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				 psichiatria 
                  
                La dignità dei devianti 
                  
                intervista a Piero Cipriano di Daniela Mallardi 
                    
                È da poco uscito per Elèuthera il terzo volume di “psichiatria riluttante”, scritto da Piero Cipriano che lavora a Roma presso un Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura. In questa conversazione con una sua collega si analizzano molti aspetti della psichiatria oggi. 
                 
                  Dopo La Fabbrica della cura mentale e Il manicomio chimico, Piero Cipriano pubblica con Elèuthera il suo terzo e ultimo libro di psichiatria riluttante, dove esamina come, a partire dal luogo-non luogo dove si deposita la massima sofferenza psichica (il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura, appunto), si imbatta quotidianamente in diagnosi sbrigative e facili. In questo atto di narrazione finale, Cipriano spiega il rischio di una società che a ogni deviante appiccica la sua etichetta, che diventa nulla più che un insieme obbligato di regole e di come si possa, invece, sovvertirne percorsi, farmaci e forse perfino l'idea stessa della cura.  
Come già aveva fatto in precedenza nel testimoniare la difficoltà di accondiscendere all'imbruttimento del manicomio e alle abbuffate farmacologiche, con La società dei devianti, Cipriano, psichiatra e psicoterapeuta, a partire dal Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura in cui lavora, si e ci interroga sul paradigma dell'ideale di salute, e ridefinisce lo statuto della tristezza, senza ascriverla necessariamente alla depressione. Ad animare il libro compare lui, il personaggio narrativo, psichiatra basagliano e a tratti autobiografico, che ricorda come la vischiosità classificatoria delle forme di depressione con l'uso a cascata di farmaci, rappresenti la delegittimazione della tristezza.  
In questo libro con uno stile tra saggistica, racconto e divulgazione, Cipriano esprime come in una società performativa e prestazionale, qualsiasi forma di devianza venga non solo mal tollerata ma anche patologizzata, come se l'officina della salute mentale dovesse produrre sempre e nuovi malesseri su cui orientare una presunta direzione di cura.  
D'altronde, per Basaglia, lavorare al cambiamento sociale significava proprio superare i rapporti di oppressione e vivere la contraddizione del rapporto con l'altro, accettare la contestazione, e dare valenza positiva al conflitto, alla crisi, alla sospensione di giudizi, all'indebolirsi dei ruoli e delle etichette identitarie.  
                 D.M. 
 
