Antispecismo/ 
La caduta degli dèi 
                Siamo dèi che si sono fatti da sé, a tenerci 
                  compagnia abbiamo solo le leggi della fisica, e non dobbiamo 
                  render conto a nessuno. Di conseguenza stiamo portando la distruzione 
                  tra i nostri compagni animali e sull'ecosistema circostante, 
                  in cerca quasi solo del nostro conforto e divertimento, senza 
                  peraltro essere mai soddisfatti. 
                  Può esserci qualcosa di più pericoloso di una 
                  massa di dèi insoddisfatti e irresponsabili che non sanno 
                  neppure ciò che vogliono? 
                    
                  Con queste righe si conclude un poderoso libro che, in poco 
                  più di cinquecento pagine, segue un percorso di centinaia 
                  di migliaia anni, quello compiuto da noi, specie umana, per 
                  arrivare dove siamo adesso. 
                  Con linguaggio facilmente accessibile e senza mai essere semplicistico 
                  Yuval Noah Harari (docente presso il dipartimento di Storia 
                  della Hebrew University di Gerusalemme, specializzato in Storia 
                  Mondiale) autore di Da animali a dèi. Breve storia 
                  dell'umanità (Milano, Bompiani, 2016, pp. 540, € 
                  16,00), ci riporta alle origini della nostra specie – 
                  e ancor prima, alle origini della vita sulla terra - per attraversare, 
                  passo passo, le tappe cruciali che hanno causato le grandi trasformazioni 
                  che ci hanno modellato e attraverso le quali a nostra volta 
                  abbiamo dato forma ai vari habitat in cui ci siamo insediati. 
                  È risaputo, eravamo animali tra gli animali, con caratteristiche 
                  molto simili a ciò che ancora siamo, facemmo la nostra 
                  comparsa sulla terra due milioni e mezzo di anni fa e quei nostri 
                  antenati, che vivevano in Africa Orientale, amavano, giocavano, 
                  formavano amicizie, erano in competizione tra loro... esattamente 
                  come facevano scimpanzè, babbuini, elefanti. Poi, un 
                  giorno, alcuni maschi e femmine di quegli umani arcaici partirono 
                  da lì e incominciarono un viaggio. Si riprodussero, popolarorono 
                  il Nord Africa, l'Europa e l'Asia, nacquero altre specie distinte, 
                  alcune delle quali sopravvissero per ben due milioni di anni. 
                  Abbiamo un sacco di parenti, perduti a ritroso nel tempo, che 
                  ci conducono fino a quella specie che abbiamo chiamato uomo 
                  intelligente, uomo che sa, homo sapiens: l'unica specie umana 
                  rimasta. L'animale caratterizzato da un cervello straordinariamente 
                  sviluppato. 
                  Di questa immensa epopea non viene saltato alcun passaggio, 
                  dalla scoperta del fuoco attraverso le grandi rivoluzioni che 
                  determinarono le trasformazioni nel percorso di evoluzione del 
                  nostro modo di vivere sul pianeta: quella cognitiva con la nascita 
                  del linguaggio, quella agricola con l'addomesticamento di animali, 
                  piante e la costruzione di insediamenti fissi e quella scientifica 
                  che comprende al suo interno anche quella industriale. Coinvolti 
                  in questa meravigliosa e terribile avventura umana leggiamo 
                  i fatti della storia: i primi regni, le prime forme di scrittura 
                  e di moneta, le religioni politeiste. Poi gli imperi, dal primo, 
                  quello Accadico di Sargon, a quello Persiano, quello cinese 
                  degli Han, quello Romano nel Mediterraneo. Quindi il Cristianesimo, 
                  l'Islam, il Buddhismo dell'India. Con la rivoluzione scientifica 
                  i parametri si modificano in maniera sostanziale, la conoscenza 
                  cessa di essere patrimonio divino, la specie umana ammette la 
                  propria ignoranza e incomincia ad acquisire un potere senza 
                  precedenti. 
                  Siamo a cinquecento anni fa, a questo punto le date sono più 
                  facili da tenere sotto controllo, ci si raccapezza meglio e 
                  si individuano con più facilità anche le pecche 
                  di un libro che – ad ogni buon conto - offre la possibilità 
                  di comprendere come è avvenuto il concatenarsi dei fatti 
                  a partire proprio dal principio, da quando materia, energia, 
                  tempo e spazio emersero da quell'evento straordinario che la 
                  fisica – che studia queste nostre caratteristiche fondamentali 
                  – chiamò Big Bang, la grande esplosione. Un dipanarsi 
                  consequenziale di fatti che affascina e appare come uno svelamento. 
                  Libro poderoso dicevo che, quando si avvicina alla contemporaneità, 
                  forse per abitudine a osservare le grandi ere, guarda ai fatti 
                  storici in maniera un po' affrettata, omettendo componenti - 
                  come le importanti trasformazioni avvenute in conseguenza della 
                  volontà di ribellione di interi gruppi sociali – 
                  di non scarsa rilevanza e che qualcosa raccontano. 
                  Un testo importante non perché fornisca risposte o soluzioni 
                  ma perché mai, come nei periodi di spaesamento, l'osservazione 
                  passo per passo degli accadimenti del passato può venire 
                  in aiuto nell'orientarsi, cercando nuovi percorsi, frutto di 
                  intrecci culturali sempre più stretti, usando la conoscenza 
                  di quel che è già stato per stare nel presente 
                  con consapevolezza e decisione. 
                  Poco oltre la metà possiamo leggere così: “Allora, 
                  perché studiare la storia? A differenza della fisica 
                  o dell'economia, la storia non è un mezzo per fare previsioni 
                  accurate. Noi studiamo la storia non per conoscere il futuro 
                  ma per ampliare i nostri orizzonti, per capire che la nostra 
                  situazione presente non deriva da una legge naturale e non è 
                  inevitabile, e che di conseguenza abbiamo di fronte a noi molte 
                  più possibilità di quante immaginiamo. Per esempio, 
                  se studiamo come è successo che gli europei sono arrivati 
                  a dominare gli africani, possiamo forse capire che non c'è 
                  niente di naturale o di inevitabile in merito alla gerarchia 
                  razziale, e che il mondo potrebbe essere ordinato in modo differente.” 
                  E ancora: “Non esiste alcuna prova che la storia operi 
                  a beneficio degli umani perché noi non disponiamo di 
                  una scala oggettiva su cui rapportare tale beneficio. Culture 
                  differenti assegnano una definizione del bene che è differente 
                  (...) I vincitori, naturalmente, credono sempre che la giusta 
                  definizione di bene sia la loro. Ma perché dovremmo credere 
                  ai vincitori?” 
                  C'è chi dice che la storia dell'Homo Sapiens stia 
                  per giungere al termine. Alcuni parlano di sesta estinzione 
                  (cfr. Elizabeth Kolbert, La sesta estinzione, Beat, 2016), 
                  con la differenza che le cinque precedenti non accaddero per 
                  alterazioni profonde della vita sul pianeta causate dal comportamento 
                  di una specie, come sta succedendo ora. Se così fosse 
                  noi apparteniamo a una delle ultime generazioni. Vogliamo lasciar 
                  perdere tutto e tirare a campare oppure domandarci quale strada 
                  percorrere e come vogliamo diventare? 
                  Tentare di influenzare la direzione che stiamo prendendo è 
                  anche il suggerimento che, discretamente, attraverso l'analisi 
                  di tutte le ere ed epoche storiche, l'autore del libro ci fornisce. 
                  Come a dire: le cose sono andate così, avrebbero potuto 
                  anche andare diversamente, molto è stato frutto di scelte 
                  umane. Anche oggi. Anche oggi quella parte di umanità 
                  di cui poco o nulla si parla sui libri di storia, quella considerata 
                  non vincente, quella delle rivolte, che il libro trascura, quella 
                  è l'umanità che già da tempo ha scelto 
                  di invertire la rotta, che sta provando a opporsi cambiando 
                  scelte di vita e che - vogliamo fortemente crederci - può 
                  diventare sempre di più. 
                 Silvia Papi 
                   
