Architettura/ 
Riflessioni stimolanti di un “capomastro” di Emergency 
                 Va 
                  da sé che ogni architettura sia funzionale rispetto al 
                  suo mandato d'origine: lo sviluppo dell'idea e l'espressione 
                  strutturale ne costituiscono forse l'elemento più denso 
                  di significati. Per concetto di “funzione” in architettura 
                  si intende non solo un adattamento logico della forma all'uso- 
                  come la definizione stessa vorrebbe- ma qualcosa di più 
                  che attraversi la condizione “umana” di questo adattamento. 
                  “L'architettura è, e resta, un meraviglioso processo 
                  di sintesi in cui sono coinvolte migliaia di componenti umane: 
                  essa rimane pur sempre “architettura”. La sua missione 
                  è ancora di armonizzare il mondo materiale con la vita”, 
                  disse Alvar Aalto, uno delle figure più intuitive del 
                  XX secolo, nel novembre del 1940. È proprio in seno a 
                  questa dimensione dell'architettura – come trama e spazio 
                  di legami sociali – che si pone Raul Pantaleo, architetto 
                  e realizzatore di diversi centri sanitari per Emergency. 
                  Nella stesura del suo ultimo libro La sporca bellezza 
                  (Elèuthera, Milano 2016, pp. 127, € 13,00), Pantaleo 
                  narra delle proprie cronache di capomastro in terre sfigurate 
                  da guerra e da povertà nelle quali portare costruzioni 
                  di pace significa rivolgersi con fiducia a coloro che transiteranno 
                  in questi spazi. Così l'architettura supera il suo valore 
                  oggettuale per diventare simbolo del possibile dove “il 
                  luogo pubblico, in quanto tale, diviene luogo della condivisione 
                  dove il patto sociale si costruisce giorno per giorno” 
                  (p.78). 
                  La creazione di ospedali, di cliniche, di centri di cura in 
                  luoghi dove la bellezza si inzozza, si infanga di morte e di 
                  eccidi, diviene atto protettivo per la condizione di malattia, 
                  rispettandone la necessità e l'urgenza, pur senza rinunciare 
                  ad una progettistica virtuosa e ad una fisionomia creativa, 
                  scongiurando così il pericolo della serialità 
                  dell'edificazione. 
                  Le planimetrie di Raul Pantaleo, nella sfida di Gino Strada, 
                  diventano “il manifesto di un'idea di bello radicata nel 
                  pensare all'architettura come un'arte eminentemente sociale” 
                  (p.124) secondo un'ipotesi peraltro già avanzata da Giovanni 
                  Muzio, nel 1921, come reazione alla confusione e all'esasperazione 
                  di individualismo dell'architettura moderna. Per “sociale” 
                  allora qui si fa riferimento al superamento dell'inospitalità 
                  di alcuni ospedali, della sterilizzazione del loro aspetto, 
                  “macchina anonima per riparare corpi fallati, tanto efficiente, 
                  quanto disumana” (p. 20) dove gli spazi non rispondono 
                  più alla domanda delle comunità che li abiteranno, 
                  quanto alla logica del costo ridotto e della validità. 
                  Ecco allora che l'ospedale a Kabul, la clinica pediatrica a 
                  Port Sudan, il reparto maternità a Busengo, il centro 
                  chirurgico a Goderich, il centro pediatrico a Bangui, la scuola 
                  cinema e l'Istituto di Ricerca Sociale dell'Università 
                  di Makerere a Kampala, il centro Salam a Khartoum, mostrano 
                  tutti, nelle loro diversità strutturali, il volto umano, 
                  il piacere di stare intra moenia. Anche le misure, le 
                  geometrie portano il loro equilibrio, nella poetica dei numeri 
                  poiché nell'efferatezza dei Paesi che li ospitano, rappresentano 
                  “un piccolo gesto di normalità, di sollievo ilusorio” 
                  (p. 31). Il banco di prova della poetica dei numeri è 
                  proprio questo, vivere la normalità nonostante tutto, 
                  preservando negli edifici anche quegli elementi distintivi della 
                  cultura architettonica di provenienza: prestare ascolto alle 
                  comunità resistenti dell'Africa dona senso nuovo ad un 
                  pensiero occidentale urbanistico più impositivo rispetto 
                  a valori e stili. 
                  Costruire in molti parti dell'Africa, inoltre, impone il confronto 
                  con la crudezza di considerare che tutto possa precipitare, 
                  e appaiono quanto mai necessarie la prudenza e il compromesso 
                  tra aprire e proteggere: “le finestre devono essere piccole 
                  per poterle facilmente mascherare e per evitare, in caso di 
                  esplosione, di generare troppe schegge, mentre i muri devono 
                  essere massicci per proteggere dagli urti e gli edifici per 
                  essere chiusi all'occorrenza” (p. 98). 
                  È così difficile allora ripensare l'architettura 
                  all'interno di un processo di “umanizzazione edile” 
                  che possa trasformare squallidi stanzoni in spazi per accogliere 
                  persone che soffrono oppure questo ripensare è troppo 
                  radicale nella sua percezione dello spazio? 
                  Il problema è senza dubbio legato al profitto, “poiché 
                  la bellezza ha un costo che non genera alcun utile e per questo 
                  è trascurata” (p. 51), ma è altresì 
                  legato all'assetto culturale per il quale si fa fatica a comprendere 
                  che se nei luoghi di cura non c'è affetto nella 
                  realizzazione, non ci sarà nessun effetto che 
                  produca benessere né per i degenti né per i curanti. 
                  In questo disvelamento psico-geografico, il lavoro dell'architetto 
                  può diventare davvero prezioso, poiché, come scrisse 
                  nel 2004 James Hillman, straordinario analista junghiano, “l'architetto 
                  ha il potere di essere il vero psicologo archetipico delle comunità”, 
                  dato che un progetto d'architettura comincia proprio come una 
                  fantasia desiderata, come possibilità di bellezza immaginata. 
                  È su tale inciso che Raul Pantaleo offre una visione 
                  attuabile e fattibile di architettura promotrice rivoluzionaria- 
                  secondo lo stesso- di “bellitudine” più che 
                  di “bellezza”, poiché se la seconda riporta 
                  ad un esercizio di stile, anche un po' vuoto, è proprio 
                  la prima che si fa drammaticamente reale, quindi fruibile. Solo 
                  in tale direzione, forse, l'etica estetica dell'abitare si può 
                  incarnare nell'appartenenza ad una serie di luoghi che circoscrivono 
                  l'essere e l'agire. 
                 Daniela Mallardi 
                   
                      
                L'anarchia all'opera/ 
Quando la rivoluzione va a teatro 
                 “Il 
                  mondo, per Ruggero Balestrieri, si divideva in due parti nette 
                  e ben distinte. Da una parte il tenore Ruggero Balestrieri, 
                  da quell'altra i restanti abitanti del pianeta”. 
                  Facile a dirsi, e a capirsi, se il soggetto in questione è, 
                  per l'appunto, cantante lirico, ovvero persona abituata a stare 
                  sulla scena da protagonista tanto in teatro quanto nella vita. 
                  (La qual cosa – si capirà poi quanto curiosamente 
                  – ne avvicina parecchio la figura a quella di un qualsiasi 
                  re.) 
                  Facile, si diceva. Ma già meno immediato se il suddetto 
                  si professa, negli atti e nei pensieri, fiero seguace dell'Idea 
                  che, in piena Belle Epoque, incendia gli animi e i popoli: 
                  l'anarchia. 
                  Protagonista, sia da vivo che da morto (anzi, forse più 
                  da morto che da vivo, essendo la vittima dell'omicidio) del 
                  penultimo libro di Marco Malvaldi: Buchi nella sabbia (Palermo, 
                  2015, pp. 256, € 14,00), il tenore Ruggero Balestrieri 
                  è l'ago della bilancia ideale di tutta la vicenda, perché 
                  in lui si incontrano e si scontrano i due mondi opposti che, 
                  all'inizio del secolo XX, si contrappongono come duellanti alla 
                  pistola: la rivoluzione e l'ordine costituito, lo Stato e il 
                  ribelle, il monarca e l'anarca. 
                  Ma non solo: il magnifico tenore è, per l'appunto, anche 
                  l'ottimo rappresentante di quella che, al sorgere del secolo, 
                  è l'arte regina: l'opera lirica. 
                  Anarchico e pieno di sé, rivoluzionario e prepotente, 
                  re della scena e libertario del costume: è piuttosto 
                  inevitabile che in parecchi facciano a gara per avere l'onore 
                  di farlo fuori. 
                  Ma come i piani della Storia si intersecano spesso nel punto 
                  di un singolo uomo, così le direzioni dalle quali è 
                  partita la pallottola fatale possono essere altrettante. 
                  Tutto accade durante la rappresentazione della Tosca di Puccini 
                  al teatro di Pisa, in occasione delle vacanze estive (a San 
                  Rossore, oggi luogo di villeggiatura del Presidente della Repubblica) 
                  di Vittorio Emanuele III e famiglia. L'augusto figlio del trapassato 
                  (in tutti i sensi) Umberto assisterà alla recita in musica 
                  – un re coronato sul palco di fronte a un re anarchico 
                  sulla scena – e il pericolo di un attentato è, 
                  anch'esso, reale. Perché il destino vuole che, per un'opera 
                  considerata già di per sé sovversiva (il protagonista 
                  Cavaradossi -ovviamente impersonato per l'occasione dal Balestrieri- 
                  recita: «L'alba vindice appar/ che fa gli empi tremar! 
                  Libertà sorge/ crollan tirannidi!»), vi siano anarchici 
                  anche fra le maestranze (tecnici abilissimi, ça va 
                  sans dire) e, naturalmente, fra il pubblico (cavatori carrarini, 
                  per giunta). Così come anarchico è anche il giornalista 
                  incaricato di raccontare l'evento alla stampa nazionale, ovvero 
                  il realmente esistito Ernesto Ragazzoni, funambolico giocoliere 
                  delle parole in rima (nel quale lo stesso Malvaldi pare immedesimarsi). 
                  Insomma, una bella gatta da pelare per la Guardia Regia, corpo 
                  scelto dei Carabinieri incaricato di vegliare sull'incolumità 
                  del sovrano, prima del delitto, e delle indagini poi. 
                  Guardia regia che però rischia fino all'ultimo di fare 
                  la fine del topo... perché se l'anarchico porta, inevitabilmente, 
                  scompiglio, il carabiniere dell'ordine è spesso la forza, 
                  ma non sempre l'intelligenza. Anche se, alla fine, c'è 
                  sempre qualcuno più “scelto” degli altri 
                  che salva la categoria. 
                  Comunque, trattandosi di “giallo”, e di dimensione 
                  “lettura in giornata”, non è necessario dire 
                  oltre. 
                  Basti sapere che anche l'anarchico, così come il re, 
                  è un uomo, e come tale non sempre è nobile, né 
                  di statura né nell'animo. Ma anche l'anarchia, spesso 
                  e volentieri, è femmina (signora o signorina...), e si 
                  sa: la donna, è mobile! 
                 Andrea Babini 
                 