                  Sul penultimo numero di “A” rivista anarchica 
                  (giugno 2016, anno 46, 
                  n. 5) Giorgio Antonucci si professa diverso da Basaglia 
                  in quanto sostiene che mentre quest'ultimo fosse contro il manicomio, 
                  lui invece è contro il ricovero coatto (il TSO, insomma). 
                  E tu? Tra Antonucci l'antipsichiatra e Basaglia lo psichiatra 
                  anti-istituzionale, dove ti collochi?  
Quello di Antonucci è un discorso che trovo demagogico. La malattia mentale certo che non esiste in quanto malattia, siamo d'accordo, ma la sofferenza psichica, o il disagio, o chiamiamolo come vogliamo, quello c'è, lo vediamo, e una persona così sofferente, la libertà l'ha già perduta prima ancora che intervenga la psichiatria con le sue armi di precisione e repressione. Quindi non si tratta solo di liberare le persone sofferenti, dalla psichiatria, ma liberarle pure da quella sofferenza che un tempo si chiamava follia. Allora, in certi casi, bisogna assumersi la responsabilità di decidere, per quella persona non più in grado di farlo. Per cui, io pure revoco, o non convalido, moltissimi Trattamenti Sanitari Obbligatori, quasi sempre inutili, ingiustificati. Però non contesto lo strumento del TSO. 
                  L'impresa titanica di Basaglia 
                Non mi pare che sia questo strumento, se usato con parsimonia 
                  e in casi eccezionali, il vero problema. Invece contesto i manicomi. 
                  I manicomi in ogni forma e modo, anche quelli più sofisticati 
                  fatti di diagnosi, psicofarmaci, perfino psicoterapie (anche 
                  in queste vi sono rapporti di potere, è chiaro). Ed è 
                  per questo che non ho mai amato Szasz, nonostante i libri che 
                  lui ha scritto siano condivisibili, perché sul piano 
                  della pratica uno che proclama: non darò mai farmaci 
                  né metterò piede in un ospedale, ma erogherò 
                  solo parole e relazione, ha fatto una scelta di campo, si è 
                  ritagliato una comoda attività professionale borghese, 
                  dedicandosi a gente ricca e poco sofferente. Altro che le fosse 
                  di serpenti (i 600 internati del manicomio di Gorizia o i 1200 
                  del manicomio di Trieste in cui si gettò Basaglia). Insomma, 
                  Basaglia accetta di non essere un puro. Accetta la contraddizione 
                  di prescrivere psicofarmaci, pure di continuare ad avere persone 
                  legate e rinchiuse, ma riuscendo, con la tecnica di “infiltrare 
                  gli infiltrati”, usando le stesse armi dei manicomiali, 
                  ad abolire i manicomi per la prima volta al mondo dopo due secoli 
                  dalla loro invenzione. Lascia stare che poi quelli si sono riprodotti 
                  sotto altre forme. Ma l'impresa è stata titanica. Riesce 
                  a violentare la società. La società che voleva 
                  e vuole i manicomi. I manicomi esistono perché qualcuno 
                  espelle lo sragionante, è ovvio. 
                  Eppure Basaglia parte, se ci pensi, dalle stesse premesse teoriche 
                  di Szasz (e Antonucci): quando dice non so cosa sia la follia, 
                  è una condizione umana, in noi la follia esiste come 
                  esiste la ragione, ma la società per dirsi civile dovrebbe 
                  accettare tanto la ragione quanto la follia, invece no, si incarica 
                  di trasformare la follia in malattia (per mezzo degli psichiatri) 
                  e come tale la relega nei manicomi; le premesse sono simili. 
                  È la prassi che è stata drammaticamente diversa. 
                  Szasz dedito all'esercizio della lieve psicoterapia, e Antonucci 
                  la cui impresa più rilevante è stata troppo veloce, 
                  pretenziosa e controproducente. Nel senso che non sono confrontabili 
                  la marginale e irrilevante esperienza di Cividale (durata poco 
                  più di sei mesi, conclusasi con un'occupazione del reparto 
                  con i dodici pazienti rimasti – tanti quanti ve ne sono 
                  oggi in un SPDC) che vide protagonisti Cotti e Antonucci, con 
                  l'impegno sisifico che si assunse Basaglia, di interi manicomi 
                  da svuotare, ma facendolo gradualmente, attento a non causare 
                  l'incidente, l'incidente sempre atteso che rischia di confermare, 
                  per eterogenesi dei fini, che pratiche troppo liberatorie non 
                  sono possibili e dunque non è possibile fare a meno dei 
                  manicomi. Per cui, tra Antonucci e Basaglia, io non ho dubbi. 
                
                   
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                    |   Piero Cipriano, psichiatra e psicoterapeuta, lavora a Roma  
                in un Servizio psichiatrico di diagnosi a cura  | 
                   