                      
                Perugia/ 
				Storia di un'edicola che vuole proteggere la fiamma 
                Edicola 518 è uno spazio di cultura indipendente 
                  e libertà, editoria e rivoluzione, sulle scalette di 
                  Sant'Ercolano a Perugia. “Quattro metri quadrati di spazio 
                  infinito” amano definirlo i fondatori, artisti, giornalisti, 
                  scrittori e studenti, che sotto il nome di Emergenze (il loro 
                  collettivo artistico) hanno aperto questo spazio alla cittadinanza 
                  lo scorso 1 giugno. Abbiamo già dedicato loro una 
                  terza di copertina “pubblicitaria” (“A” 
                  410 ottobre 2016). Per approfondire il discorso, abbiamo loro 
                  proposto un'auto-intervista, realizzata da Antonio Brizioli, 
                  che ha accettato senza esitare. 
                  
                 
                 Come è nata l'idea di riaprire un'edicola? 
                  Come collettivo Emergenze da ormai due anni ci dedichiamo corpo 
                  e mente ad azioni che lambiscono il campo dell'arte e dell'editoria 
                  senza risolversi totalmente in nessuno dei due. Pubblichiamo 
                  una rivista, “Emergenze” appunto, di cui sono usciti 
                  al momento cinque numeri e grazie alla quale ci siamo fatti 
                  conoscere prima nella città di Perugia e poi in tutto 
                  il paese. La rivista ha un formato atipico, una distribuzione 
                  missionaria e delle forme piuttosto ardite. Per chiudere il 
                  cerchio di un progetto che curiamo totalmente (ideazione, realizzazione, 
                  stampa e distribuzione), volevamo uno spazio nostro, dal quale 
                  rilanciare quotidianamente la nostra sfida artistica e politica. 
                   
                  E quindi, perché proprio un'edicola? 
                  Non ci piaceva l'idea di aprire una libreria o uno spazio d'arte, 
                  perché come detto, essendo noi un ibrido difficilmente 
                  identificabile e per sua definizione ambiguo, non ci sentiamo 
                  rappresentati da proposte già canonizzate e oltretutto 
                  costose in termini di soldi, energia e burocrazia. 
                  Così vedendo quel baracchino abbandonato in uno dei luoghi 
                  più belli della nostra città, di fronte alla chiesa 
                  del patrono Ercolano (un santo combattente che ha difeso la 
                  città dalle invasioni barbariche ed è stato spellato 
                  vivo e decapitato da Totila) ci siamo documentati sul mondo 
                  delle edicole. In Italia ogni anno ne chiudono a centinaia e 
                  solo nella nostra Perugia ce ne sono una decina abbandonate 
                  in punti davvero strategici del centro storico. Così, 
                  quasi istintivamente, abbiamo compreso che quella era la cosa 
                  da fare. 
                
