rivista anarchica
anno 46 n. 411
novembre 2016






“Le tre cose importanti che ho fatto nella mia vita”
Ricordo di Bruno Pianta


Fra due telefonate

Questo mestiere ha degli angoli bellissimi, benché poi la vita si riprenda tutto, a volte rubando sul tempo in maniera infame.
Qualche mese fa, in un'ora che per me nottambulo per professione era assolutamente troppo mattiniera, vengo risucchiato via dal sonno da un imperioso squillo del telefono cellulare. Scivolo giù dal letto con cautela per non disturbare Chiara che lo divide con me, e me ne vado in mutande in bagno sperando che non sia una cosa lunga.
«Sono Bruno Pianta» mi dice sgranchendosi la voce dall'altra parte «mi hanno passato il tuo numero, perché del collettivo di artisti che si occupa del Bella Ciao [“Bella Ciao” è uno storico spettacolo di musica popolare che abbiamo riallestito a cinquant'anni dall'originale e che con Riccardo Tesi, Lucilla Galeazzi, Elena Ledda, Ginevra di Marco, portiamo in giro con una certa continuità, nda] mi hanno detto che sei quello più addentro alle questioni storico-teoriche».
Bruno Pianta? Penso io... quel Bruno Pianta? E mi rendo improvvisamente conto di due cose, che fa veramente troppo freddo lì in bagno e che sto parlando con uno dei pionieri della ricerca popolare, per dirne una quello che ha registrato i canti dei minatori della Val Trompia, una delle esperienze di ascolto più formative che possa capitare di fare sulla strada della musica popolare. Sempre quello stesso Bruno Pianta che, con Sandra Mantovani, suonava e cantava negli anni settanta nell'Almanacco Popolare, storica formazione creata su impulso di Roberto Leydi, dopo la rottura mai più risanata con l'Istituto de Martino di Gianni Bosio.
«Caro Bruno, tu non puoi nemmeno immaginare che piacere sia conoscerti, ma se permetti ti richiamo fra cinque minuti...», «Guarda» mi risponde una voce che continua a schiarirsi con dei colpetti, come fanno quasi meccanicamente i cantanti sempre terrorizzati dal catarro «sono fuori al freddo anch'io perché vivo in piena Maremma e in casa il telefono prende poco, ma faccio in frettissima...».
Questo è stato l'esordio della prima fluviale chiacchierata di un paio d'ore che ha fatto rischiare a entrambi la polmonite, ma c'era da subito troppo da dirsi. Poi abbiamo parlato ancora per telefono, ci siamo scritti regolarmente, finalmente ci siamo visti a casa sua, ho avuto modo di leggere quei suoi saggi che non conoscevo e approfondire gli infiniti collegamenti della mente di un vero maestro. Bruno ha avuto, in questo breve lasso, il tempo di assistere a un paio di miei concerti, l'ultimo il 18 agosto con tutto il gruppo di Bella Ciao, e poi ci siamo salutati la mattina del 19.
Ero trafelato in bicicletta il 6 settembre, quando m'ha telefonato Stefano Arrighetti del de Martino: «sai ch'è morto Bruno Pianta, un incidente di pesca pare». La morte è sempre la scudisciata di ghiaccio che s'abbatte sulla nostra schiena, ma mai forse come questa volta ho sentito spezzarsi un discorso aperto. In così poco tempo questo burbero signore, che si divideva fra certezze assolute di aver capito tutto e l'esitazione di chi ha la testa che corre un po' più avanti della parola, era entrato nel mio cuore.

