New York 1911/ 
                  Quelle 126 donne (quasi tutte siciliane) morte tra le fiamme 
                 Il 
                  25 marzo del 1911, un incendio divampato in un palazzo del centro 
                  di New York, l'Asch Building, nel piano dove aveva sede la Triangle 
                  Waist, provocò la morte di centoventisei operaie che 
                  vi lavoravano. La Triangle Waist era una fabbrica tessile che 
                  occupava più di 400 donne. L'assenza dei dispositivi 
                  di sicurezza era un dato ovvio, in un ambiente di lavoro dove 
                  la sfruttamento imperversava sovrano e la ricerca del profitto 
                  non permetteva di tenere conto delle ore, del ritmo e delle 
                  condizioni di lavoro a cui erano sottoposte le operaie. Delle 
                  donne morte tra le fiamme o nel disperato tentativo di salvarsi 
                  lanciandosi giù dalle finestre, la nazionalità 
                  era alquanto diversa, ma la gran parte di loro era approdata 
                  al porto newyorchese di Ellis Island dall'Italia e in particolare 
                  dalla Sicilia. 
                  Un libro recente, dell'incendio e delle donne che ne furono 
                  innocenti vittime, racconta tutto. Ne è autrice Ester 
                  Rizzo che in Camicette bianche (Navarra Editore, Palermo, 
                  2014, pp. 128, € 10,00) ricostruisce i fatti ma soprattutto 
                  ridà un'identità a tante delle operaie morte, 
                  delle quali erano rimaste parziali o del tutto ignoti le biografie 
                  e, di alcune, finanche i nomi dei luoghi natii. 
                  Dell'incendio, domato in mezz'ora, dello sgomento che suscitò 
                  in chi vi assistette, vedendo volare dall'ottavo piano le operaie 
                  in cerca di un'impossibile salvezza (“Non erano balle 
                  preziose di stoffa quelle che i passanti videro volare dall'Asch 
                  Building. Erano i corpi della Triangle Waist Company. Cadevano 
                  giù a decine, alcune con i vestiti e i capelli in fiamme. 
                  Dissero che somigliavano alle comete”), parlarono testimoni 
                  e giornalisti per un po': dopo, cominciò a cadere l'oblio 
                  sulle vittime e sulle loro vite “spezzate”: “vite 
                  che per decine di anni sono state riunite in un unico monumento 
                  funebre: un bassorilievo raffigurante una donna inginocchiata 
                  con il capo chino”. 
                  Ester Rizzo, di quelle donne, racconta il sogno di una vita 
                  nuova, migliore e diversa che inseguivano lasciando le loro 
                  umili case e la povertà, attratte dalle foto e dalle 
                  immagini del Nuovo Mondo, di un'America luccicante e dorata, 
                  terra di lavoro e di prosperità. E ci dice la Rizzo, 
                  con minuziosa documentazione, dei porti italiani da dove gli 
                  emigranti s'imbarcavano per l'America, delle navi che trasportavano 
                  loro e i loro bagagli (riempite di qualche indumento e di un 
                  po' di provviste), delle promesse fatte ai cari che lasciavano, 
                  delle attese che avevano saputo alimentare in loro, gli “agenti 
                  dell'immigrazione”, un piccolo esercito di persone che 
                  si occupava di organizzare e indirizzare i viaggi degli emigranti, 
                  guadagnando sulla fame e la miseria della gente del popolo. 
                  Le donne che perirono nella tragedia della Triangle Waist furono 
                  centoventinove: provenivano da varie parti del mondo, dalla 
                  Russia, dall'Ungheria, dalla Romania, dalla Giamaica; tante 
                  dall'Italia: trentotto, e di queste ben ventiquattro dalla Sicilia, 
                  “la regione che ha pagato il tributo più alto”. 