                   
                     | 
                   
                   
                    |   Perugia, via Sant'Ercolano 42/A - La mitica Edicola 518 foto: Matteo Valentini  | 
                   
                  
                Ma noi abbiamo rovesciato la piramide 
		        	Qual è la causa della chiusura delle edicole? L'avvento 
                  dell'online immagino... 
                  Questa è la motivazione più banale e quella che 
                  prevale nell'opinione comune, ma in realtà si tratta 
                  soltanto di una concausa. La motivazione principale è 
                  legata alla struttura piramidale dell'editoria italiana, che 
                  ha relegato l'edicolante al ruolo di passivo intermediario fra 
                  l'editore e il cliente, senza possibilità di ricerca, 
                  selezione del prodotto e personalizzazione del proprio punto 
                  vendita. 
                  Questo tipo di struttura è rimasta in piedi finché 
                  si riuscivano a vendere centinaia e centinaia di quotidiani 
                  al giorno, ma è crollata con la crisi della carta stampata. 
                  Una crisi che, a ben vedere, non è dovuta soltanto all'imperversare 
                  dell'online, ma anche e soprattutto alla perdita d'interesse 
                  dei contenuti, alla mancanza di un'evoluzione grafica, all'incapacità 
                  di rinnovarsi e proporsi a un pubblico giovane. Non a caso vi 
                  sono prodotti che, in controtendenza rispetto a tale crisi, 
                  vendono tantissime copie cartacee proprio in virtù di 
                  un diverso approccio rispetto a queste problematiche, penso 
                  ad esempio a “L'internazionale”, che conta migliaia 
                  di abbonati under 30. 
                   
                  Quindi qual è la vostra ricetta? E quale il vostro 
                  criterio di selezione dei prodotti? 
                  Noi abbiamo ribaltato la piramide editoriale che illustravo 
                  sopra, diventando gli unici edicolanti d'Italia a selezionare 
                  ciascuno dei titoli in vendita nel proprio spazio. Questo è 
                  potuto avvenire grazie ai rapporti attivati in questi anni di 
                  grande lavoro nel campo dell'editoria indipendente e grazie 
                  a un lavoro di ricerca quotidiano e instancabile. Prendiamo 
                  la maggior parte delle nostre riviste e dei nostri libri (perché 
                  siamo anche una piccola libreria di strada) direttamente dagli 
                  editori, o in alcuni casi da piccoli distributori con i quali 
                  è possibile operare in maniera sana e collaborativa. 
                  Abbiamo invece rifiutato categoricamente la grande distribuzione 
                  che serve tutte le altre edicole, rinunciando alla vendita dei 
                  quotidiani italiani e delle riviste di largo consumo. Una rinuncia 
                  tutt'altro che dolorosa, a dire il vero... 
                   
                  Nello specifico, cosa si può trovare in Edicola 
                  518? 
                  Quotidiani, settimanali e riviste da tutto il mondo, che danno 
                  allo spazio un respiro internazionale in linea con la vocazione 
                  storica della città di Perugia, sede della più 
                  antica Università per stranieri d'Italia. Dedichiamo 
                  particolare attenzione alle riviste d'arte, architettura, grafica, 
                  moda, design e viaggio. Di alcuni magazine, siamo gli unici 
                  rivenditori in tutta Italia. A livello di libri distribuiamo 
                  piccoli e medi editori indipendenti con cui abbiamo un rapporto 
                  diretto e confidenziale, come Elèuthera, Johan & 
                  Levi, Abscondita, Humboldt, Lazy Dog Press, Archive Books ed 
                  altri. Infine abbiamo riportato a Perugia, dopo anni d'assenza, 
                  la mitica “A Rivista Anarchica”, che con nostro 
                  grande piacere sta trovando seguito anche e soprattutto fra 
                  i giovani. A uno dei ragazzi che ha recentemente acquistato 
                  la Rivista ho detto scherzosamente: “Ne sto vendendo tante, 
                  l'anarchia sta tornando di moda”. E lui mi ha risposto: 
                  “Effettivamente, oggi come oggi è molto più 
                  accattivante della democrazia”. 
                   
                  E poi ci sono le vostre pubblicazioni... 
                  Sì, come accennavo prima la rivista Emergenze è 
                  mezzo fondamentale di diffusione del nostro messaggio, rilancio 
                  delle nostre battaglie e autofinanziamento del nostro movimento. 
                  L'investimento di Edicola 518 è stato messo in atto solo 
                  e unicamente con i ricavi della vendita della rivista, che nella 
                  sua prima stagione ha contato più di 600 abbonati. Oltre 
                  alla rivista, abbiamo da poco pubblicato “Perugia nascosta”, 
                  una guida psicogeografica della città che rimpiazza la 
                  descrizione didascalica dei luoghi con una serie di derive d'ispirazione 
                  situazionista. Un bell'esperimento, che per nostra fortuna sta 
                  andando a ruba. 
					Al centro della vita sociale 
		        	A quanto ne so avete proposto anche eventi in edicola. 
                  Come riuscite a offrire una programmazione di questo tipo in 
                  soli quattro metri quadrati? 
                  La sfida dei “quattro metri di spazio infinito” 
                  è proprio questa: dimostrare che non servono grandi spazi 
                  o grandi budget per mettere in piedi una programmazione di alto 
                  livello, servono piuttosto grandi idee. 
                  Durante tutto il periodo estivo e poi autunnale abbiamo proposto 
                  una programmazione settimanale di eventi culturali a tutto tondo 
                  nei quali la sfida imposta agli artisti e intellettuali coinvolti 
                  è stata proprio quella di esprimersi nella ristrettezza 
                  spaziale dell'edicola: sono venute fuori discussioni spontanee 
                  e senza regole nello spazio pubblico (penso a quella con Giulietto 
                  Chiesa o a quella con la nutrizionista Anna Villarini), la proiezione 
                  a cielo aperto sulle pareti della chiesa del docu-film “Io 
                  sto con la sposa” con il regista Antonio Augugliaro, un 
                  reading poetico leggendario curato dall'attrice Ilaria Drago 
                  e dall'attore Marcello Sambati direttamente da dentro l'edicola 
                  e tanto altro ancora. 
                  In una città che sperpera budget e maltratta spazi pubblici, 
                  Edicola 518 è diventata in breve tempo il centro della 
                  cultura contemporanea e della vita sociale. 
                   