Bruno Pianta con una pionieristica ghironda

Il percorso di un maestro

Bruno Pianta era un pioniere, un intellettuale e un musicista. È morto per una tragica caduta sugli scogli mentre pescava, sette giorni prima di compiere 73 anni. Aveva dedicato la vita all'etnologia, allo studio e alla valorizzazione delle tradizioni italiane e della cultura orale.
Come molti studiosi della sua generazione aveva cominciato per caso: appassionato sin dall'adolescenza alle canzoni e alla cultura di quella che allora si chiamava “Altra America” quella delle canzoni degli “Hobo” e dei “Bluesman”, aveva avvicinato il “Guru” Roberto Leydi perché voleva fare il “folk singer”. Questi, col suo carisma contagioso, lo aveva proiettato nell'orbita del Nuovo Canzoniere Italiano che cominciava in quegli anni la propria attività. Bruno era allora un ragazzino di buone maniere e dalla faccia pulita, e soprattutto era astemio - cosa che crea sempre una certa diffidenza in un ambiente di gente che ama alzare il gomito - ascoltava le storie e le teorie degli intellettuali impegnati, conviveva con il poeta e cantore urbano Ivan Della Mea e col ricercatore Franco Coggiola, prendendo parte ai furiosi litigi che agitano da sempre la sinistra italiana. Ma un po' si sentiva tagliato fuori, per quello strano indistricabile impasto di timidezza e orgoglio, supponenza e sensibilità che hanno gli introspettivi e perché un po' era davvero diverso: antiaccademico, poco propizio ai movimenti di massa, diffidente delle teorie date per scontate, profondamente individualista.
Bruno professionalmente si divise fra il “Servizio Cultura del Mondo Popolare” della Regione Lombardia (attuale AESS) producendo un catalogo di libri, registrazioni audio e documentari video senza pari, con ricerche diventate leggendarie come il Carnevale di Bagolino, i Suonatori delle quattro province, la Famiglia Bregoli di Pezzaze, gli Scarpinanti, ecc., e la militanza musicale in prima persona con l'Almanacco Popolare. Intellettuale finissimo, come scrittore aveva il dono del collegamento fra i molti mondi che frequentava: musica, lirica popolare, letteratura, storia, sociologia. I suoi saggi sul mondo della “Leggera”, le sue intuizioni sulla crisi che sospende fra campagna e città, la marginalità picaresca dei cantastorie, degli imbonitori di fiera, dei minatori, è uno snodo cruciale della cultura moderna e situa il suo pensiero fra quello di Piero Camporesi e di Danilo Montaldi.
Io, per quel poco che ho avuto la fortuna di frequentarlo, ho conosciuto qualcuno di polemico e bonario, ironico e autoironico, un pozzo di scienza al servizio di una fede nell'umanità, che con l'umanità intera litigava spesso. Nella campagna maremmana che era diventata la sua seconda terra (lui di famiglia apolide, ebrea, tedesca, veneta, milanese) si divideva fra le ricerche di una vita e la maledetta passione per caccia e pesca, sempre alla ricerca di “miti” contadini da incarnare.
Ho registrato qualcuna delle sue parole, e ve le trascrivo qui di seguito - credetemi, già solo riaprire quella registrazione dopo la sua scomparsa... è stata la trascrizione più faticosa della mia vita - ma l'impressione che mi resta e che su quegli scogli si sia schiantato qualcosa di irrecuperabile, una biblioteca umana, una raccolta di civiltà e intelligenza proletaria, un mondo sempre più perduto.

Paolo Ciarchi, Jo Garceau, Bruno Pianta a metà degli anni '60

Intervista sui Minatori di Pezzaze (Brescia)

Alessio: Vorrei che mi raccontassi, fra le tue tante esperienze di ricerca, quella che a me impressiona di più: i minatori di Pezzaze, ovvero la Famiglia Bregoli. Per ogni ricercatore c'è sempre una crosta di diffidenza da rompere: entri dentro esperienze di vita molto dure, con un registratore in mano...
Bruno: Io ho fatto tre cose importanti in vita mia e a tutte sono stato molto vicino con la vita. I Minatori, i Dritti (gli imbonitori) ed Ernesto Sala il pifferaio. Con i Dritti - che forse erano i più indecifrabili e gelosi del loro mondo - ho avuto modo di parlarci, di bazzicare, di farmi spiegare. Con Ernesto sono addirittura diventato uno della famiglia, tanto che lui, quando io mi separai da mia moglie, mi fece la ramanzina e mi mise il muso: “non si fanno queste cose”. Insomma non c'è ricerca senza scambio emotivo, senza stabilire una relazione culturale che non può essere tutta a favore del ricercatore, se no è un furto, non una ricerca. Tu mi fai entrare nel tuo mondo e io nel mio, se no non funziona.

Però anche questa non è una tecnica: non ci si cala dall'alto a caso nelle famiglie... in quelle di minatori della Val Trompia poi!
Stiamo parlando dei primissimi anni settanta. Roberto Leydi per la Discoteca di Stato aveva avuto l'incarico di fare una serie di ricerche sulle zone etnologicamente più sconosciute della Lombardia, una di queste era il bresciano. Mi dice «ti va bene la Val Trompia?» e io dico «bene, andiamo in Val Trompia», avevo solo una vaga percezione che, fra le altre cose, fosse stata anche zona di miniere, non sapevo proprio in quale direzione impostare la ricerca. Son partito da un paese in alto, Collio, e lì registro una serata, ma non trovo nulla che mi colpisca musicalmente. Mi avevano invece molto colpito le vedove dei minatori: c'erano delle signore - alcune giovani, belle - e la prima mi dice «io sono vedova», ma con lo stesso tono con cui avrei detto «ho fatto il liceo classico» come una cosa naturale, e un'altra «io sono vedova», «io lo sono da tanti anni...», insomma la tragedia abitava quel paese con naturalezza. Mi ha colpito il fatto che essere nubili-sposate-vedove erano tre stadi in naturale successione, dove era evidente che le vedove avevano una libertà di comportamento e di eloquio che era un riconoscimento di ruolo.

