ma loro scendono in piazza per 
                  chiedere che il presidente renda pubblica la propria dichiarazione 
                  dei redditi. Non una sola voce si è alzata per contestare 
                  le bombe e io dovrei marciare per le tasse del presidente? No, 
                  grazie. Sembra che possa impunemente ordinare la morte di migliaia 
                  di persone purché sia retto, onesto, fedele. 
                  A New York la Broadway è la madre di tutte le strade. 
                  Al turista vengono in mente i teatri coi musical e le luci di 
                  Times Square, ma la Broadway si snoda per venticinque chilometri, 
                  attraversa come una cicatrice Manhattan e il Bronx lungo un 
                  percorso tortuoso, non risponde alla logica dell'ossessivo reticolato 
                  di strade parallele e perpendicolari, progressivamente numerate, 
                  che caratterizza la capitale dell'impero. Camminando per la 
                  Broadway si può avere la sensazione che le svolte improvvise 
                  seguano il percorso sinuoso dei pensieri. Le altre avenue sono 
                  troppo trionfali, coi loro rettilinei che si perdono all'orizzonte, 
                  adatte per le parate, così popolari da queste parti. 
                  Quando la madre di tutte le bombe è stata fatta detonare 
                  sull'Afghanistan le autorità hanno assicurato che sono 
                  state prese precauzioni per evitare vittime civili. Alla gente 
                  piace credere a queste storie. Li rassicura l'idea che la guerra 
                  possa essere combattuta in maniera pulita, ammesso che uccidere 
                  gente in divisa sia una cosa pulita. 
                
                
                   
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                    |   La fila per i Bagel fuori da questo negozio sulla Broadway, nella Upper West Side, la si trova in ogni stagione e con ogni tempo  | 
                   
                  
                Ma dio non manca mai nei proclami USA 
		        Per anni gli americani hanno ignorato gli effetti delle bombe 
                  atomiche sganciate sul Giappone, la censura impediva di diffondere 
                  foto e racconti dell'inferno scatenato il 6 agosto 1945, quando 
                  gli Stati Uniti lasciarono cadere “Little Boy” su 
                  Hiroshima. Maledetta sia la loro fissazione di dare stupidi 
                  nomignoli a terribili strumenti di morte. Il ragazzo 
                  ne uccise all'istante centomila, lasciò i sopravvissuti 
                  fra indicibili sofferenze e seminò conseguenze terribili 
                  per le generazioni a venire. Ma il presidente Truman, annunciando 
                  l'evento alla nazione, disse che era stata colpita una base 
                  militare. 
                  L'ossimoro della guerra umanitaria non è invenzione recente. 
                  Il 9 agosto fu la volta di “Fat Man”. L'uomo grasso 
                  venne lanciato su Nagasaki e altri ottantamila furono consumati 
                  in un istante dal fungo atomico. Truman disse ancora: “È 
                  una terribile responsabilità quella che oggi ci è 
                  toccata; ringraziamo Dio che sia toccata a noi e non ai nostri 
                  nemici e preghiamo che egli ci possa guidare affinché 
                  la si possa utilizzare secondo i suoi desideri e per i suoi 
                  scopi”. 
                  I presidenti americani non mancano mai di trascinare Dio nelle 
                  loro storie. Anche Trump ha rispolverato l'intramontabile God 
                  Bless America. Quali fossero i piani di Dio per la bomba 
                  nessuno lo ha mai saputo, ma presto la ebbero anche i nemici; 
                  forse si era distratto o forse aveva avuto paura di tutta quella 
                  morte in mano ad un solo paese. 
                  Ritorno sui miei passi, ripercorro la Broadway a ritroso, voglio 
                  ritrovare Harlem, dove mi sento a mio agio più che fra 
                  questa gente che mi rassomiglia, forse, solo di fuori. 
                