                    
                La notte degli zingari/ 
La notte dell'umanità, la notte dei nomi 
                Libere? E cosa si fa quando si è liberi? 
                  Cosa significa essere liberi? 
                  Il pensiero le balenò nella testa facendole sentire freddo 
                  Miriam 
                 Spesso accade quando si termina un libro di avere una mancanza, si trattiene 
                  dentro di sé quel “sentire ancora il bisogno di 
                  avere accanto quei compagni o compagne che hanno nutrito per 
                  giorni la propria immaginazione, il proprio mormorio interiore”. 
                   Quando 
                  si giunge alla fine di Io non mi chiamo Miriam di Majkull 
                  Axelsson (Iperborea, Milano, 2016, pp. 562, € 19,50) resta 
                  una mancanza più intensa, dolorosa quasi commovente: 
                  quella di non aver ricordato mai abbastanza, quella di non aver 
                  capito mai abbastanza, quella di non aver saputo mai abbastanza. 
                  Miriam è Malika, o almeno quello che di Malika è 
                  rimasto dopo Ravensbrück, e Malika è Miriam o almeno 
                  quello che ne è rimasto dopo Auschwitz. Due donne che 
                  cercano per tutta la vita di dimenticare, rimuovere, seppellire 
                  negare il diritto alla propria storia; senza tuttavia, fortunatamente, 
                  riuscirci sino in fondo, ma lasciando al futuro il senso della 
                  responsabilità e non solo della memoria. 
                  Malika è una giovanissima Rom per nascita, Miriam è 
                  una donna ebrea per necessità, il corpo è il medesimo, 
                  la vita anche, la lingua no. Il loro corpo soffrirà la 
                  violenza dei campi di concentramento, la vista della soluzione 
                  finale, le torture inflitte a Didi il fratello e Anuscha la 
                  cugina da un assassino che ribalterà la logica della 
                  cura: Mengele, che sorrideva e offriva caramelle ai bambini 
                  e alle bambine per poi farli sparire nelle più atroci 
                  sofferenze. Io non mi chiamo Miriam è un libro 
                  importante, è una storia, un racconto, che ci riporta 
                  alla memoria ciò che sono stati i campi di sterminio 
                  e la soluzione finale che ci impone il ricordo e la consapevolezza 
                  di come, ancora oggi, possano essere presenti notti dell'umanità. 
                  Malika ha una lingua materna, il romanes, che sarà obbligata 
                  a tenere segreta tutta la vita, Miriam imparerà lo svedese 
                  per avere un futuro. Il suo confine, l'esilio da se stessa, 
                  lo trova a partire dal giorno in cui quasi casualmente indosserà 
                  la stella gialla e abbandonerà il triangolo marrone (alcuni 
                  dei simboli che nel lager identificavano le origini culturali, 
                  religiose, sessuali e di condizione sociale) e modificherà 
                  irrimediabilmente la cicatrice sul braccio (tatuata indelebilmente 
                  ad ogni persona entrata in campo di concentramento), cancellando 
                  quella Z che il nazismo le ha tatuato sulla pelle per far scomparire 
                  tutte le tracce del suo essere zingara. 
                  Quel giorno nasce Miriam Goldberg e questa nuova identità 
                  inizierà a scricchiolare e a imporsi come verità 
                  solo dopo molti anni, il giorno del suo ottantacinquesimo compleanno 
                  in una confidenza a sua nipote Camilla. Malika la Rom sopravvive, 
                  ma può farlo solo come Miriam Goldberg. Sopravvive alla 
                  notte del 2-3 agosto 1944 in cui circa 3000 persone fra Rom 
                  e Sinti furono prima gassati e poi bruciati nel settore dei 
                  Zigeunerlager di Ravensbrück, in quella notte degli 
                  zingari, come ricorda in un'intervista Pietro Terracina, sopravvissuto 
                  ai campi di sterminio: «si passò da una confusione 
                  totale fatta di grida, latrati, pianti e ordini al silenzio 
                  definitivo, alla scomparsa di tutti e tutte: bambini, bambine, 
                  donne, uomini, non vi era più nessuno, solo il vento 
                  faceva sbattere le porte delle baracche deserte, di lì 
                  il silenzio, e la prova che furono uccisi era data dalla forza 
                  con cui erano stati accesi i forni crematori». 
                  In merito si veda il documentario (libretto+div) edito da A-Rivista 
                  Anarchica: “A forza di essere vento”, che rende 
                  testimonianza di questi fatti sconosciuti, in esso è 
                  contenuta un'intervista a Marcello Pezzetti che ricorda un evento 
                  fondamentale di resistenza da parte del popolo Rom e Sinti nel 
                  Zigeunerlager qualche mese prima della reazione efferata 
                  e organizzata che li condusse allo sterminio totale. 
                  Malika non è fra quei 2897 ma per sopravvivere perde 
                  il suo nome, la sua identità, diviene Miriam, diviene 
                  ebrea, e non potrà più tornare indietro; il mondo 
                  odia gli zingari, ancora nel 1948 nella sua “democratica 
                  Svezia” a Jönköping, nella notte degli zingari, 
                  si diede la caccia ai “tattare”, una notte di xenofobia, 
                  discriminazione, razzismo. 
                  Questo racconta Miriam-Malika. La lunga notte. Ci fa 
                  chiedere se oggi, di fronte a razzismo, xenofobia, discriminazione, 
                  espulsione, gommoni affondati, centri di “accoglienza 
                  temporanea”, siamo disposti e disposte a liquidare ancora 
                  gli eventi con un'alzata di spalle, se siamo consapevoli dell'atrocità 
                  “di quel che resta dopo Auschwitz” se ne 
                  abbiamo conosciuto l'orrore, se abbiamo da qui il coraggio nell'opporci 
                  alla connivenza, a non essere parte dell'ingranaggio di questa 
                  banalità del male come l'ha definita Arendt. 
                  L'autrice Majgull Axelsson, scrittrice drammaturga e giornalista, 
                  magistralmente, con una scrittura diretta, asciutta e chiara 
                  ci porta di fronte a questa fatica della memoria come se volesse 
                  in fondo invitarci a fare ancora un volta i conti, oggi, nella 
                  nostra quotidianità con queste problematiche che circondano 
                  ancora le nostre esistenze, dalle quali non possiamo prendere 
                  distanze, verso le quali il sapere, il conoscere e capire divengono 
                  scelte etiche, un impegno a lottare ancora contro oppressione, 
                  violenza, sterminio e una capacità di calarsi ancora 
                  nel destino e nel futuro di chi accanto a noi esiste. 
                  Ricordando, come suggerisce Hetty Hillesum nel suo Diario, il 
                  19 febbraio 1942, che «il marciume che c'è negli 
                  altri c'è anche in noi [...] » e per troppo tempo 
                  si è pensato che i campi di sterminio e la soluzione 
                  finale siano una notte superata dell'umanità e che si 
                  sia trovata di esse l'aurora; una presunzione che non ci possiamo 
                  concedere né permettere. 
                  Si può decidere che il rapporto con questa memoria possa 
                  essere retorico oppure farlo divenire una pratica politica (quotidiana) 
                  che riporta sempre dentro alle nostre esistenze l'idea della 
                  lotta al dolore, alla violenza e alla sottomissione che uccidono 
                  la vitalità in ogni tempo e luogo. 
                 Silvia Bevilacqua 
                 