E dove li rintracci i Bregoli?
Nel paese più sotto, Pezzaze, in uno spaccio di alimentari ho chiesto al salumaio se poteva indicarmi qualche musicista del posto, e mi ha detto «guarda, quello lì che sta entrando».
Mi presento, e con molta onestà gli confesso che sto cercando i canti di quel luogo, senza promettere niente, non c'era nessuna intenzione di farne un disco, volevamo giusto documentare le musiche del posto «se vi interessa, vi sarei grato, se no amici come prima». Conosco così i fratelli Bregoli e mi rendo conto, appena questi aprono la bocca, di aver trovato degli esecutori di alto livello, con un cantante in particolare straordinario che è Peppino, con una forza espressiva indescrivibile e poi questo repertorio di miniera.

Chi erano i Bregoli, intendo dire chi era fra loro che faceva musica?
Lino, Peppino, Adriano, Angelo detto “Buro”... io ne ho conosciuti almeno 5, il più giovane aveva la mia età, è morto qualche anno fa ed era Adriano Quindicesimo, perché era il quindicesimo nato in famiglia, era una di quelle famiglie così numerose che perdi un po' i confini fra consanguinei, acquisiti, ecc.

E chi era fra loro il fisarmonicista che si sente nel disco?
Tutti suonavano la fisarmonica, tranne Peppino che suonava il pettine con la membrana, - una sorta di kazoo autoprodotto - e soprattutto era il cantante/leader, il vero grande talento della famiglia. Potrei dire che avevo intuito subito la loro eccezionalità, ma per capirli davvero ho dovuto studiare, ripercorrere le mie passioni e le mie conoscenze, mettere in campo la mia esperienza di apprendistato con Ewan MacColl, superare la rassicurante concezione della “cultura contadina” in cui noi, ricercatori dell'epoca, avevamo chiuso esperienze troppo diverse tra loro.
Tanto per cominciare in Italia del Nord - cominciavo appena allora a rendermene conto - ci sono due grandi usi sociali del canto popolare: ci sono delle aree dove sopravvive una perizia musicale riconosciuta sia strumentale che vocale, come nel tralallero ligure, nel canto della Langa, in quello di Premana. In questi tipi di culture vocali non frega niente delle parole cantate, sono solo un pretesto per emettere delle note. Poi ci sono i luoghi dove invece privilegiata è la parola portatrice di racconto. Ai Bregoli non gliene frega poi troppo della musica, la cosa importante sono le cose che hanno da dire. Questi due mondi, che a volte distano una sola valle, presuppongono approcci interpretativi completamente diversi.
Mi divertì col tempo a far ascoltare i Bregoli ad altri musicisti che stimavo, Ernesto Sala per esempio, che oltre ad essere uno dei più grandi musicisti popolari era uomo curioso e di acuta intelligenza, amava molto i Bregoli, pur nella distanza di interessi che non sarebbe potuta esser maggiore. I miei amici cantori di Magliano Alfieri nelle Langhe - che cantavano molto bene, ma avevano un rapporto col testo a tutt'altro livello di necessità - quando sentirono i Bregoli dissero una cosa illuminante nella semplicità: «ehhh... ma questi stanno proprio attenti a quello che dicono”.

Alessio Lega, Bruno Pianta, Riccardo Tesi, Lucilla Galeazzi il 18 agosto 2016

“Di loro mi fidavo”

Dunque per i Minatori della Val Trompia la parola non aveva un valore ritmico, ma proprio di racconto della loro vita?
La parola usata come strumento per fare musica è cosa bellissima, ma per i Bregoli - e per tutta l'area orobica, della Lombardia orientale - contano le cose che si dicono, le storie.
Nelle canzoni dei Bregoli ogni parola detta da Pino è un colpo di fucile [scandisce] “QUANDO-AVEVO-QUINDICI-ANNI-PER-IL-MONDO-ME-NE-ANDAI”... a ripensarci mi vengono i brividi! Questa cosa qua lui la canta perché è un cantante - un grande cantante - ma in realtà la vive! La memoria emotiva gliela rimette in circolo. È la storia, sono le parole.
Una nota a margine: ho notato che nei posti dove c'è questa sapienza qui, stranamente, c'è anche   una tradizione strumentale, mentre nei posti dove si privilegia il canto come fatto musicale - senza attenzione alla parola e al racconto - non c'è tradizione strumentale: la voce diventa lo strumento. A Premana non c'è una fisarmonica nel paese, non c'è a pagarlo oro! Dove invece c'è il racconto nelle canzoni, lì ci sono anche musicisti da ballo. A Bagolino - dove c'è straordinaria tradizione strumentale - cantano, ma cantano in quel modo: le parole sono PAROLE e devono avere un senso, non sono un pretesto.