                
                   
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                    |   Uno dei tanti banchetti di libri usati lungo i marciapiedi della Broadway  | 
                   
                 
                 La prima volta che ho sentito parlare di eccezionalismo 
                  americano ho pensato a uno scherzo. Invece è tutto 
                  vero. È la quotidiana banalità della vita di centinaia 
                  di milioni di americani che diventa mito, si esalta nell'idea 
                  che gli Stati Uniti siano stati eletti dalla divina provvidenza 
                  per assolvere un'eterna missione: salvare il mondo dal male, 
                  trasformandolo a loro immagine e somiglianza. 
                  I loro sconosciuti filosofi raccontano che la storia di questo 
                  paese è diversa da quella di tutte le altre nazioni del 
                  mondo e conferisce agli USA un'intrinseca superiorità. 
                  L'America è la biblica città posta sul monte, 
                  scelta da Dio per dare luce all'umanità intera, ha il 
                  sacro dovere di intervenire laddove è necessario. Dall'eccezionalismo 
                  è nato l'americanismo, un'ideologia, un credo 
                  basato su devozione, lealtà e fedeltà agli Stati 
                  Uniti e alla bandiera sempre, in ogni circostanza, a qualunque 
                  costo. 
                  Non sto delirando: accademici di varie discipline dibattono 
                  davvero queste tesi da decenni e i presidenti americani le fanno 
                  proprie per giustificare conflitti, invasioni, colpi di stato 
                  e, poiché la storia non sembra mai insegnare nulla, è 
                  sempre la guerra lo strumento prescelto per difendere e diffondere 
                  libertà e democrazia. Per ogni causa giusta c'è 
                  una guerra giusta. 
                  Nella penisola coreana si era già combattuto negli anni 
                  cinquanta. La propaganda ufficiale negli USA la definì 
                  una lotta della civiltà contro la barbarie. Mezzo milione 
                  di morti, milioni di feriti, immani distruzioni, persino la 
                  minaccia di usare ancora l'atomica: alla fine tutto è 
                  rimasto com'era prima della guerra e tuttavia nessuno, oggi, 
                  si chiede se non ci sia un modo diverso per risolvere il confronto 
                  fra Corea del Nord e mondo occidentale, un modo che non sia 
                  ammazzarsi. 
                  Non so davvero se vale la pena di vivere alle falde di questo 
                  vulcano. 
                  Forse anche queste pagine sono una lucida follia o un tentativo 
                  di testamento spirituale, come la canzone di Dylan. Se diventeranno 
                  caratteri stampati vorrà dire che la polveriera non è 
                  saltata in aria. Altrimenti qualcuno ritroverà queste 
                  righe, fra qualche secolo, nell'hard disk del mio laptop, se 
                  non sarà stato fuso dal fungo atomico coreano. Sarà 
                  una specie di brutto talkin' blues, senza nemmeno la 
                  musica. Una storia banale sulla follia dei potenti e l'impotenza 
                  e insipienza dei loro sudditi, fedeli o meno. 
                  Invece di perdere tempo a scrivere dovrei fare le valige, portare 
                  in salvo la famiglia. Dovrei cercare l'isola giusta, allenarmi, 
                  mettere assieme le scorte. Lo fa un tizio che conosco. Uno di 
                  quelli che si preparano alla sopravvivenza in vista di un eventuale 
                  scenario apocalittico, quando nel mondo distrutto e ostile ognuno 
                  dovrà pensare solo a se stesso, come in certi film. Americani 
                  ovviamente. In giro per il paese ce ne sono parecchi così. 
                  Lui, quello che conosco io, l'estate si allena a portare in 
                  salvo i figli con grandi colpi di remi in un'imbarcazione ben 
                  attrezzata, verso un'isola di cui sa. Laggiù sta costruendo 
                  il suo rifugio e lo difenderà fino alla fine. 
                
                   
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                    |   New York (USA), Broadway - In attesa di entrare in chiesa al sabato mattina  | 
                   