                    
                Antispecismo/ 
Scegliere la libertà, divenire mostri 
                Mostri si nasce o si diventa? Qual è il motore immobile 
                  posto al centro di ogni cosa che determina l'inestimabile valore 
                  o, al contrario, la marginalità, di ogni aspetto del 
                  vivente conosciuto? Anche questa volta la risposta di Massimo 
                  Filippi è una sola, ribadita con forza: tale motore, 
                  semplicemente, non esiste. 
                   L'invenzione 
                  della specie. Sovvertire la norma, divenire mostri (Ombre 
                  corte, Verona, 2016, pp. 120, € 13,00) è un libro 
                  inconsueto, forse addirittura un libro mostruoso, fatto 
                  di parti assai diverse tra loro, cucite insieme a comporre un 
                  esperimento visionario e di là da venire. Una sfida, 
                  lanciata a chi deciderà di immergersi in queste pagine 
                  dense, a lasciarsi alle spalle ogni tassonomia e tentativo di 
                  categorizzazione: a partire dal testo stesso, dalla pretesa 
                  di una coerenza interna che a prima vista potrebbe apparire 
                  fuggevole. 
                  In realtà, chi ha familiarità con gli scritti 
                  di Filippi, filosofo antispecista per incontenibile passione, 
                  non faticherà a riconoscere il percorso di una parabola 
                  intellettuale e politica in costante divenire, che a partire 
                  da un solido inquadramento teorico spicca il volo verso i territori 
                  dell'indistinzione e della molteplicità inesauribile. 
                  La questione animale è da sempre al centro delle riflessioni 
                  dell'autore, ma in questa sua ultima fatica risulta evidente 
                  come non sia possibile rimettere in discussione la categoria 
                  dell'“animale” senza riconsiderare anche quella 
                  di “umano”; umano che, proprio a partire dalla differenza 
                  dall'animale, ha posto le basi per costruire tutto quel complesso 
                  e stratificato sistema di dominio e oppressione che informa 
                  la società capitalistica e tutte le sue istituzioni di 
                  controllo dei corpi. 
                  Un libro coraggioso, senza ombra di dubbio, e sorprendente, 
                  che prendendo le mosse da un fine lavoro di decostruzione del 
                  concetto stesso di categoria – conditio sine qua non 
                  della messa a valore di ogni aspetto del vivente – e utilizzando 
                  sinergicamente gli strumenti messi a disposizione non solo dai 
                  suoi puntuali riferimenti filosofici (da Foucault a Deleuze, 
                  passando per Agamben, Adorno e Derrida, tanto per citare alcuni 
                  dei più noti), ma anche dalla teoria femminista e queer 
                  (attingendo a piene mani dal lavoro di Butler), alla domanda 
                  «Che cosa è l'“Uomo”?» che ci 
                  aveva già costretto ad affrontare nei precedenti saggi, 
                  Crimini in tempo di pace (elèuthera), Corpi 
                  che non contano (Mimesis) e Sento dunque sogno (Ortica), 
                  risponde con un deciso: «Nulla». 
                  L'“Uomo”, così come lo conosciamo è 
                  infatti un'invenzione recente, che ha tuttavia provato con tutte 
                  le sue forze a cancellare le tracce di altri modi di vivere-con 
                  il resto del vivente. Il saggio, allora, dà conto, attraverso 
                  numerosi esempi, di come, in altri tempi ed in altri luoghi 
                  – al di fuori cioè del cosiddetto “Occidente 
                  moderno civilizzato” – siano esistite società 
                  umane capaci di uno sguardo più fluido e meno antropocentrico, 
                  uno sguardo capace di posarsi sul non umano con stupore, rispetto 
                  e attenzione. L'invenzione della specie spiazza chi sia 
                  ancora alla ricerca del proprio posto all'interno di un sistema 
                  che divide allo scopo di dominare e, al contrario, è 
                  capace di aprire orizzonti di libertà e possibilità 
                  per chi abbia riconosciuto – o sia disposto a riconoscere 
                  – l'inconsistenza e l'arbitrarietà di questo movimento 
                  di esclusione e di contemporanea appropriazione dell'esistente. 
                  In coerenza con questa posizione, le tappe seguenti si (ci) 
                  spingeranno ben oltre, smascherando i meccanismi di speciazione, 
                  tanto arbitrari quanto efficaci nel disegnare confini funzionali 
                  allo sfruttamento di chiunque ricada in quelle categorie considerate 
                  “marginali” – confini che, a ben vedere, spesso 
                  si rivelano più porosi di quanto si sia indotti a pensare, 
                  rendendo il vivente tutto (umano compreso) estremamente vulnerabile 
                  alla presa del potere. 
                  Così anche la specie, come è già avvenuto 
                  in passato per i concetti di “razza” e di “genere”, 
                  si rivela per quello che è: un termine solo apparentemente 
                  neutro che, ad un esame più attento, mostra inequivocabilmente 
                  la sua più intima essenza di costrutto politico volto 
                  alla produzione di categorie di valore strumentali allo sfruttamento 
                  di chi si trova nella posizione dell'oppresso. Con la dissoluzione 
                  del concetto di specie non può che seguire il disvelamento 
                  di quel calcolo crudele e inesorabile che porta il vivente, 
                  umano, meno-che-umano o non umano che sia, sulla strada del 
                  mattatoio. 
                  É in questo modo che si scopre la forza della norma 
                  sacrificale, norma che designa quali corpi e quali esistenze 
                  possano essere sacrificate impunemente – violenza che, 
                  da tempo immemore, si appropria delle vite di umani e non umani 
                  per nutrire la propria brama di potere, prelevando dalla carne 
                  e dal sangue di chi si trova nella categoria “sbagliata” 
                  il plusvalore necessario per far prosperare pochi a scapito 
                  di tutti gli altri. In questo senso riusciamo a comprendere 
                  meglio l'esortazione del sottotitolo a sovvertire la norma e 
                  a scegliere, consapevolmente, di offuscare i confini che, imprigionando 
                  la vita sensuale, ci condannano, volenti o nolenti, al ruolo 
                  di oppressori – e al rischio continuo di diventare, a 
                  nostra volta, vittime dell'oppressione. E altrettanto chiara 
                  si fa anche l'espressione divenire mostri: siamo chimere 
                  dai tratti sempre meno netti e sempre più aperte alle 
                  infinite possibilità di gioire e di desiderare (con) 
                  l'altro da noi. 
                  É questo il momento di rottura di un saggio che, da qui 
                  in poi, ci condurrà in un viaggio fantasmagorico – 
                  e fantasmatico – attraverso quello che si potrebbe definire 
                  un vero e proprio bestiario di “casi”, tanto 
                  mostruosi quanto affascinanti, ibridazioni di reale e immaginario: 
                  un museo zoologico ricolmo di esseri mutanti nei quali si liquefano 
                  i confini esistenti tra umano e non umano, normale (normato) 
                  e mostruoso, e che, come ogni esposizione che si rispetti, 
                  stimola quella curiosità voyeuristica di scoprire la 
                  prossima stranezza, la prossima mostruosità; illudendoci, 
                  ma solo per poco, che in un simile labirinto di specchi non 
                  saremo proprio “noi” a trovarci, infine, messi in 
                  mostra tra questi stessi casi, poiché quella che credevamo 
                  essere la nostra “normalità” altro non era 
                  che un'illusione, tanto potente quanto fragile. 
                  I ventisei casi del terzo capitolo, fantasiosi quanto meticolosi 
                  assemblaggi di corpi, esperienze ed esistenze in cui Filippi 
                  cancella, consapevolmente, i confini esistenti tra filosofia, 
                  racconto, referto clinico e autoptico, rapporto di polizia e 
                  sogno – e nei quali crollano al medesimo tempo le categorie 
                  che separano in maniera così netta l'umano dal non umano, 
                  il normale dal patologico, il freddo resoconto del terapeuta 
                  dal punto di vista di chi viene analizzato – rappresentano 
                  un esperimento riuscitissimo capace di mostrare l'arbitrarietà 
                  delle categorie e la continua necessità di sorvegliare 
                  quei confini che separano chi può e deve vivere, da chi 
                  invece può, e spesso deve, morire. 
                  L'ultima parte del libro ripercorre, da un punto di vista altro 
                  e attraverso un lirismo intenso ed onirico, quei calcoli tanto 
                  efficaci a dividere (e smembrare per possedere, appropriarsi 
                  e distruggere), ma nonostante tutto ancora capaci di addizionare 
                  e moltiplicare impressioni, percezioni sensibili, movimenti 
                  impercettibili e imperscrutabili di tutto ciò esiste 
                  e r-esiste, contro ogni umano sforzo, alla riduzione in elementi 
                  intelligibili e manipolabili – e, infine, di sottrarre 
                  al fine di lasciar spazio a nuove vite, a nuovi mondi, a nuove 
                  esistenze. 
                  Quasi una metempsicosi, in cui il disfacimento di quanto conosciamo, 
                  e soprattutto riconosciamo, come umano, si apre al radicalmente 
                  altro (alghe mute che sinuose ondeggiano all'unisono adattandosi 
                  ai moti marini, uccelli migratori sorpresi nel penoso ma allo 
                  stesso tempo irresistibile momento della partenza) per tornare 
                  infine – spogliati e inermi – nuda vita, 
                  corpo ridotto alle sole funzioni vitali e forse proprio per 
                  questo, finalmente e autenticamente animale, e pertanto (anche) 
                  umano. 
                  In questo perdere ciò che si è, così spaventevole 
                  e terrificante, si scopre il modo per liberare ciò che 
                  si potrebbe essere: un desiderio mai sopito, un desiderio refrattario 
                  a costrizioni e imposizioni. Un desiderio di assoluta, irrefrenabile 
                  libertà. 
                 feminoska 
                 