                  Per concludere, vorrei chiederti come si colloca Edicola 
                  518 all'interno del panorama artistico nazionale? 
                  Ad essere sincero non trovo il panorama nazionale così 
                  stimolante. Non mancano certo delle iniziative interessanti, 
                  ma la maggior parte del fermento culturale si muove entro recinti 
                  ben definiti, all'interno dei quali anche il dissenso rischia 
                  di diventare un compiacente strumento di comodo. La grande possibilità 
                  offerta dall'operare oggi in questo paese è proprio dettata 
                  dalla totale assuefazione dei cittadini a meccanismi culturali 
                  ripetitivi e passivi, che rende di fatto un progetto come il 
                  nostro travolgente. 
                  La gente non è più abituata a sentirsi parte di 
                  un processo culturale, a transitare dalla fruizione passiva 
                  dell'evento a una condivisione continua e rigenerante di stimoli 
                  e energie. Uno dei nostri più grandi punti di riferimento 
                  è l'artista, filosofo, politico tedesco Joseph Beuys, 
                  che per altro tenne un'importante conferenza a Perugia il 3 
                  aprile 1980, illustrata in sei lavagne oggi contenute a Palazzo 
                  della Penna (a pochi passi da Edicola 518). Nel suo ultimo discorso 
                  pubblico Beuys disse “Proteggi la fiamma, perché 
                  se non la si protegge, prima che ce ne rendiamo conto il vento 
                  la spegnerà, quel vento stesso che l'aveva accesa. E 
                  allora povero cuore sarà finita per te, impietrito di 
                  dolore.” 
                  Noi siamo qui per questo, per proteggere la fiamma. Gli incendi 
                  saranno portati dall'improvviso innalzarsi dei venti. 
                 Antonio Brizioli 
                  www.emergenzeweb.it 
                   
                      
                Integrazione o libertà/ 
				Appunti per una critica antiautoritaria all'oppressione 
                  delle donne romnì 
                Intervento di Martina Guerrini in occasione della presentazione 
                  del libro di Anina Ciuciu Sono rom e ne sono fiera. Dalle 
                  baracche romane alla Sorbona (Edizioni Alegre, Roma, 
                  2016, pp. 208, € 15,00), promosso dall'Associazione 
                  donNesi/Corea di Livorno. 
                    