                  
                Contro la psicanalisi, ma non in senso univoco 
                Nel tuo ultimo libro La società dei devianti 
                  (Elèuthera, 2016), figuro come uno dei rari casi di 
                  terapeuti che si occupano di inconscio e di cui tu hai fiducia. 
                  Ma, a parte rare eccezioni, sembra quasi che il tuo sia un “j'accuse” 
                  generale verso la psicoanalisi, da intendersi quale onerosa 
                  pratica borghese che diventa cialtrona non tanto per via di 
                  un suo mancato pragmatismo quanto per una tua mancata conoscenza. 
                  Voglio dire: come mai la posizione di pensiero riluttante parrebbe 
                  non farsi spazio anche sulla questione psicoanalitica? Non corri 
                  così il rischio di diventare monodimensionale ed etichettante 
                  pure tu, a tuo modo?  
                  Ma la psicanalisi questo a me pare, in genere: un'onerosa pratica 
                  borghese dalla quale il poco abbiente è estromesso, salvo 
                  qualche eccezione. E c'è poco da essere originali. Non 
                  è la mia visione della psicanalisi un cliché, 
                  è la psicanalisi a essere un cliché, e sapessi 
                  quante macchiette ho visto al lavoro. Un cliché per individui 
                  abbienti, e poco gravi. Ma sbagli a dire che il libro è 
                  un “j'accuse” univoco alla psicanalisi. Nel lunghissimo 
                  capitolo in cui cerco di raccontare cos'è quella cosa 
                  che da circa un secolo chiamiamo schizofrenia, scrivo di Jung 
                  antinosografico e sostenitore della curabilità degli 
                  psicotici, e perfino lo considero un precursore di Basaglia 
                  (attraverso Minkowski, ovviamente). 
                  Diciamo che non ne vedo molti di psicanalisti in giro (salvo 
                  alcuni, che cito pure nel libro, non so, Mario Colucci il lacaniano 
                  che lavora in un CSM di Trieste, Gianluigi Di Cesare lo junghiano 
                  che opera in un CSM di Roma) che hanno voglia di uscire dal 
                  circuito privato e occuparsi, nei servizi pubblici, di pazienti 
                  molto sofferenti. Gli altri, la gran massa degli psicanalisti: 
                  cosa ha fatto (diceva Basaglia) di buono la multinazionale della 
                  psicanalisi, nel 900, per tutti gli internati dei manicomi? 
                  E cosa fa di buono adesso, per tutti i pazienti “hard” 
                  dei SPDC, dei cronicari vari, dei mille contenitori della follia 
                  sparsi nel territorio? Perfino Thomas Szasz l'antipsichiatra 
                  era uno di loro, un bravo narratore ma terapeuta esclusivamente 
                  per quel pezzo di clientela che si poteva pagare la seduta con 
                  lui. Cosa fa la gran massa degli psicanalisti se non: parlare 
                  e lasciar parlare in uno studio borghese, in un quartiere borghese, 
                  pazienti borghesi, prendendo un tanto all'ora, dove quelli quasi 
                  esenti da disturbi o sofferenze si gioveranno di questa colta 
                  e gentile relazione, gli altri più problematici non ce 
                  la faranno e dopo cinque dieci sedute non li vedranno più. 
                  E nemmeno lo sapranno se saranno finiti legati in un letto di 
                  SPDC o bivaccheranno in una clinica privata a ingoiare farmaci. 
                  Allora, a chi serve la psicanalisi? 
                  Tuttavia, non sei la prima che mi provoca su questo punto: la 
                  psicanalisi mi starebbe antipatica perché non la conosco, 
                  non le ho mai stretto la mano e non ho mai depositato il mio 
                  danaro nella bianca mano di un analista, perché non mi 
                  sono mai allettato su un lettino analitico. Rispondo, nel mio 
                  piccolo, come rispose Foucault alla stessa provocazione. Disse: 
                  io ne voglio parlare, di psicanalisi, e contestarla, ma restandone 
                  fuori. Per cui è vero il contrario, cioè, proprio 
                  in quanto non psicanalizzato mi posso permettere di parlarne. 
                  Altrimenti che obiettività potrei avere. Diceva Tobie 
                  Nathan, probabilmente il più interessante etnopsichiatra 
                  vivente, che molti psicanalizzati sono come degli zombie, un 
                  po' come i posseduti da certi stregoni africani, sono gusci 
                  vuoti, che dentro non hanno più se stessi ma la teoria 
                  dell'analista che li possiede. 
                  Diciamo che mi sento molto etnopsichiatra, da questo punto di 
                  vista. A volte, quando vedo individui (anche psicanalisti giunti 
                  all'ultimo grado di iniziazione) che al primo inceppo esistenziale 
                  ritornano dal proprio analista, a rifare il tagliando, un po' 
                  come un farmacofilo ritorna a farsi prescrivere l'antidepressivo, 
                  ecco, ci trovo un tale grado di non emancipazione, di dipendenza, 
                  che mi pare più perniciosa ancora della dipendenza dagli 
                  psicofarmaci. 
                  Tu dici: parli di ciò che non conosci. Ma perché 
                  (ora mi vengono in mente molti lacaniani) pensi che davvero 
                  si capisca ciò che scrive Lacan?, o che tra lacaniani 
                  si capiscano? Ricordo un fisico, Alan Sokal, irritato dalla 
                  lettura di Lacan e dei suoi epigoni e dal loro esoterismo lessicale, 
                  che scrisse un testo davvero astruso, lo inviò a una 
                  rivista, fu pubblicato, e dopo un po' di mesi raccontò 
                  il fatto in un libro, dal titolo Imposture intellettuali, dove 
                  parlava di tutti questi autori fumosi alla Lacan, che, quando 
                  li leggi (scrive Marco Innamorati in un ottimo articolo) hai 
                  la sensazione di essere preso per il culo, un po' come ti prendono 
                  per il culo i protagonisti di Amici miei quando ti fanno la 
                  supercazzola prematurata. Ecco, io ho semplicemente detto che 
                  molti di questi parlano di supercazzole. Non si tratta di monodimensionalità. 
                  Ma di essere, anche nel mio lavoro, sufficientemente anarchico, 
                  da rifiutare certi dogmi, soprattutto se sono pure incomprensibili. 
                