E tu capisci immediatamente che l'esperienza della miniera è l'esperienza centrale della loro vita, quella a cui pensano quando cantano, sia che i canti vi si riferiscano direttamente sia che stiano attingendo da altri repertori?
Devo confessarti che dal primo momento sapevo che erano minatori, ma era un fatto accessorio, pensavo giusto che erano molto bravi a cantare. Sandra [Mantovani] che aveva sempre una visione positivista, diede una definizione medico-musicale: “hanno la voce da silicosi”. Forse era vero, ma quello che mi aveva stupito era che li avevo conosciuti in osteria, con i comportamenti tipici da osteria - io allora non avevo gli strumenti per capire quale comportamento volesse dire una determinata cosa, dopo ho capito che l'osteria che vivevano loro era una ritualità con i suoi comportamenti archetipici, i suoi “ruoli” - a me colpirono proprio con un impatto emotivo che mi buttò a terra: “cazzo” questi sono dei giganti! Come fanno, da dove vengono?
Vedi, io prima di occuparmi del mondo popolare italiano mi ero accostato a Leydi perché amavo il Folk americano, all'epoca era l'unico che se ne occupasse, un mondo dove esisteva ed era riconosciuta la straordinarietà e il professionismo anche dell'interprete popolare. Beh, quando a Pezzaze mi trovai di fronte a queste storie cantate: fare soldi e sputtanarseli subito in baldoria, in donne, fino a finire sul lastrico... e solo allora ricominciare l'inferno del lavoro in miniera. La spinta alla mobilità continua, la voglia di partire, l'ambiente contadino che stava troppo stretto. Questo mondo marginale, ma poeticamente potentissimo, era così diverso da quello operaio. Questi allora, che non erano né contadini né operai, da dove venivano? Ma questi sono i Cowboys, mi dissi, questi sono i nostri Cowboys! E lì ho avuto la prima intuizione di questo mondo storicamente trasnazionale, di gente che forse non si conosceva, ma che tu potevi riconoscere attraverso i comportamenti comuni e sovrapponibili: la spavalderia che non era un vanto, ma che era vera disposizione e abitudine a misurarsi con la vita e con la morte.

Una poetica che va ben al di là del fatto sonoro e dell'etnomusicologica. Da quello che mi dici, dalla passione con cui a distanza di oltre quarant'anni me ne parli, capisco quanto tu stesso fossi alla ricerca di un collegamento fra le fascinazioni dell'adolescenza e il lavoro che stavi facendo.
Sai, quelli erano momenti delicati per la società italiana, il mondo della contestazione politica, l'estremismo del Movimento Studentesco - nel quale ero cresciuto e generazionalmente mi riconoscevo - cominciava ad essere affascinato dalle armi, si facevano i primi discorsi di lotta armata, e io mi trovai subito in perfetto disaccordo per motivi etici, ma anche per motivi pratici: mi parevano sbruffoni del tutto impreparati che avrebbero fatto danni a se stessi e agli altri senza cavare un ragno dal buco. Non ero d'accordo con la loro analisi, ma soprattutto non mi fidavo di loro come persone, perché per loro la parola era come per quei cantori che non gli davano importanza: serviva per vantarsi, per fare musica. Invece quando conobbi la Famiglia Bregoli mi ritrovai automaticamente a pensare: se ci fosse da fare “qualcosa”, se ci si trovasse in una condizione di resistenza, in un momento rivoluzionario... io di questi mi fido, con loro io ci vado, perché di questi io mi posso fidare. Capisci che non stiamo parlando solo di musica.

Quindi, come sempre accade quando ci troviamo di fronte a delle registrazioni straordinarie, è perché il tuo rapporto con loro è andato ben oltre la semplice documentazione, è diventato una sorta di transfert emotivo ed esistenziale.
Io lì ho preso casa! Sono stato a Pezzaze per due anni, volevo star loro vicino.

Frammento dell'intervista raccolta nella notte fra il 4 e il 5 luglio 2016

Alessio Lega