                    
                Noam Chomsky/ 
Ma natura umana e anarchia sono legate 
                 Ma 
                  “noi”, noi umani intendo, che genere di creature 
                  siamo? Nelle sue Tre lezioni sull'uomo (Ponte alle grazie, 
                  Firenze, 2017, pp. 128, € 13.50) Noam Chomsky tenta una 
                  risposta a questa domanda mettendo ordine nel suo pensiero e, 
                  verrebbe da dire, preparandosi a lasciarlo alla scienza e all'anarchia 
                  che verranno dopo di lui. 
                  Scienza e anarchia, infatti, ancora una volta connesse: la struttura 
                  del linguaggio e quella della conoscenza sono intrinsecamente 
                  connesse all'organizzazione politica autonoma e dal basso. Chomsky 
                  riparte dalle basi, quelle che chiama “ovvietà” 
                  ma che hanno anche il grande lusso di essere vere ma sconosciute 
                  ai più: dalla non contraddizione di un'anarchia che nel 
                  contingente preferisce le democrazie alla dittature, da un linguaggio 
                  come universale della nostra specie, e da un'idea di impresa 
                  conoscitiva come limitata e per questo interessante. 
                  La lezione di Chomsky, qualsiasi valutazione si possa fare del 
                  suo pensiero politico, è in fondo che la conoscenza, 
                  solo la conoscenza, generi libertà: al di là delle 
                  presunte differenze esiste una matrice comune, importante e 
                  distintiva, che rende tutti gli umani legati a doppio filo a 
                  una corda tesa tra limite e risorsa. Nello scenario attuale, 
                  quello di crisi irreparabile del modello di democrazie occidentali, 
                  Chomsky vede quasi una risorsa per la teoria anarchica (anche 
                  se un rischio, enorme, per la nostra pace): ripartire dall'organizzazione 
                  di microcomunità e dall'idea che essere impossibilitati 
                  a conoscere tutto non generi scetticismo (“misterismo”) 
                  ma impresa culturale futura. 
                  Ciò che in Chomsky diventa evidente, limpido come in 
                  nessun altro autore, è il legame intrinseco tra filosofia, 
                  linguistica, e teoria politica: una triangolazione che genera 
                  progresso e in cui ogni vertice, come si giri-giri il triangolo, 
                  è indicazione necessaria per programmare il poi. Studiare 
                  il linguaggio, nel senso della sua ricorsività, permette 
                  di comprendere il proprio specifico della nostra di vita che 
                  non è mai comunque “speciale” ma, appunto, 
                  “specifico” e porta dritti al ponte immenso che 
                  riguarda la struttura della conoscenza: possiamo sapere alcune 
                  cose, non altre, ma questo non deve generare postmoderno o pensiero 
                  debole ma comprensione che la forma, ogni forma, è data 
                  proprio da quel limite (come un corredo genetico). 
                  Affascinante, anche se ormai messa in discussione da più 
                  parti, questa idea maestosa che natura umana e anarchia siano 
                  legate: l'autonomismo morale e la comunità come principi 
                  e parametri di una specie che sembra ormai impossibile pensare 
                  in assenza di Stato. Tutte le volte che avviene, questo emerge 
                  dalle tre lezioni, l'impresa della filosofia è fallita. 
                  Ma è alle alternative che Chomsky, anziano ma più 
                  nuovo della scienza e della politica “giovane” e 
                  contemporanea, continua a guardare: come il linguaggio è 
                  un insieme discretamente infinito di elementi, così la 
                  nostra vita e le possibilità della nostra conoscenza 
                  combinate in nuovi modi genereranno altrove inaspettati. 
                  Se fossero le ultime lezioni di Chomsky potremmo riassumere 
                  così il senso della sua vita: “ognuno faccia la 
                  sua parte, servirà ad ogni atro ognuno di questo mondo”. 
                 Leonardo Caffo 
                 
                    
                Psicoterapia e Scienze Umane/ 
Mezzo secolo di critica in Italia 
                Il 1967 è l'anno di fondazione della rivista Psicoterapia 
                  e Scienze Umane che rappresenta in Italia un'esperienza 
                  unica sia per longevità sia per l'importanza culturale 
                  e politica da essa rappresentata. La sua storia è legata 
                  al Gruppo Milanese per lo Sviluppo della Psicoterapia, 
                  si trattava di un nucleo di giovani studiosi che a latere dell'università 
                  iniziarono a sperimentare “seriamente” quanto di 
                  più aggiornato ruotava attorno al mondo della psicoterapia: 
                  nuove forme di psicoterapia individuale, familiare, gruppale, 
                  istituzionale. In particolare si sperimentava la terapia delle 
                  “psicosi” che sfidava l'impianto teorico-tecnico 
                  della psicoanalisi, aprendola a nuovi ed inesplorati territori. 
                  Si metteva l'accento sulle capacità trasformative della 
                  psicoanalisi piuttosto che su quelle adattive e conservatrici. 
                  Alla psicoanalisi era legata l'intera esperienza di Pier Francesco 
                  Galli, animatore del Gruppo. Medico e psicologo, originario 
                  di Nocera Inferiore, studente a Milano e poi in Svizzera, Galli 
                  fa parte di quella schiera di intellettuali italiani che a partire 
                  dagli anni Cinquanta hanno cercato di cambiare e democratizzare 
                  la cultura e le istituzioni italiane con una intensissima attività 
                  organizzativa1. 
                   Grazie 
                  all'attività del Gruppo in Italia è penetrata, 
                  senza censura, la cultura psicoterapeutica più innovativa. 
                  Si trattava quindi di una sorta di controcultura rispetto alle 
                  posizioni paludate sia della psichiatria che della psicologia 
                  istituzionali. Il Gruppo viene poi frequentato da una 
                  nucleo di giovanissimi “psi” che faranno la storia 
                  della psichiatria anti-istituzionale e della psicoterapia italiana 
                  (tra gli altri, Mara Selvini Palazzoli, Fabrizio Napolitani, 
                  Franco Basaglia, Giovanni Jervis). 
                  Negli anni Settanta il Gruppo si trasformò nell'associazione 
                  Psicoterapia e scienze umane, dopo aver dato vita ad 
                  una rivista con lo stesso nome (1967). Negli anni la rivista, 
                  oggi condiretta da Marianna Bolko e Paolo Migone, ha aperto 
                  dibattiti critici su vari aspetti degli sviluppi teorici o sociali 
                  della psicoterapia ed è sempre stata indipendente da 
                  ogni associazione o istituzione e non ha mai ricevuto alcun 
                  finanziamento esterno. La rivista, inoltre, non contiene mai 
                  pubblicità, non ha interessi “di scuola” 
                  (per scelta, non ha fondato istituti o scuole private di psicoterapia), 
                  ma si propone solamente di essere uno strumento al servizio 
                  dello sviluppo della psicoterapia in Italia, allo scopo di stimolare, 
                  dall'esterno, altre iniziative, scuole o associazioni. 
                  Una caratterizzazione della rivista è, quindi, lo stimolo 
                  critico proprio per le associazioni professionali e i servizi 
                  di salute mentale, soprattutto riguardo ai temi della formazione, 
                  della teoria della tecnica e del rapporto tra psicoterapia e 
                  scienze umane, nel confronto tra colleghi di formazione diversa. 
                  A cinquant'anni dalla fondazione e a cura di Bolko e Migone, 
                  la rivista presenta un numero speciale in forma di inchiesta 
                  sullo stato dell'arte della psicoanalisi nel mondo (n. 3, 2016). 
                  Sono state sottoposte 12 domande “fondamentali” 
                  a 62 psicoanalisti, per lo più internazionali e fra i 
                  più famosi ed impegnati scientificamente o culturalmente2. 
                  Ne emerge un quadro molto particolare che per certi aspetti 
                  è “sconosciuto” agli stessi psicoanalisti; 
                  questo numero monografico è dunque una sorta di raccolta 
                  di materiali “per la psicoanalisi della psicoanalisi contemporanea”. 
                  In linea con la tradizione culturale del gruppo, questo numero 
                  celebrativo di Psicoterapia e Scienze Umane tratteggia 
                  così una disciplina in “crisi”. 
                  È probabile tuttavia che le scienze psi siano 
                  in crisi dalla nascita e che questa crisi corra parallela alla 
                  crisi del soggetto che dall'emergere dell'individuo e della 
                  massa, dalla fine dell'Ottocento condiziona la realtà 
                  psichica e materiale dell'individuo. Dalla morte di Sigmund 
                  Freud, la psicoanalisi ortodossa è stata certamente il 
                  tronco da cui si sono evolute varie scuole che criticamente 
                  hanno rielaborato il pensiero del fondatore sia dall'interno 
                  delle istituzioni psicoanalitiche classiche sia per mezzo di 
                  nuove vie, nuove psicoterapie, nuovi approcci, nuovi “territori” 
                  anche molto distanti dalla creatura freudiana. Per giunta, ci 
                  sono state schematicamente psicoanalisi conservatrici ed altre 
                  radicali; Reich, Marcuse e Guattari (fra gli altri) ancora oggi 
                  sono incommensurabili alla psicoanalisi tradizionale. 
                  Come hanno risposto gli psicoanalisti e gli psicoterapeuti di 
                  fronte alla “crisi”, sollecitata dalle domande dei 
                  redattori di Psicoterapia e Scienze Umane? 
                  Ciò che colpisce nelle risposte è la deriva dalle 
                  idee del fondatore e la mancanza di coordinamento fra i rispondenti. 
                  Fra questi spiccano coloro che, utilizzando la copertura della 
                  ricerca scientifica, accentuano alcune cose della psicoanalisi, 
                  svalutandone delle altre. 
                  La questione è seria perché le interviste confermano 
                  i timori di certi studiosi, specialmente storici (ad esempio 
                  Dagmar Herzog in Cold War Freud: Psychoanalysis in an Age 
                  of Catastrophes, 2016), che attualmente notano una sorta 
                  di snaturamento della psicoanalisi ad opera degli stessi psicoanalisti 
                  che, ad es., operano come se la loro disciplina non avesse subito 
                  condizionamenti storico-ideologici (ad es. durante la guerra 
                  fredda) oppure generalizzano agli adulti teorie e pratiche nate 
                  per contrastare certi stereotipi positivisti e la vaga teoria 
                  psicologica del bambino, sostenute dal padre della psicoanalisi, 
                  scotomizzando così una serie di sfide lanciate da Freud 
                  all'inizio del Novecento. 
                  Dall'insieme delle interviste fatte ad analisti, che tra l'altro 
                  hanno decine di migliaia di ore di psicoanalisi alle spalle 
                  e sono responsabili dei maggiori centri di formazione mondiale 
                  alla stessa disciplina, emerge un quadro impoverito della psicoanalisi 
                  che via via si è trasformata in una tecnica accademica 
                  di cui la ricerca contemporanea mette in luce l'efficacia, ma 
                  che paradossalmente ha perso di “profondità”. 
                  In tal senso la maggioranza degli interlocutori lamentano una 
                  marginalizzazione della psicoanalisi contemporanea. Merito degli 
                  intervistatori è stato far emergere alcuni motivi di 
                  tale marginalizzazione nel senso di spaesamento degli intervistati 
                  di fronte ai temi classici come il sogno o l'Edipo che, soprattutto 
                  nell'alveo della tradizione psicoanalitica classica, sono rimasti 
                  al palo e sostituiti da modelli teorici alternativi, molto circoscritti, 
                  nati dalla ricerca psicofisiologica ed empirica che ha, via 
                  via, colonizzato la creatura freudiana, trasformandola da ricerca 
                  sui limiti della natura umana, anche in rapporto alle altre 
                  scienze umane politico-sociali, a territorio marginale, astrattamente 
                  psicologico e medico-psichiatrico, che vorrebbe sopravvivere 
                  venendo a patti con una ricerca profondamente condizionata da 
                  prioritarie istanze biopolitiche e biocapitaliste. 
                 Renato Foschi 
				