                  Quelle di seguito sono, più o meno, le questioni che 
                  avrei voluto proporre per riflettere, non tanto sul libro, quanto 
                  a partire dalla condizione più generale delle donne romnì 
                  oppresse in Europa. 
                  Come sapete, a Livorno ho proposto nelle mie lezioni di formazione 
                  alle volontarie e ai volontari un approccio di analisi delle 
                  condizioni delle comunità rom di tipo “intersezionale”. 
                  Una parola difficile che vale la pena di spiegare brevemente. 
                  Con intersezionalità si intende uno specifico 
                  approccio teorico nato dal tentativo di superare i limiti di 
                  un'analisi centrata sull'asse prioritario della differenza di 
                  genere in cui il sessismo viene considerato come isolato e/o 
                  disgiunto da altri rapporti di dominio (razzismo, classismo, 
                  eterosessismo). 
                  In poche parole, significa che, nel caso delle donne romnì, 
                  nessuna di loro ha mai sperimentato sulla propria pelle una 
                  discriminazione che fosse semplicemente legata all'essere “donna”, 
                  ma anche all'essere “rom” e “povera”. 
                  In realtà questa è una semplificazione, perché 
                  immaginate cosa può sperimentare una donna romnì 
                  di orientamento omosessuale in un mondo come il nostro, che 
                  non rispetta minimamente i diritti di nativi gay, lesbiche o 
                  trans. È evidente che nel caso delle donne romnì 
                  c'è qualcosa in più, e quel qualcosa è 
                  il razzismo e l'oppressione di classe che esse scontano, vivendo 
                  forzatamente nei campi, senza lavoro e prive di scolarizzazione. 
                  Evidentemente, e il caso molto emozionante di Anina Ciuciu lo 
                  testimonia, poter studiare permette alle donne romnì 
                  di trovare una possibile (ma non scontata) via d'uscita dalla 
                  condizione in cui sarebbero destinate a vivere. Si potrebbe 
                  discutere ore sui motivi per i quali – pur lamentandosene 
                  – le istituzioni italiane, ma quelle europee non fanno 
                  eccezione, non dispongono di alcun piano di sostegno alla scolarizzazione 
                  delle giovani romnì e dei giovani rom. Per fare un esempio 
                  a tal riguardo, la femminista romnì Alexandra Oprea, 
                  nata in Romania e ormai newyorkese, molti anni fa metteva chiaramente 
                  in evidenza la questione, riferendosi al caso ormai noto della 
                  sposa-bambina Ana Maria Cioaba. Era il 2003 e Alexandra scriveva: 
                  “Un esempio significativo a riguardo: la BBC ha riferito 
                  che “il caso [di Ana Maria Cioaba] ha spinto il Commissario 
                  degli Affari Sociali della UE Anna Diamantopoulou a dire alle 
                  comunità rom di non implorare aiuti nella lotta anti-discriminazione 
                  finché continuano ad abusare dei diritti delle loro stesse 
                  comunità”. 
                  Oprea denuncia che né l'Unione Europea né la Romania 
                  hanno mai disposto un piano di scolarizzazione per le bambine 
                  romnì, pur sapendo benissimo che il diritto allo studio 
                  è l'unico mezzo per evitare i matrimoni precoci che tanto 
                  li scandalizzano. 
                  Appare quindi quanta ipocrisia e malvagità sia nascosta 
                  dietro alle dichiarazioni dell'Unione Europea dell'epoca: le 
                  comunità rom sono patriarcali e non conoscono i diritti 
                  umani, perché mai dovremmo aiutarle e non discriminarle? 
                  Il “giochino” – se posso chiamarlo così 
                  – delle istituzioni è sempre il medesimo: utilizzare 
                  un'oppressione contro l'altra, in questo caso la discriminazione 
                  di genere contro quella “etnica”, ovvero sostenendo 
                  che poichè i rom violano la libertà delle bambine 
                  e delle giovani adolescenti romnì, non hanno alcun diritto 
                  di pretendere rispetto per la propria “cultura”. 
                  Alexandra Oprea si ribella giustamente al fatto che non si può 
                  pretendere di scegliere tra il proprio genere e la propria appartenenza 
                  ad una comunità etnica, e che si debba capire cosa favorisce 
                  l'emergere di molteplici oppressioni. Né la Romania, 
                  né la UE escono da questa circostanza immacolate, perché 
                  niente hanno fatto affinché le donne romnì potessero 
                  intraprendere e completare un percorso di scolarizzazione – 
                  inferiore, superiore, di alto livello – esattamente come 
                  tutte le altre bambine dei paesi europei. 
                  Non vorrei dilungarmi su questo, sappiamo bene che l'Italia 
                  si comporta esattamente nello stesso modo, e che la Francia 
                  ha recentemente espulso una giovane studentessa romnì 
                  di origine kosovara, Leonarda Dibrani, impedendole di continuare 
                  gli studi, e chiedendole ciò che paventava Alexandra, 
                  ovvero di abbandonare i genitori rimpatriati in Kosovo per diventare 
                  una “brava francese”. Di nuovo, il bivio è 
                  quello di essere rom o di scegliere la libertà delle 
                  donne che gli stati europei si vantano di difendere. 
                  Anche, qui, un inganno in piena regola! Non fosse che per il 
                  fatto che la libertà non è mai calata dall'alto, 
                  ma praticata individualmente, e la storia del mondo (non della 
                  sola Europa!) racconta storie piuttosto sanguinose circa la 
                  guerra dichiarata dagli stati e dai governi contro la oggi tanto 
                  sbandierata “libertà delle donne”! 
                  Ma torno al punto. 
                  Quel che vorrei mettere in evidenza è che esiste chiaramente 
                  uno stereotipo incredibilmente negativo cucito letteralmente 
                  sulla pelle delle comunità rom. In esse, le donne sono 
                  l'elemento più oppresso - e ripeto, è così 
                  in ogni società capitalistica o semi-capitalistica, noi 
                  non facciamo alcuna eccezione - ma esse sono anche l'esempio 
                  creativo di come si può cercare una via di fuga, opporre 
                  resistenza, fregare l'oppressore con i suoi stessi mezzi. 
                  Di questa capacità incredibile delle donne romnì, 
                  le femministe italiane e europee non hanno capito niente, continuando 
                  a ritenerle delle povere ingenue che subiscono vessazioni senza 
                  ribellarsi. 
                  Qualche esempio assai simpatico a riguardo lo riporta di nuovo 
                  Alexandra Oprea, e cito di nuovo le sue parole: “Ho visto 
                  le mie amiche ribellarsi contro genitori autoritari rifiutando 
                  di sposare lo sposo prescelto e sotto altri aspetti tentare 
                  di fregare il sistema utilizzando le sue stesse regole. Numerose 
                  amiche hanno pianificato la loro fuga per adeguarsi a sposare 