                  Ampia e ricca di dati biografici è la ricostruzione che 
                  la Rizzo fa delle vicende delle donne siciliane, condotta non 
                  solo sulle carte d'archivio, sui registri delle anagrafi, americane 
                  e italiane, su documenti e saggi di ricerca, ma anche con un 
                  personale viaggio per i paesi di mare e di montagna della Sicilia, 
                  da dove ha preso inizio la storia di ragazze semplici ma determinate, 
                  come Clotilde, Lucia, Rosaria, Concetta e le altre, che lasciavano 
                  i loro antichi, arcaici e remoti paesi, come Sperlinga, Cerami, 
                  Bisacquino, Marsala, Castelbuono, Cerda, Mazara, etc., cercando, 
                  oltreoceano, un avvenire migliore. 
                  Ne viene fuori il quadro storico-sociale della Sicilia di inizio 
                  secolo – vessata dal sottosviluppo – e la possibilità 
                  di confrontarlo con la realtà odierna, quella di un'isola 
                  dalle grandi risorse naturalistiche e monumentali, ma ancora 
                  afflitta dalla mancanza di buoni collegamenti viari, dall'assenza 
                  di idee di sviluppo che non siano le solite - e fallimentari 
                  -, sinora praticate: l'espansione edilizia pubblica e privata 
                  e un'aziendalizzazione, in agricoltura e nei servizi, assistita 
                  e disorganica. 
                  Preziose, nel complesso, nel libro della Rizzo, sono tutte le 
                  informazioni che riguardano le vittime dell'incendio della Triangle 
                  Waist, straniere ed italiane. La Rizzo peraltro, citando tutte 
                  le fonti documentarie che riguardano l'avvenimento, denuncia 
                  i depistaggi del tempo, quando si cercò di occultare 
                  la verità, di un incendio causato dalla consapevole inosservanza 
                  delle norme di sicurezza da parte dei proprietari della fabbrica 
                  di camicie, ma segnala anche la scarsa conoscenza, attuale, 
                  di un evento che fu fatale per centinaia di persone (donne in 
                  stragrande maggioranza, ma morirono anche diciassette uomini), 
                  di cui si recuperano nomi, origini, profili. 
                  Peraltro, l'autrice del libro e l'editore si sono fatti promotori 
                  di un appello affinché venga dedicata una via, una piazza, 
                  un luogo pubblico, a futura memoria, dalle amministrazioni dei 
                  comuni in cui sono nate le donne italiane che realizzavano apprezzate 
                  e vendute “camicette bianche” e videro bruciate 
                  la loro vita e la loro gioventù in un rogo, prevenibile 
                  e quindi evitabile. 
                 Silvestro Livolsi 
                   
                 
                Donne/ 
                  Auspicando la fine del patriarcato 
                 Nella 
                  primavera di quest'anno è uscita la quinta edizione del 
                  reportage di viaggio dell'argentino Ricardo Coler Il regno 
                  delle donne, per quelli delle edizioni nottetempo (Roma, 
                  2015, pp. 192, € 14,00). Occuparmi di questo libro mi offre 
                  la possibilità di sviluppare una riflessione che credo 
                  utile. Importante non è tanto quello che io andrò 
                  a dire ma l'argomento in sé, che spero possa, su queste 
                  pagine, trovare in futuro ulteriori sviluppi. 
                  Nella provincia cinese dello Yunnan, territorio assai vasto 
                  che arriva fino ai confini col Vietnam, il Laos e la Birmania, 
                  sulle sponde del lago Lugu, in una località chiamata 
                  Loshui, si è sviluppata la più pura delle società 
                  matriarcali, quella dei Mosuo, una delle poche tuttora esistenti, 
                  che neanche l'omologazione comunista di Mao Tse-tung riuscì 
                  a sradicare. 
                  Il libro in questione documenta la quotidianità di queste 
                  genti, l'applicazione nella pratica di tutti i giorni del loro 
                  stile di vita. Durante la sua permanenza, ospite nelle case 
                  Mosuo, l'autore cerca di superare la riservatezza cinese, si 
                  interroga e pone domande, lasciando tuttavia al lettore la possibilità 
                  di usare il suo resoconto di viaggio come opportunità 
                  per pensieri che ci coinvolgono più da vicino. 