- Nel suo Liberi Tutti. Manicomi e psichiatri in Italia: una storia del Novecento (2009) Valeria Babini ha chiamato, con felice intuizione, l'attività editoriale di Pier Francesco Galli, l'“Università dei Libri”. Si tratta di una intensissima attività culturale con traduzioni di centinaia di opere riguardanti la psicoanalisi e la psicoterapia in collane di psicologia, psichiatria e psicoterapia edite da Feltrinelli, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, e successivamente da Boringhieri.
 - 1-Quale aspetto della psicoanalisi la colpisce di più o su cui vorrebbe esprimere un commento? 2-Vi è un autore che ritiene particolarmente importante oggi in psicoanalisi e, nel caso, per quali motivi? 3- A suo parere cosa caratterizza la cosiddetta “psicoanalisi contemporanea”, e quando si può dire abbia avuto inizio? 4- Cosa pensa della proliferazione di “scuole” psicoanalitiche?; 5- Identità della psicoanalisi e psicoterapia: come può essere impostato questo problema? 6- Il training psicoanalitico è certamente una questione importante e spinosa. Nella storia dell'istituzione psicoanalitica, sono cambiati alcuni aspetti del training? Se ritiene che il sistema del training non abbia subìto sostanziali modifiche, pensa che potranno esservi cambiamenti? Quali cambiamenti ritiene indispensabili? 7- Il concetto di Edipo ha ancora un significato e, nel caso, quale? 8- Cosa resta della teoria freudiana del sogno e, più in generale, che ruolo hanno i sogni nel processo terapeutico? 9- Come vede il rapporto tra teoria psicoanalitica e ricerca empirica sul risultato e sul processo della terapia? 10- Come valuta i recenti sviluppi delle neuroscienze e della neurobiologia rispetto alla psicoanalisi? Come vede il rapporto tra psicoanalisi e ricerca psicologica e, più in generale, tra la psicoanalisi e le altre discipline? 11- Quali concetti centrali della psicoanalisi hanno mantenuto una loro validità, e quali sono le loro evidenze empiriche? 12- Come spiega la crescente marginalizzazione della psicoanalisi?
  
                 
                    