                  il compagno scelto dai genitori soltanto per separarsene entro 
                  due mesi o un anno, dopo di che, non più vergini, erano 
                  di fronte a minori restrizioni. 
                  Esistono molti tipi diversi di resistenza. Essa non si verifica 
                  sempre nell'estremo pacchetto “abbandona la comunità, 
                  non tornare mai più”, sebbene alcune romnì 
                  “scelgano” altresì questa strada. Ovviamente, 
                  queste scelte devono essere osservate criticamente nel loro 
                  contesto, e non possono essere considerate vittorie complete. 
                  Il risultato può difficilmente essere considerato un 
                  trionfo, quando una donna è costretta a scegliere tra 
                  separare se stessa dalla gente che ama (e affrontare un mondo 
                  razzista e sessista da sola) e soccombere ai test di verginità 
                  e ai matrimoni precoci”. 
                  Cerco di concludere. 
                  Capisco che di fronte a uno stereotipo tanto insidioso, pervasivo 
                  e, purtroppo, popolare, l'obiettivo possa essere quello di opporre 
                  un'immagine delle comunità rom diversa e positiva. Niente 
                  da aggiungere: nella guerra dell'immaginario ci sta, ed è 
                  forse necessario, come immediato e più rapido “intervento 
                  di primo soccorso”, affinché si interrompa l'emorragia 
                  di fantasiose denunce, sottrazioni ingiuste e ingiustificate 
                  di minori dai campi, aggressioni, pogrom, assassinii. 
                  Tuttavia, non tutto è semplice come appare e mi pare 
                  ci siano degli scivolamenti, dei rischi, in questo approccio, 
                  che forse non sono intravisti o sono sottovalutati. 
                  In primo luogo, ricordiamoci che lo stereotipo negativo non 
                  è nocivo solo perché descrive i rom e le romnì 
                  come la feccia della società, ma perché inchioda 
                  questa immagine al loro corpo, cioè rende lo stereotipo 
                  negativo universale, valido per tutti e tutte, ed è in 
                  questa sua pretesa totale e totalitaria che si insinua il suo 
                  potere. 
                  Se si oppone ad esso un immaginario diverso, opposto, migliore, 
                  positivo, che scivola pericolosamente verso il compatibile, 
                  l'inserito, il legalitario... io qualche problema ce lo vedo. 
                  E lo vedo esattamente nello stesso potere di raccontare tutti 
                  e tutte nello stesso modo, quando sappiamo benissimo che ci 
                  sono comunità rom che desiderano essere nomadi e alle 
                  quali non importa niente di avere una casa, oppure che non vorrebbero 
                  di certo andare a lavorare in fabbrica, se l'alternativa offerta 
                  dal mondo gagio è passare dagli espedienti o dai lavori 
                  di sussitenza all'esercito di schiavitù salariata, come 
                  la definiva Marx ormai moltissimi decenni fa. 
                  Allora il problema, di nuovo, siamo noi. 
                  Nell'estrema generosità che risiede nel tentativo di 
                  difenderli dall'orrore che ogni giorno subiscono, pensiamo di 
                  spingerli a costituire una “quota d'azione” di un 
                  mondo e di un sistema – e qui certamente non tutti saremo 
                  d'accordo – che a me personalmente non solo non piace 
                  affatto, ma ogni giorno con le mie miserabili capacità 
                  e contraddizioni, mi sforzo di cambiare il più radicalmente 
                  possibile. Perché se penso che il salario sia tempo estorto 
                  da un padrone, debbo ritenerlo una soluzione per i rom? Perché 
                  se penso che l'esercito vada abolito, dovrei favorire l'arruolamento 
                  dei rom? Perché se penso che quando lo stato si fa chiamare 
                  patria seguirà una scia di morti, debbo chiedere ai rom 
                  di amarla e servirla? 
                  E ancora, perché se io posso muovermi in (quasi) tutto 
                  il mondo, con un semplice timbro su di una carta, e vivere in 
                  una roulotte nel deserto girando il mondo a far fotografie, 
                  i rom debbono rinunciare al loro nomadismo, se non lo vogliono, 
                  e prendere casa, pagando l'affitto e entrando in quel frenetico 
                  e alienato meccanismo “produci-consuma-crepa” che 
                  era al centro delle lotte dei movimenti antiglobalizzazione 
                  nei quali ho militato per anni? 
                  Sto anche provocando, naturalmente, ma fino a un certo punto. 
                  Io che non vorrei una borghesia ad opprimere una classe subalterna, 
                  non chiederò mai ai rom di tentare la scalata sociale 
                  per tirar su tutti gli altri, in primo luogo perché questo 
                  non avverrà (non è mai avvenuto: Obama non ha 
                  migliorato la condizione degli afro-americani negli Usa, come 
                  sottolinea il movimento Black Lives Matter), in secondo luogo 
                  perché la liberazione di una comunità non può 
                  avvenire a scapito dell'oppressione di classe degli altri e 
                  delle altre, o ci ritroveremmo a parlare e far politica esattamente 
                  come ha fatto la Romania nel 2003. 
                  Come scriveva un mio caro amico e appassionato sostenitore della 
                  causa rom, Lorenzo Monasta: 
                  “Cosa intendiamo con “integrarsi”? Non facciamo 
                  confusione. Non vuol dire assimilarsi. Se per un attimo prendiamo 
                  in considerazione il fatto che in una società integrarsi 
                  significhi convivere civilmente ed essere rispettati nella propria 
                  diversità, allora può andare bene. Purtroppo le 
                  società aperte a questo tipo di integrazione sono rare. 
                  Pur essendo ottimista e considerando l'integrazione possibile 
                  in una società aperta, quando sostengo che i rom e i 
                  sinti vogliono integrarsi provo sempre un forte disagio dovuto 
                  alla tristezza che aleggia in colui o colei che pone la domanda, 
                  e in chi risponde. Proviamo anche solo un momento a dircelo 
                  da soli: “Sono integrato”, “Sono un integrato”, 
                  “Mi sento integrato”, “Mi sento pienamente 
                  integrato”. Deprimente. Non è bastato essere ottimisti”. 
                  Concludo con un esempio attualissimo per spiegare i rischi legati 
                  all'assimilazione di classe delle comunità rom in una 
                  società capitalistica. 
                  L'autoproclamato re dei rom, Dorin Cioaba, ha sostenuto pochi 
                  giorni fa di voler costruire lui il muro di Trump contro il 
                  Messico, e di poterlo fare a prezzi concorrenziali rispetto 
                  alla forza-lavoro gagé. 
                  Ecco, pur nella sua eloquente e kitsch improbabilità, 
                  questo è un esempio di come una borghesia rom non sia 
                  d'aiuto né a proletari gagi né a proletari rom. 
                 Martina Guerrini 
                   