                  
                Niente valigie, preferisco aspettare 
		        Dovrei proprio andarmene, fuggire, prima che queste storie comincino a sembrarmi normali o la pioggia radioattiva mi fissi per sempre l'impronta sull'asfalto fuso di New York, fra le rovine dei suoi grattacieli. 
Eppure la gente al sabato vive la vita di ogni giorno e i barbieri sono affollati come sempre. Domani molti andranno in chiesa, senza fermarsi a pensare a queste storie e magari nei sermoni apocalittici a nessun pastore verrà in mente di parlare di questa possibile apocalisse. Alla morte nucleare non crede più nessuno, ma al mondo ci sono abbastanza bombe atomiche da distruggerlo molte volte. Ogni tanto vale la pena ricordarlo, sperando che non sia una dura pioggia a cadere. 
A pensarci, deve essere faticoso essere americani, cittadini del paese da cui tutto il mondo si aspetta sempre qualcosa; avere sempre un compito da assolvere, suscitare in tutti sentimenti forti, che siano odio o amore. Se fossi statunitense preferirei non esserlo. Vorrei essere di uno di quei paesi piccoli e sperduti di cui tutti ignorano l'esistenza e che nessuno teme. 
La mattina scivola nel pomeriggio, i marciapiedi della Broadway sono ormai troppo affollati, come la mia testa piena di troppi pensieri. Il languore fa capolino ma si confonde con la nostalgia. I Tomahawk ormai sono caduti, la prima MOAB (la madre di tutte le bombe) è esplosa e forse altre seguiranno perchè gli arsenali pieni prima o poi devono svuotarsi, per tornare a riempirsi. Corea del Nord e Stati Uniti si scambiano provocazioni; nello Yemen si muore e a nessuno importa, né qui né altrove. 
Non me la sento di metter mano alle valigie, preferisco aspettare lo snodarsi degli eventi seduto su questa polveriera. Come quelli che vivono alle falde del vulcano. C'è una fine per tutto e non è detto che debba essere per forza la fine di tutto. Con le mani in tasca lascio la Broadway, i suoi negozi tristi e riprendo la strada di casa. Questa casa. 
Il mondo resta per me un enigma e anche in questo sabato primaverile non mi riesce proprio di venirne a capo. 
                 Santo Barezini 
                
                  - Panino in forma di ciambella molto popolare, originario 
                    della tradizione culinaria ebraico polacca. 
                  
 - La squadra di baseball di New York. 
                  
 - Parole dello stesso Dylan. 
                
  
                     
                   
                    
                        Rifugi antiatomici/ 
                          Luoghi predisposti, non molto graditi 
                       
                       Camminando 
                        per New York può capitare di trovarsi di fronte 
                        a un segnale giallo e nero, simile a quelli che troviamo 
                        dal radiologo, recante la scritta: “Fallout Shelter”. 
                        Il cartello, appiccicato su quel muro da più di 
                        cinquant'anni, serviva a indicare la presenza nel palazzo 
                        di un rifugio antiatomico per proteggersi dalla pioggia 
                        radioattiva in caso di attacco nucleare sulla città. 
                        Di questi cartelli, autentiche reliquie della guerra fredda, 
                        ne sono rimasti un centinaio in giro per i vari quartieri, 
                        ma si stima che già nel 1963 le autorità 
                        avessero individuato oltre 18.000 locali da adibire a 
                        tale uso. 
                        La presenza di questi ripari serviva a dare una qualche 
                        sensazione di sicurezza ai newyorchesi in un periodo in 
                        cui la guerra atomica sembrava alle porte, ma in realtà 
                        i “rifugi” erano in genere locali a pianterreno 
                        o cantine nell'interrato, che non avrebbero offerto nessuna 
                        reale protezione dagli effetti delle radiazioni e che 
                        non erano attrezzati per una permanenza prolungata. 
                        Solo alcuni rifugi, destinati ad alti ufficiali e funzionari 
                        governativi, erano autentici bunker fortificati, costruiti 
                        appositamente, collocati nel sottosuolo e riforniti di 
                        quanto necessario ad un lungo soggiorno. 
                        Le cronache raccontano che i newyorchesi fossero in genere 
                        piuttosto scettici circa la reale efficacia di questi 
                        rifugi e poco propensi a nascondersi in locali senza areazione 
                        in cui avrebbero rischiato di restare intrappolati nel 
                        caso di crollo del palazzo sovrastante. 
                      S. B. 
                      
                      
                         
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                          |   New York, Riverside Church, nella Upper West Side di Manhattan – Questo vecchio cartello, residuo della guerra fredda, indica la presenza di un rifugio antiatomico nell'edificio  | 
                         
                       
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