                   
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                    |   Daniela Mallardi, psicologa e psicoterapeuta, lavora a Roma presso la Fondazione Roma Solidale onlus  | 
                   
                  
                Il diritto al suicidio 
                Appare chiara, dunque, questa tua modalità di voler andare “in direzione ostinata e contraria” dalla parte dei disperati - per parafrasare De André - ma questa perseveranza nel rimanere a lavorare in un Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura ospedaliero di cui tu denunci l'orrore e l'errore della pratica, non è forse più una necessità di raccontarti di poter essere l'unico psichiatra diverso in un luogo di psichiatri uguali?  
Potrei rispondere di no, perché è necessario un infiltrato, nei piccoli manicomi, per rompere l'ingranaggio oliato della manicomialità. Invece ti rispondo: forse sì. Infatti me ne vorrei andare, dopo una dozzina d'anni di lavoro ospedaliero vorrei tornare a lavorare in un Centro di Salute Mentale. Ritornare sul cosiddetto territorio. Andare di casa in casa a trovare le persone. Prevenire, se possibile, le crisi. Impedire che le persone poi arrivino furiose nei pronto soccorsi, dove vengono accolte con le armi pesanti: farmaci e fasce. Ma per ora mi hanno bloccato il trasferimento. Però ti dico, anche, che si può (capita spessissimo) lavorare da manicomiale in un CSM (o perfino in uno studio privato, per tornare al discorso di prima sugli psicanalisti o su chi esercita la psicoterapia in studioli privati) e lavorare da territoriale in un SPDC. Facendo, in fondo, ciò che Antonucci sostiene di fare: revocare i TSO o non convalidarli, sciogliere i legati o non legarli, ridurre il carico di farmaci, dimettere qualche paziente, prendere (come ho fatto alcuni giorni fa) un paziente da molti mesi ricoverato in SPDC e, con la mia auto (perché la ASL non ne ha a disposizione), portarlo a visitare sua madre che non vede da tre anni in casa di riposo, e poi andare a pranzo insieme a lui a ristorante. Ora: come mai tutto ciò non lo ha fatto lo psichiatra del CSM che lo ha in cura? Probabilmente perché il manicomio non è un luogo, ma è nella testa delle persone. 
 