                Scuola/ 
Quando si insegnavano militarismo e obbedienza (ma anche oggi...) 
                Nello spazio chiuso delle aule come in piazza, nell'associazionismo 
                  scolastico e extrascolastico, la scuola rappresenta un ambiente 
                  privilegiato per il controllo, la nazionalizzazione e militarizzazione 
                  dell'infanzia. 
                  Il saggio divulgativo e ben documentato di Gianluca Gabrielli 
                  (Educati alla guerra. Nazionalizzazione e militarizzazione 
                  dell'infanzia nella prima metà del Novecento, Edizioni 
                  Ombre corte, Verona, 2016, pp. 127, € 13,00) accompagna 
                  una mostra curata dallo stesso autore e distribuita da Pro Forma 
                  Memoria. Il percorso attesta il coinvolgimento di bambini e 
                  bambine, adolescenti, presidi, insegnanti e famiglie attingendo 
                  a fonti iconografiche, giornalini e quaderni con copertine illustrate, 
                  carteggi epistolari gestiti dalle scuole, riviste per docenti, 
                  registri personali, resoconti, circolari ministeriali, libri 
                  scolastici prodotti nella prima metà del Novecento. 
                   A 
                  partire dalla guerra di Libia, la rivista laica “I diritti 
                  della scuola” recepisce il messaggio degli insegnanti 
                  pronti alla sottoscrizione per donare aeroplani, sollecitati 
                  dal mito tecnologico della guerra aerea, e la posizione dei 
                  docenti favorevoli alla solidarietà patriottica e inclini 
                  a sollevare dubbi negli allievi. 
                  Nel “Corriere dei piccoli” la guerra è presentata 
                  come giusta, ma cosa da grandi. Tuttavia, nell'ultimo anno della 
                  Grande guerra l'interventismo condiziona l'infanzia, destinataria 
                  delle storie. Il personaggio Italino ne è il protagonista. 
                  Viene istituita l'ora settimanale dedicata al conflitto in corso, 
                  ma si sollecita anche il conforto ai soldati con lettere, e 
                  l'elaborazione collettiva del lutto. 
                  Comitati di organizzazione civile, patronati, maestri volontari 
                  e associazionismo femminile si occupano della tutela e assistenza 
                  dei bambini nel periodo estivo. 
                  Con l'avvento del fascismo al potere, l'etica della violenza 
                  e la celebrazione della guerra fondano la pedagogia politica 
                  e sociale del nuovo stato. La propaganda entra nello spazio 
                  della vita scolastica quotidiana. Circolari ministeriali e richiami 
                  in ogni libro di testo trasmettono ai piccoli balilla il modello 
                  delle squadre fasciste. Nel 1923, l'applicazione della riforma 
                  della scuola di Giovanni Gentile e Giuseppe Lombardo Radice 
                  è piegata ai fini propagandistici del fascismo, a partire 
                  dall'alzabandiera e dalla esaltazione della morte eroica. 
                  La politica di potenza e di conquista territoriale premia nuzialità 
                  e natalità, e tassa i celibi. Un intervento eugenetico 
                  per migliorare la stirpe istituisce colonie estive ed elioterapiche. 
                  Più tardi, nell'ambito di simbologie infantili, la pubblicità 
                  di ricostituenti e integratori alimentari come Nucleon e Ovomaltina 
                  riprodotta sul “Corriere dei piccoli” richiama lo 
                  svago e la cura del corpo dei piccoli italiani. 
                  Nel 1928, in stretto rapporto con il ministero dell'educazione 
                  nazionale e le competenze affidate all'Opera nazionale balilla, 
                  le due ore di educazione fisica sono propedeutiche all'uso pubblico 
                  di esercitazioni coreografiche. Il controllo totale del tempo 
                  libero contrasta eversioni dell'ordine sociale. 
                  Bellicismo e militarismo nei curricoli scolastici sono proiettati 
                  oltre le discipline tradizionali. Nel testo unico per la scuola 
                  elementare la simbologia machista e guerriera infantile è 
                  rappresentata dai balilla in divisa. Il gioco della guerra, 
                  richiamo alla virtù guerriera, viene istituzionalizzato. 
                  Nel 1934, sfumano i confini tra scuola e caserma. Con la nuova 
                  svolta militarista nei nuovi programmi di storia della scuola 
                  elementare, la voce conclusiva è dedicata alle forze 
                  armate. Un anno dopo, per la scuola secondaria, viene introdotta 
                  la materia cultura militare. Si intensifica la militarizzazione 
                  dei curricoli maschili: un nuovo decreto equipara gli ufficiali 
                  responsabili dell'istruzione ai membri del corpo insegnante. 
                  Per la difesa della società civile dagli attacchi nemici, 
                  nelle scuole arrivano le maschere antigas e l'immaginario di 
                  guerra muta velocemente. Seguono esercitazioni antiaeree nelle 
                  scuole, documentate da foto di maschi in divisa militare e femmine 
                  vestite da crocerossine. 
                  Nelle nuove adozioni del libro di testo di stato per la scuola 
                  elementare (1935- 36) il concetto di razza e di civiltà 
                  veicola quello della gerarchizzazione dei popoli. Sulle nuove 
                  copertine dei quaderni della serie “Abissinia” la 
                  pubblicistica propaga l'ostilità razzista contro il nemico. 
                  Ogni apprendimento allude alla marcia, alle armi, alla gerarchia 
                  della caserma. In materie come la fisica, dominano metafore 
                  in cui un plotone militare in marcia è accompagnato dalla 
                  didascalia “il passo romano di parata è un esempio 
                  di moto uniforme”. 
                  La scuola è il primo settore della vita pubblica ad essere 
                  colpito dall'offensiva razzista del regime. Tra il 1936 e il 
                  1938, la polarizzazione amico-nemico viene sancita dall'integrazione 
                  dell'educazione guerriera con lo sviluppo della coscienza “razziale”. 
                  Una circolare del ministro Bottai, in merito alla corrispondenza 
                  scolastica degli alunni italiani con indigeni dell' Africa orientale, 
                  ammonisce: con i “sudditi inferiori” non si deve 
                  fraternizzare “perché i fratelli degli italiani 
                  sono solamente gli italiani”. 
                  L'anno scolastico1938-39 inizia con l'espulsione dei nemici 
                  di razza interni per eccellenza, gli ebrei, biologicamente diversi 
                  e cospiratori ai danni della nazione. Libri di testo, carte 
                  geografiche, nomi delle scuole vengono bonificati dalla presenza 
                  di autori e personaggi ebrei. Durante il secondo conflitto mondiale, 
                  alta la mobilitazione quotidiana dei docenti impiegati nei nuclei 
                  di propaganda per attività di censura sulla posta ordinaria 
                  di cittadini e militari. A partire dal 1941, circolari ministeriali 
                  inducono le scuole a mantenere sostegno morale ai combattenti 
                  e la tenuta della società civile: lotta contro gli sprechi, 
                  raccolta di rifiuti per riutilizzarli, rivolta a maschi e femmine. 
                  Una marcata connotazione di genere riguarda le attività 
                  degli orti di guerra richieste ai maschi, alle femmine invece 
                  la “giornata del fiocco di lana”, per assicurare 
                  una sovrabbondante confezione di indumenti caldi. 
                  Ma il mito di potenza della guerra è infranto. Con lo 
                  sbarco alleato, i bombardamenti colpiscono le scuole. A Gorla, 
                  nel milanese, il 20 ottobre 1944 morti oltre 200 bambini con 
                  le loro maestre. E non si contano gli orfani di guerra. In triste 
                  aumento i bambini mutilati per gli ordigni inesplosi. Nel secondo 
                  dopoguerra, anche le forze politiche più determinate 
                  accetteranno un silenzioso ripiegamento. I programmi di storia 
                  si fermeranno al 1918, anche autori ed editori sceglieranno 
                  la strategia del silenzio. La parentesi fascista poteva essere 
                  ignorata senza inficiare la comprensione del presente ignorando 
                  le responsabilità italiane nel secondo conflitto mondiale 
                  e i vent'anni di regime. 
                  Ancora oggi la scuola di stato, attraverso le riforme, le linee 
                  guida, i programmi scolastici frutto di scelte politiche, condiziona 
                  l'immaginario collettivo e conferma la sua struttura piramidale 
                  e gerarchica, dalle dinamiche aziendalistiche, sempre più 
                  meritocratica, laddove invece si dovrebbero sperimentare dal 
                  basso spazi di democrazia, per promuovere piena autonomia e 
                  favorire la libertà dell'individuo. 
                 Claudia Piccinelli 
                 
                    
                Ribolla 1954/ 
La più grande tragedia mineraria in Italia 
                Se è stato immmediato l'impulso di proporre alla Rivista 
                  la recensione del volume di Silvano Polvani, dirigente della 
                  CGIL in prima fila per la tutela sindacale dei lavoratori del 
                  Grossetano fin dal 77, che per la sicurezza dei lavoratori si 
                  è battuto con l'attività sindacale e con la penna, 
                  non è stata altrettanto immediata la predisposizione 
                  della recensione stessa. Infatti il volume Ribolla 1954-2014 
                  La tragedia mineraria nella cronaca dei quotidiani (di Silvano 
                  Polvani, Edizioni Effigi, 2014, pp. 240, € 18,00) pubblicato 
                  a cinquantanni dalla tragedia di Ribolla, la più grande 
                  strage del lavoro accaduta in Italia in quegli anni, nella quale 
                  il 4 maggio del 1954 perirono nell'esplosione in miniera 43 
                  minatori, non è un libro di storia della sicurezza del 
                  lavoro come tanti. 
                   La 
                  somma del dolore e dello strazio che emerge sia dalle pagine 
                  dei quotidiani, dove sono anche conservate e tramandate alla 
                  memoria le testimonianze raccolte dalle voci dei minatori sopravvissuti, 
                  che dal corredo iconografico che, insieme alla cronaca giornalistica, 
                  definisce e delinea il contesto nel quale si svolgeva la vita 
                  della comunità, imperniata sull'attività nella 
                  miniera, rende perfino difficile la lettura del volume. Lettura 
                  che rimanda anche alla constatazione dell'impegno speso dal 
                  curatore del libro, nell'affrontare i temi dell'igiene e della 
                  sicurezza sul lavoro nei suoi aspetti più crudi e più 
                  aspri. 
                  Quando, negli anni 50, le lotte dei lavoratori per la costituzione, 
                  nei posti di lavoro, degli idonei requisiti preventivi contro 
                  gli infortuni e le malattie professionali, si esprimevano in 
                  Italia in controtendenza rispetto alla sensibilità generale 
                  dell'opinione pubblica, ben meno avvertita su questi temi di 
                  quella odierna, la tragedia di Ribolla rappresentò nella 
                  storia del lavoro, il punto di svolta fondamentale. Infatti 
                  essa costituì una potente sollecitazione nel far pervenire 
                  a conclusione l'elaborazione della normativa prevenzionistica 
                  che fu emanata nel 1955 e 56 e che durò fino al Dlgs 
                  626 del 1994. 
                  È un libro prodotto non da specialisti di storia del 
                  lavoro sui minatori dell'Area Grossetana, ma dalla volontà 
                  di dare ai lavoratori sopravvissuti ed alle loro famiglie vittime 
                  della sciagura, la voce che, a distanza di oltre 50 anni, risuona 
                  con tutta la verità con la quale fu espressa allora. 
                  Fin dalla Presentazione e dall' Introduzione del volume sono 
                  chiariti i termini economici, politici, sindacali e igienico- 
                  lavoristi del contesto entro il quale si consumò la tragedia, 
                  le cui cause sono spiegate nella I parte. 
                  L'autore, nella II parte, in modo chiaro e piano, mette a disposizione 
                  del lettore ciò che fu scritto sui giornali dell'epoca 
                  con abbondanza di particolari e nel dettaglio, senza nulla tralasciare, 
                  sia dell'evento che del processo che ne seguì. Oggi si 
                  direbe che fu assicurata una copertura mediatica completa per 
                  l'accaduto, che ebbe risonanza nazionale. Fra le firme giornalistiche, 
                  fra le altre, si trovano quelle di Carlo Cassola, di Giorgio 
                  Bocca e di Luciano Bianciardi, che in diversi modi avrebbero 
                  continuato l'impegno per lo sviluppo democratico della società 
                  italiana. 
                  A proposito di Luciano Bianciardi, del quale viene riportato 
                  un articolo eloquente sulle condizioni di lavoro nella miniera 
                  scritto sull'Avanti prima della tragedia, non è a tutti 
                  noto come il suo capolavoro “ la vita agra”, affondò 
                  le sue radici creative nella riflessione che elaborò 
                  sull'evento, dal quale egli fu segnato profondamente. 
                  La III parte, che raccoglie la testimonianza di chi fu presente 
                  il 4 maggio del '54, da conto della dura vita che si viveva 
                  nelle miniere del Grossetano e di quanto la lotta sindacale 
                  e politica per l'affermazione delle misure preventive, nell'attività 
                  lavorativa, sul posto di lavoro sia stata legata alla lotta 
                  per la democratizzazione della società. 
                  Dall'Albo dei minatori caduti nelle miniere delle Colline Metallifere 
                  dal 1892, che conclude l'opera, si evidenzia la terribile casistica 
                  dell'infortunistica sul lavoro, aggravata in miniera dal rischio 
                  di esplosione, che ricorre ancor oggi nella rilevante infortunistica 
                  mortale che si verifica in Italia, nonostante l'impegno che 
                  i diversi soggetti previsti dal Dlgs 81/08 sviluppano. In conclusione 
                  si condivide pienamente e per questo si suggerisce la lettura 
                  del volume, ciò che l'autore pone alla fine nella sua 
                  Nota per chiarire che si tratta di “ Un volume dedicato 
                  alle nuove generazioni affinchè attraverso la memoria 
                  riscoprano, per praticarli, i veri valori che sono a fondamento 
                  della propria esistenza: solidarietà, dignità 
                  e giustizia”. 
                 Enrico Calandri 
                 
                    
                Giordano Bruno/ 
Ma l'ordine umano è anarchico 
                L'ultimo libro di Aldo Masullo contiene quattro brevi saggi, 
                  due già pubblicati in altri volumi, due inediti, che 
                  compongono e propongono, nell'insieme, un'acuta riflessione 
                  su Giordano Bruno, maestro d'anarchia (Saletta dell'Uva, 
                  Caserta, 2016, pp. 118, € 10,00). 
                    