                      
                Il quartiere pisano del Riglione/ 
				Uno spaccato di umanità e vita sociale 
                Ogni grande o media città europea, che abbia subito 
                  le trasformazioni traumatiche epocali novecentesche ridefinendosi 
                  magari in area metropolitana onnicomprensiva, ha spesso fagocitato 
                  e inglobato nel proprio grembo paesi del circondario, vecchie 
                  comunità nate dai mestieri e dagli esodi, e identità 
                  antropologiche culturali significative, rendendo infine tutto 
                  livellato e irriconoscibile. E questo sembrava anche il destino 
                  del borgo di Riglione, oggi inghiottito dal tessuto urbano di 
                  Pisa, situato a sei chilometri appena dalla torre pendente, 
                  posto sull'asse viario per Firenze. (Massimiliano Bacchiet, 
                  Riglione. “Questa centrale e laboriosa borgata”. 
                  Vita sociale e politica 1861-1948, BFS edizioni, Pisa, pp. 
                  242, € 18,00) ci racconta una bella storia toscana di paese, 
                  come quelle di una volta; scritta meglio però si direbbe. 
                  Antico luogo di transito, ha sviluppato naturalmente una propria 
                  vocazione all'accoglienza che si esplicitò inizialmente 
                  nelle attività di stallaggio e in osterie approntate 
                  per i viandanti e per i barcaioli dell'Arno. 
                   Eventi 
                  sociali e politici in dimensione micro si intrecciano, donne 
                  e uomini del popolo escono dall'anonimato facendosi protagonisti 
                  del nascente movimento operaio, tra sovversione socialista, 
                  anarchismo e repubblicanesimo, fra preti e fascisti. Apprezzabile, 
                  e decisamente innovativa, la scelta delle cesure: il classico 
                  e necessario 1861 come terminus a quo, ma in particolare 
                  il 1948 come terminus ad quem. 
                  Lo scenario nazionale oltrepassa di conseguenza il limite formale 
                  della seconda guerra mondiale, inserendovi per intero il “decennio 
                  della crisi”, ossia la lunga transizione globale dall'età 
                  dei fascismi a quella della guerra fredda. La storia locale 
                  come genere e approccio alla ricerca ha fatto certamente il 
                  suo tempo, almeno in quella accezione subordinata con cui è 
                  stata interpretata per una buona parte del secolo scorso, ma 
                  oggi si deve piuttosto parlare di una dimensione “spaziale”, 
                  indispensabile per cogliere in una prospettiva epistemologica 
                  un campo d'indagine ridotto al fine di una comprensione totale 
                  di ogni aspetto. È polvere di storia e, per dirla con 
                  Delio Cantimori, storico d'altri tempi: sono piccoli fatti che, 
                  ripetendosi, si affermano come realtà seriale; ciascuno 
                  di essi attesta per migliaia di altri che attraversano in silenzio 
                  lo spessore del tempo e durano... Sono le vicende di un microcosmo 
                  culturale toscano viste sul lungo periodo, analizzate e verificate 
                  negli snodi e nei cambiamenti epocali salienti: unificazione 
                  nazionale, industrializzazione e nascita del movimento operaio. 
                  Alle origini di tutto ci sono le passioni della modernità 
                  che incombe e le nuove attività economiche che rimodellano 
                  territori e persone. Nel pisano, come altrove del resto, l'identità 
                  contadina e il sistema mezzadrile erano prevalenti. Una folta 
                  classe di braccianti o “pigionali” popolava i sobborghi 
                  ed il tessuto economico iniziava a caratterizzarsi per la presenza 
                  di piccole manifatture soprattutto nei settori tessile, vetrario 
                  e laterizi. Nascevano inedite culture del lavoro e, insieme, 
                  nuovi stili di vita e identità comunitarie. La tipica 
                  sociabilità e il mutualismo di marca operaia iniziavano 
                  così a manifestarsi tra le classi subalterne, con un 
                  forte impronta sovversiva, preludio a un'epoca che sarà 
                  consacrata alle azioni dirette. 
                  Il volume, suddiviso in dieci capitoli in scansione cronologica, 
                  è corredato da un apparato iconografico di straordinaria 
                  bellezza, fra cui emerge lo stendardo nero con frange rosse 
                  del Gruppo anarchico “Demolizione” di Riglione. 
                  È proprio il caso di dire che c'è davvero “Un'altra 
                  Italia nelle bandiere dei lavoratori”. Una parte importante 
                  del libro è dedicata all'anticlericalismo che, insieme 
                  all'antiautoritarismo e alle lotte sindacali, costituisce la 
                  cifra otto-novecentesca dei movimenti popolari: nel nome di 
                  Ferrer e Giordano Bruno, nel nome di Galileo Galilei. 
                  Dall'albero della libertà inneggiante alla repubblica 
                  il filo narrativo prosegue sostenuto: con “gli opranti 
                  che escono dai telai” e la diffusione dei “pensieri 
                  ribelli”, con la lotta al prete e l'apostolato laico, 
                  con anarchici, clericali e la lontana guerra europea, con Arditi 
                  del popolo e camicie nere, con la nuova guerra mondiale e le 
                  speranze della ricostruzione. 
                  “In questa complessa storia c'è, lo ricordiamo, 
                  – ha scritto il prefatore Mauro Stampacchia – il 
                  nucleo essenziale della storia del paese Italia. Un cammino 
                  di ascesa, della parte di popolazione confinata senza speranza 
                  a un ruolo marginale e non rilevante nella società e 
                  nella politica, che si rovescia nel suo contrario e cioè 
                  nella realizzazione di un percorso di emancipazione.” 
                  Lo storico locale, una volta, era una figura con un preciso 
                  cliché: parroco, farmacista, maestro o comunque figura 
                  di riferimento nel paese che si prefiggeva unicamente di illustrare 
                  memorie civiche e di rinverdire le glorie del campanile. 
                  Poi è stata la volta dei testimoni/protagonisti dei grandi 
                  eventi novecenteschi, spesso militanti politici, tutti tesi 
                  ad inserire il proprio vissuto nell'epopea nazionale. Infine 
                  siamo approdati a studi di questo tipo, basati sulla compulsa 
                  di un'ampia gamma di fonti, condotti da autori che hanno messo 
                  insieme due elementi che sono ormai indispensabili: passione 
                  e ferri del mestiere. È una lettura questa, adatta anche 
                  ai non-pisani. 
                  