“Vi è solamente un problema filosofico veramente serio, quello del suicidio”. Camus, ne Il Mito di Sisifo, apre il varco di questo buco su cui tu ti riaffacci. Qual è - se c'è - la soglia per definire un suicidio diverso da un altro? Si può parlare di responsabilità dello psichiatra? Quale eredità ti hanno lasciato coloro che lo hanno messo in atto?  
Domanda molto complessa, troppo, a cui serve una risposta semplice e pragmatica (chi vuole poi si legge il capitolo: “Il dovere di vivere, il divieto di morire”, nell'ultimo libro). Di solito gli psichiatri (me compreso) rispetto ai gesti di suicidio, potenziali o messi in atto, si difendono. Perché, altrimenti, il rischio è che uno (il suicida) muoia, e l'altro (lo psichiatra) muoia socialmente (finisce in galera, o viene sospeso dall'esercizio del suo mestiere). Perché c'è un terzo elemento (un giudice), che per mestiere cerca la colpa. Io penso (in quest'ultimo libro lo scrivo chiaramente) che le persone debbano avere il diritto di disporre del proprio corpo (habeas corpus), e dunque di scegliere se vivere o morire. Ma nel paese confessionale che siamo ciò è incredibilmente difficile. Se uno muore c'è bisogno, sempre, di un colpevole. E questa è un'ulteriore ragione del manicomio. 
                  Il riluttante è un anarchico che... 
                A proposito del personaggio narrativo dello psichiatra riluttante, non temi che possa essere un azzardo? Nel senso, non temi che questa non-fiction novel alla Carrère possa falsificare la professione dello psichiatra e farla quasi eroica? (Il carteggio con una Madonna, poi, farebbe il verso a una dimensione quasi mistica).  
Non sono d'accordo con questa tua visione. Pochi giorni fa il cantante Capovilla del Teatro degli Orrori mi diceva esattamente il contrario. Diceva: cazzo, Piero, in questo libro ci sei andato giù duro. In che senso, gli domando. Ti dai addosso come non mai, ti definisci un killer, un boia gentile, un carnefice. E così via. Allora, non mi pare di aver raccontato un personaggio, lo psichiatra riluttante, così eroico come dici: è sempre sul punto di lasciare, minaccia di abbandonare il campo, la partita, smettere. Proprio nel capitolo sulla psicanalista Centauro, che ti riguarda, dice che non vuole cadere nella sindrome del salvatore onnipotente, che lui con questo lavoro in fondo ci piglia lo stipendio per campare la famiglia. 
Dove lo vedi l'eroe? Io non ce lo vedo. Il carteggio con la madonna, dici, rasenta il mistico? Ma no. Innanzitutto è la decima madonna, non la prima. Poi è una madonna designata tale (decima appunto) da uno che ha passato la vita nei manicomi e si credeva dio. Per questo, più che deriva mistica, è un carteggio blasfemo, dove io mi confesso a una madonna nominata tale da un pazzo, diciamo. Cosa le confesso? Le confesso proprio il mio non riuscire a fare a meno di raccontare queste storie di persone stritolate, annientate dai manicomi. E lei è stata la madonna di un pazzo e di uno psichiatra, che sono le due facce della stessa medaglia. Due onnipotenti, se ci pensi. Un uomo che si crede dio, e un altro uomo che si crede psichiatra e in quanto tale più potente dell'uomo che si crede dio, quindi più potente di dio, perché lo può obbligare a curarsi, a prendere farmaci, a scrollarsi di dosso la folle convinzione di essere dio. Ma allo psichiatra nessuno mai lo potrà convincere (o curare) del suo errore, della sua presunzione di verità. E di essere ancora più dio di dio. 
 
Colpisce che in tutto il libro non compaia mai la parola desiderio che a me pare, invece, una parola assai preziosa, un moto perpetuo che mai soddisfa e che mai può soddisfare finché c'è orizzonte. In questo modo, forse il desiderio è da intendersi anarchico. Quale è allora il tuo desiderio adesso e dove è la tua anarchia?  
Non compare la parola desiderio però il desiderio c'è. Non serve metterci la parola perché una cosa esista. Ci sono molti desideri, nel libro. E non li elenco che forse non c'è più spazio in quest'intervista. Il desiderio di convincere, per esempio. Il riluttante è uno psichiatra ego distonico, uno psichiatra contro voglia, apparentemente non più desiderante, appunto, sempre sul punto di mollare, però non molla, resta lì, a fare la sentinella, l'infiltrato, perché, in fondo, vuole convincere, ma convincere chi? I giovani infermieri, i tirocinanti, gli specializzandi in psichiatria, quelli che ancora non si sono arresi e consegnati alla logica della custodia, del manicomio, della securità. Fargli vedere che se arriva un agitato è possibile rassicurarlo senza legarlo. Fargli vedere quanto è semplice sciogliere un uomo legato. E poi quando è notte, durante le guardie di notte, scrive. E pubblica libri. Perché? Perché desidera ancora convincere. Convincere chi non sa nulla di questo nostro mondo a parte. E se non vincere, che non si può, almeno convincere. 
E la sua anarchia, non molto esibita, ostentata, c'è, nascosta in questa sua riluttanza al potere psichiatrico. Nella prima versione de La fabbrica della cura mentale che proposi a Elèuthera il protagonista era lo psichiatra anarchico, ma l'ossimoro era troppo scandaloso, e virai, avendo apprezzato Il fondamentalista riluttante, su quest'altro aggettivo. 
Il riluttante è un anarchico che accetta di fare a meno della purezza cui sempre gli anarchici anelano, rispetto al potere, accetta la contraddizione, di poter disporre della vita, della salute, della libertà degli altri. E prova a ridimensionarsi in quanto psichiatra, e tutto il suo lavoro è un attacco al potere psichiatrico. Potere che si esprime sia con armi pesanti (farmaci, fasce, elettrochoc, ricoveri coatti) sia con armi apparentemente più innocue (diagnosi, interpretazioni, buoni consigli). 
                 Daniela Mallardi 
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