                  Vive un XVI «secolo confusissimo», Bruno - come 
                  spiega bene Masullo - d'enormi sconvolgimenti: la scoperta dell'America, 
                  la conseguente rivoluzione dei prezzi in Europa, la riforma 
                  protestante, la formazione delle monarchie nazionali sulle ceneri 
                  del dissolto regime feudale, l'imporsi di spiazzanti scoperte 
                  scientifiche, che inaugurano peraltro un nuovo metodo e una 
                  nuova logica, sperimentale, nel fare ricerca. 
                  È un tempo di crisi che produce sopraffazione e violenza, 
                  denuncia Bruno in diverse sue opere (nel suo Spaccio della 
                  bestia trionfante, nella Cena delle ceneri, ne L'asino 
                  cillenico, etc.), dove critica aspramente la forzata sottomissione 
                  dei selvaggi d'America ai ‘civilizzati' conquistatori 
                  europei e i cruenti e sanguinari contrasti confessionali in 
                  ragione della difesa o della messa in discussione del monopolio 
                  del cristianesimo da parte della chiesa cattolica. Ma nel suo 
                  “mondo rinversato”, nella società del suo 
                  tempo che gli pare abbia rovesciato i veri e buoni valori, Bruno 
                  scorge segni e movimenti d'idee moderne e profetiche d'un possibile 
                  cambiamento e organicamente vi si inserisce, come acutamente 
                  documenta Masullo nel suo libro, facendosi interprete e promotore 
                  della pace come ideale assoluto, della ragione come guida sicura, 
                  delle leggi come strumenti atti a rendere possibile “la 
                  pacifica convivenza e la libertà del comunicare”; 
                  leggi che devono essere basate, ovunque, sulla salvaguardia 
                  imprescindibile e obbligatoria di quei ‘diritti universali' 
                  che sostanziano e caratterizzano gli uomini prima delle loro 
                  etnie, storie, culture. Lucidamente consapevole che, dopo la 
                  conquista dell'America, l' Europa s'apprestava a dar vita ad 
                  un dominio coloniale vasto e duraturo che avrebbe creato sfruttamento 
                  e disuguaglianze tra gli uomini, Bruno, difensore dei diritti 
                  naturali di ogni uomo, che devono essere preservati e rispettati 
                  in qualsivoglia condizione storico-sociale, ci appare, come 
                  fa notare giustamente Masullo, “nel suo tempo, un compagno 
                  del nostro tempo”, del nostro presente, nel quale 
                  aleggiano diffidenze e intolleranze verso le ‘diversità', 
                  che sempre più spesso diventano vero e proprio razzismo. 
                  Ma ancor di più, Masullo - filosofo di vaglia, autore 
                  di importanti saggi, intellettuale meridionale da sempre partecipe 
                  nella vita politica e pubblica - con un'avvincente disamina 
                  della vicenda di Bruno, filosofo di Nola, che fu vittima, come 
                  è noto, dell'opprimente e terribile Inquisizione, rintraccia 
                  nei nuclei principali della sua filosofia, cioè “l'idea 
                  cosmologica e il principio etico” i motivi fondanti “della 
                  modernità politica e della forma democratica dell'ordine 
                  civile”. 
                  “La filosofia di Bruno” afferma Masullo “secondo 
                  cui ogni luogo dell'infinito universo è centro, e ogni 
                  uomo, in quanto vita di ragione, dunque libero, ha pari dignità 
                  con ogni altro, è la base speculativa dell'idea politica 
                  della democrazia”. 
                  “Per lui” continua Masullo “ogni individuo 
                  umano, in quanto centro irriducibile tra infiniti centri irriducibili, 
                  con cui non può non essere sempre aperto a comunicare, 
                  è portatore di responsabilità piena. Ma proprio 
                  perciò nessun capo è assoluto. L'ordine umano 
                  è anarchico”. 
                 Silvestro Livolsi 
                 
                    
                Antifascismo/ 
Gli Arditi del Popolo della “ribelle irriducibile Civitavecchia” 
                “La lotta antifascista a Civitavecchia [...] Molti 
                  lavoratori edotti del fatto si recavano dinanzi la sede del 
                  fascio protestando e chiedendo la liberazione del loro compagno. 
                  Ne nacque un corpo a corpo violento con scambio di bastonate 
                  e revolverate e lo scoppio di una bomba che frantumava i vetri 
                  del locale fascista”. («Umanità Nova», 
                  14 ottobre 1922). 
                   
                   Contrastare 
                  le squadre di Mussolini, fin da subito e manu militari, erano 
                  gli intenti generosi di quel movimento che aveva ereditato, 
                  certo in forma spuria, il cameratismo di trincea. Nell'arditismo 
                  popolare si era in parte ricomposta la frattura della guerra 
                  con la convergenza strategica nelle formazioni militarizzate 
                  sia di ex interventisti divenuti anti-mussoliniani, sia di antimilitaristi 
                  libertari e anarchici. 
                  A Civitavecchia oltre seicento Arditi del popolo (portuali, 
                  cementieri, ferrovieri, operai e artigiani di varie tendenze 
                  politiche e ideali) opposero in armi strenua resistenza fino 
                  al terribile ottobre 1922. Il “fascio spezzato” 
                  (scure che frantuma il simbolo littorio) era ricamato sulle 
                  bandiere di quei primi combattenti proletari, in contrapposizione 
                  al tricolore nazionale sempre usato dagli squadristi. 
                  Lo Stato, la guerra, il lavoro industriale e la Nazione: il 
                  sistema valoriale del Novecento ha racchiuso tutto il suo potenziale 
                  totalitario e tossico in questi poli ideologici. Il nazionalismo, 
                  fenomeno strutturale, profondo e di lunga durata nelle società 
                  occidentali, ha via via riformulato e aggiornato le proprie 
                  prassi superando le apparenti sconfitte e marcando impensate 
                  continuità perfino nelle cesure più decisive dell'ultimo 
                  secolo. Così le declinazioni istituzionali e, appunto, 
                  la dimensione “nazionale” hanno pervaso ogni possibile 
                  rappresentazione sovversiva e antifascista. Così l'opposizione 
                  armata al primo fascismo in Italia è stata, e per troppo 
                  tempo, una pagina volutamente dimenticata in quanto non conforme, 
                  episodio rimosso della storia proletaria e internazionalista. 
                  Questo libro (Enrico Ciancarini, il fascio spezzato. Gli 
                  arditi del popolo nella “ribelle irriducibile Civitavecchia”. 
                  19 maggio 1921 – 28 ottobre 1922, Red Star Press, 
                  Roma, 2016, pp. 172, € 15,00) ci espone, in forma di incalzanti 
                  cronache quotidiane e con ritmi narrativi da fiction, 
                  diciassette mesi di guerra civile nella città portuale 
                  laziale – durante il cosiddetto “Biennio nero” 
                  – in uno dei luoghi mitici dell'arditismo popolare, insieme 
                  a Parma, Bari, Sarzana. 
                  L'autore Enrico Ciancarini (classe 1965), presidente della Società 
                  storica civitavecchiese, serio e affermato studioso, prolifico 
                  storico locale (nell'accezione nobile e antica del termine), 
                  confida ai lettori: “fino al 1997 non sapevo nulla degli 
                  arditi del popolo e della loro attiva presenza a Civitavecchia, 
                  la mia città natale” (p. 27). L'affermazione, onesta, 
                  è l'ennesima riprova di come certe vicende salienti novecentesche, 
                  e quelle in particolare dell'antifascismo, siano state trasmesse 
                  e trattate solo superficialmente nei vari passaggi generazionali. 
                  Nel secondo dopoguerra i partiti, fattisi imprenditori politici 
                  della memoria, hanno di fatto prestabilito metodi e “luoghi” 
                  deputati alla ricerca contemporaneistica, hanno a lungo e con 
                  protervia presidiato le scienze storiche (con somma ignoranza 
                  e autoreferenzialità), quasi paventassero imminenti invasioni 
                  di alieni. 
                  A tale proposito il racconto di come sia nata l'idea di questa 
                  pubblicazione è chiarificatore, avvincente al pari del 
                  contenuto vero e proprio del volume. In assenza dunque di un'affidabile 
                  e consolidata storiografia locale su un tema così peculiare, 
                  l'autore ha tratto ispirazione dai lavori di due precursori: 
                  Marco Rossi e Eros Francescangeli, quest'ultimo fra l'altro 
                  autore di una suggestiva prefazione a questo stesso volume. 
                  L'interessamento in ambito locale per i risultati delle prime 
                  ricerche effettuate dallo stesso Ciancarini ha portato, nel 
                  2013, all'intitolazione di una strada agli Arditi del popolo 
                  proprio nel centro storico di Civitavecchia; tappa intermedia 
                  verso una definitiva ricostruzione di una bella memoria popolare. 
                  Lo studio – che purtroppo non si avvale di note a piè 
                  di pagina – è basato su due formidabili tipologie 
                  di fonti: le carte di polizia e le cronache del quotidiano anarchico 
                  «Umanità Nova» (redatte da un puntuale e 
                  misconosciuto corrispondente, Augusto Milo, a cui l'autore rende 
                  giustamente onore e merito). L'incrocio intelligente di informazioni 
                  siffatte, provenienti da attori protagonisti che hanno avuto 
                  ruoli opposti sullo scenario dell'allora incipiente guerriglia 
                  sociale, ci fornisce una narrazione leggendaria e verosimile 
                  al tempo stesso di quei fatti. Sconfitto l'arditismo popolare, 
                  nei decenni successivi il regime mussoliniano esaltò 
                  le imprese del primo squadrismo fascista dopo che i tribunali 
                  avevano fatto largo uso della vendetta politica per saldare 
                  i conti sociali rimasti aperti. Nel secondo dopoguerra poi la 
                  memoria di quell'antifascismo armato rimase invece vittima del 
                  revisionismo storiografico di destra e di sinistra, di un uso 
                  pubblico della storia unicamente finalizzato al meschino agone 
                  partitico. 
                  Le ombre di tanti sovversivi dimenticati, persi nei gorghi della 
                  guerra civile, rivivono oggi anche grazie a questo studio, bello 
                  e “ardito”, di Enrico Ciancarini. 
                 Giorgio Sacchetti 
                 