                 Giorgio Sacchetti 
                   
                      
                Cernobyl' e Fukushima/ 
				Dimenticare, perché il nucleare continui 
                Arkadij Filin non è il nome dell'autore, ma lo pseudonimo 
                  scelto dalle tre persone che hanno scritto questo libro Arkadij 
                  Filin – (Dimenticare Fukushima, Istrixistrix, pp. 
                  208, € 10,00) per rendere omaggio a uno dei cosiddetti 
                  liquidatori di Cernobyl' (quelli che hanno materialmente 
                  cercato di mettere in sicurezza e di ripulire il territorio, 
                  morendo come mosche) e stabilire in questo modo una continuità 
                  tra quelli che sono i due eventi determinanti nello svelamento 
                  delle recondite meraviglie dell'energia nucleare. 
                   Il 
                  disastro sovietico appartiene a un mondo antico, nel quale Ucraina 
                  e Bielorussia – destinatarie della gran parte delle radiazioni 
                  – erano semplici regioni dell'Urss, tirannico impero notoriamente 
                  dotato di tecnologie arretrate e di incompetenti apprendisti 
                  stregoni che mettevano le mani in un obsoleto quanto pericoloso 
                  giocattolo che scoppiò loro tra le mani. La centrale 
                  Lenin in quel lontano 1986 sparse in giro per l'Europa e per 
                  il mondo intero gli effetti collaterali di uno sviluppo energetico 
                  che si voleva e si vuole progressivo e illimitato, suscitando 
                  una diffidenza diffusa che portò in alcuni paesi come 
                  l'Italia al blocco della costruzione delle centrali e in altri, 
                  come la Francia – da dove provengono gli autori del testo 
                  – all'allestimento di un potente apparato persuasivo volto 
                  al sostanziale oblio della catastrofe, anche grazie all'occultamento 
                  di dati, per riempire il proprio territorio di reattori “puliti 
                  e sicuri”. 
                  Dopo venticinque anni anche i poveri nuclearisti nostrani avevano 
                  rialzato la testa ed erano ormai proiettati verso un rilancio 
                  della politica atomica quando un brutto giorno di marzo del 
                  2011 a un terremoto si aggiunse un maremoto che investì 
                  la centrale di Fukushima sulle coste del supertecnologico e 
                  democratico Giappone. Tra l'altro i sei reattori gestiti dalla 
                  Tepco, una società giapponese, erano di costruzione della 
                  General Electric, quindi macchinari americani, roba della quale 
                  ci si può fidare. Quello che avvenne nell'impianto non 
                  è in fondo particolarmente degno di nota, essendo la 
                  semplice conferma del fatto che se ci si affida a una tecnologia 
                  scarsamente controllabile questa prima o poi andrà fuori 
                  controllo. 
                  Molto più interessante è ciò che avvenne 
                  – e avviene ancora oggi – fuori dall'impianto. 
                  L'idea di gestione del disastro emerse nitidamente nelle parole 
                  e nelle azioni degli uomini del governo giapponese, della Tepco, 
                  dell'informazione, di tutti gli uomini di potere. Le notizie 
                  sulla gravità della situazione vennero sistematicamente 
                  minimizzate e agli abitanti della regione non fu consentito 
                  di sapere quali rischi correvano, se fosse necessario, opportuno, 
                  inopportuno o impossibile andare via da lì, quali sarebbero 
                  stati gli effetti sui bambini e sulle future generazioni. Nelle 
                  duecento pagine di questo volume il quadro viene dipinto in 
                  maniera sufficientemente dettagliata mettendo in luce aspetti 
                  che se non fossero tragici potrebbero rientrare nelle spirali 
                  comiche di un cabaret dell'assurdo. Voglio solo citare la questione 
                  della “radiofobia” tirata in ballo dal vicerettore 
                  della Facoltà di medicina il quale il 20 marzo 2011 dichiarò 
                  pubblicamente che: “Chi sorride non patirà danno 
                  alcuno dalla radioattività, questa colpirà solo 
                  chi sarà preoccupato. Se affrontate la situazione, per 
                  quanto difficile possa essere, ecco che la radioattività 
                  non vi colpirà. Ad ogni modo 100 µSv/ora non rappresentano 
                  un pericolo per la salute.” Per poi precisare in un'intervista 
                  successiva: “Grazie alla sperimentazione sui ratti sappiamo 
                  chiaramente che gli animali stressati sono quelli più 
                  colpiti dalle radiazioni. Lo stress non fa per niente bene a 
                  gente che sia stata soggetta a radiazioni. “D'altronde 
                  uno stato mentale di stress indebolisce il sistema immunitario 
                  e di conseguenza può favorire l'insorgere di alcune malattie 
                  cancerogene e non.” 
                  Ritengo che ogni commento sia superfluo. 
                  Oggi la parola d'ordine è, come recita il titolo – 
                  Dimenticare. Un oblio necessario per non mettere in discussione 
                  un'idea di benessere dove produzione e consumo di energia possano 
                  essere illimitati e soprattutto diretti dall'alto da tecnici 
                  dall'indiscutibile competenza. Il tutto fino alla prossima centrale 
                  che salta, chissà dove.  
                 Giuseppe Aiello 
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