                    
                Mille pagine/ 
Vent'anni di controcultura 
                Dopo aver raccolto e conservato per oltre cinquant'anni il 
                  materiale documentario – e dopo aver invitato un'ampia 
                  gamma di testimoni a dire la loro –, Ignazio Maria Gallino, 
                  nella doppia veste di autore e di editore, pubblica un'opera 
                  monumentale dedicata al periodo 1965-1985 Vent'anni di controcultura 
                  (Milano, 2016, pp. 908, € 180,00). Si tratta di mille pagine 
                  che – scevre da interpretazioni – rendono giustizia 
                  ai tanti protagonisti dell'unico momento del secondo Novecento 
                  in cui la cultura vigente – nel suo senso più ampio, 
                  comprensivo degli stili di vita, del sapere, della manutenzione 
                  dei corpi e delle loro relazioni, degli oggetti d'uso e dei 
                  segni che caratterizzavano gli ambienti stessi – è 
                  stata sottoposta ad una critica radicale. 
                  Due i punti delicati sui quali Gallino ha dovuto effettuare 
                  le sue scelte: la periodizzazione e la categorizzazione del 
                  punto di vista da cui guardare gli eventi. Per quel che concerne 
                  il primo problema, va detto che da qualche parte occorreva pur 
                  cominciare – e poi finire; è ovvio che la matrice 
                  di certi comportamenti vada ricercata ancora prima – si 
                  pensi alla “gioventù bruciata” degli anni 
                  Cinquanta, al rock, ai “giovani al doppio gin”, 
                  ai bluson noir, alla “nouvelle vague” ed all'evoluzione 
                  dei costumi sessuali postbellici -, ma è altrettanto 
                  ovvio che, nel proprio lavoro, uno storico deve pur porre delimitazioni. 
                  Forse, nel volume, una premessa in tal senso non sarebbe stata 
                  inutile. 
                  Per quel che concerne l'uso del termine “controcultura”, 
                  anche qui, si tratta di capirsi. Da un lato, resta il fatto 
                  che la categorizzazione è già stata utilizzata 
                  in ambito di storiografia – per esempio da Pablo Echaurren 
                  e da Claudia Salaris – e, dall'altro, resta l'ampiezza 
                  della sua designazione – la cultura intesa come l'insieme 
                  delle pratiche con cui gli esseri umani risolvono i propri problemi. 
                  Che da ciò rimanga fuori gran parte dell'ambito multiforme 
                  e ricchissimo delle arti – fatto comunque da considerare 
                  – è la conseguenza di una scelta metodologica e, 
                  come tale, comprensibile. 
                  Va da sé che a quei mutamenti abbiano contribuito non 
                  poco le avanguardie artistiche – letterarie, pittoriche, 
                  plastiche, musicali, cinematografiche, senza dimenticare il 
                  design -, ma va anche da sé che se quelle evoluzioni 
                  hanno potuto usufruire di fior di storiografia (e anche di fior 
                  di autorappresentazioni), non è il caso di quanto raccontato 
                  dalla miriade preziosa dei documenti raccolti da Gallino – 
                  mai cementati così per qualità e per quantità. 
                  
                 Oltre al sottoscritto, al volume hanno contribuito Alessandro 
                  Bertante, Italo Bertolasi, “Bifo”, Riccardo Bertoncelli, 
                  Guido Blumir, Franco Bolelli, Antonio Caronia, Gianni De Martino, 
                  Beppe De Sarlo, Pablo Echaurren, Matteo Guarnaccia, Gigi Marinoni, 
                  Giancarlo Mattia, Lea Meandri, Gianni Milano, Primo Moroni, 
                  Andrea Pasquino, Marco Philopat, Giorgio Pisani, Fernanda Pivano, 
                  Franco Quadri, Angelo Quattrocchi, Lidia Ravera, Edoardo Re, 
                  Marisa Rusconi, Franco Schirone, Andrea Sciarné, Clara 
                  Sestilli, Gianni E. Simonetti, Vincenzo Sparagna, Myriam Sumbulovich 
                  e Andrea Valcarenghi. 
                 Felice Accame 
                 
                    
                 
                
                   
                    “A”/ 
                        Noi della redazione diamo i numeri 
                      Da 
                        molti anni abbiamo un sito – arivista.org – 
                        giudicato con forte polarità. Molti lo ritengono 
                        statico, noioso, per niente interattivo, a volte difficile 
                        da usare per gli acquisti, ecc. Altri lo giudicano chiaro, 
                        ne apprezzano l'an-archivio e la doppia possibilità 
                        di scaricare gratis qualsiasi numero di “A” 
                        e di poter fare ricerche per nomi all'interno di tutti 
                        i 414 numeri finora usciti. Preannunciamo qualche simpatica 
                        novità e miglioramento, alla quale stiamo lavorando. 
                        Dal punto di vista della fruizione, gli “accessi 
                        unici” al nostro sito (cioè le visits) 
                        negli ultimi 12 mesi sono passati da 25.000 a 40.000 al 
                        mese. Significa che sono quasi raddoppiate le persone 
                        che raggiungono il nostro sito, vi entrano e leggono almeno 
                        qualcosa: da 1.000 a 1.300 accessi medi al giorno, con 
                        punte di 2.000. Si tratta di persone tra loro, nel corso 
                        di una giornata, diverse. 
                        Abbiamo dato un'occhiata – per curiosità 
                        – ai dati Audiweb relativi a periodici ben più 
                        noti di noi, carichi di pubblicità (che noi non 
                        ospitiamo) e di finanziamenti o comunque agevolazioni 
                        pubbliche (di cui noi non godiamo), e li abbiamo visti 
                        più “avanti” di noi, ma non in maniera 
                        così significativa. 
                        Un altro indice di miglioramento lo abbiamo riscontrato 
                        nel numero degli abbonati cartacei e delle copie spedite 
                        agli individui, collettivi, centri sociali, gruppi anarchici 
                        diffusori, botteghe del commercio equo e solidale. Niente 
                        di travolgente, ma “A” negli ultimi mesi ha 
                        cominciato a crescere. 
                        Diamo qui qualche ulteriore numero, per chiarire le nostre 
                        “dimensioni”. Mensilmente stampiamo da 4.300 
                        a 4.500 copie, due terzi delle quali consideriamo vendute 
                        (il calcolo è necessariamente presuntivo, perché 
                        gran parte dei diffusori non ci segnala il dettaglio delle 
                        vendite). Gli abbonati si avvicinano al migliaio, tra 
                        italiani ed esteri: con una lenta tendenza all'aumento 
                        E intanto, tornando alla rivista online, su twitter ci 
                        seguono oltre 3.400 follower. Che crescono in continuazione. 
                        Una pagina twitter asciutta e non invasiva, la nostra. 
                        Secondo un nostro stile non-gridato, che è una 
                        precisa scelta in questo mondo di superficialità, 
                        prepotenza e scompostezza. 
                        
                         
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