                  Infatti la riflessione che vorrei iniziare riguarda le possibilità 
                  di trasformazione del patriarcato come necessità sottesa 
                  a qualsiasi sforzo di cambiamento sociale e politico realmente 
                  efficace si voglia provare a compiere: la conditio sine qua 
                  non. 
                  Guardare come funziona una società matriarcale che, per 
                  quanto sperduta sui monti della Cina, sta in piedi e si autogoverna 
                  in maniera soddisfacente per la sua popolazione di entrambi 
                  i sessi, sta a dimostrare innanzi tutto una cosa molto semplice: 
                  il patriarcato non è l'unico modo possibile su cui instaurare 
                  gli equilibri nelle relazioni. Senza voler copiare nessuno, 
                  ritengo però stimolante guardare alle diversità 
                  come mezzo per spostare quelle forme mentali e abitudini che 
                  si ritengono intoccabili. 
                  Cercherò di raccontare qualcosa sui Mosuo per poi riprendere 
                  il filo del discorso. 
                  Questa popolazione è originaria del Tibet ed emigrò 
                  nella zona di Loshui poco prima dell'era cristiana. Base del 
                  loro sostentamento economico è il lavoro nei campi, quindi 
                  agricoltura e allevamento. Commerciano con i villaggi vicini 
                  e con la città di Lijiang, che dista dodici ore di autobus. 
                  Dato il clima molto rigido per diversi mesi qualsiasi attività 
                  produttiva viene sospesa a causa della neve. 
                  È importante sottolineare che il matriarcato non è 
                  un patriarcato al contrario, le donne non sono al comando utilizzando 
                  gli stessi sistemi degli uomini e una pratica non da poco come 
                  l'uso della violenza tra i Mosuo, ad esempio, è sostanzialmente 
                  sconosciuta. 
                  Scrive Coler: “tra i Mosuo nessuna donna ha bisogno di 
                  affrancarsi dalla sua condizione, perché sono e sono 
                  state libere da sempre. Tutto ciò che accade nella società 
                  matriarcale è frutto di una cultura in cui la dimensione 
                  femminile si impone senza restrizioni da parte dei maschi”. 
                  Il matriarcato implica la matrilinearità, cioè 
                  la trasmissione del cognome, e la matrilocalità cioè 
                  il luogo di residenza, il fatto che si vive per sempre dove 
                  risiede la madre. Questa particolarità implica sostanzialmente 
                  il fatto che le abitazioni d'origine, quando serve, si ampliano 
                  ma non si creano mai nuove case a partire da una coppia. Il 
                  matrimonio – trave portante di quante culture? – 
                  non è previsto e non se ne comprende la necessità. 
                  Quando una ragazza entra nell'età adulta avrà 
                  la sua camera all'interno della dimora materna e - se un uomo 
                  vorrà frequentarla e se verrà accettato - si sposterà 
                  nottetempo, con discrezione, rispettando consuetudini consolidate. 
                  Non sarà mai una donna ad andare in casa di un uomo. 
                  Riportando le parole dell'autore: “è difficile 
                  che una donna Mosuo pensi che il mondo finisca se il suo innamorato 
                  la lascia. Certo non le è indifferente, ma non è 
                  neppure il centro della sua vita. L'innamorato è qualcuno 
                  a cui una donna non affida mai la ragione della propria esistenza. 
                  [...] Da queste parti è possibile soltanto essere orfani 
                  di madre, per cui ci sarebbe da rimettere in discussione il 
                  complesso di Edipo così come è inteso in senso 
                  classico, per chiedersi se non sia in realtà un mito 
                  da non universalizzare. [...] La società matriarcale 
                  ci offre un diverso punto di vista dal quale valutare le possibili 
                  conseguenze della perdita di autorità da parte del maschio. 
                  [...] In questa comunità, i figli non hanno un padre 
                  con cui mettersi in competizione per la madre. La figura maschile 
                  più vicina a loro, lo zio, è collocata a un livello 
                  gerarchico inferiore e, benché assuma in qualche senso 
                  un ruolo paterno, le differenze sono considerevoli. 
                  [...] Il patriarcato non è un tratto essenziale dell'essere 
                  umano, e l'esperienza Mosuo sta a indicare che altre possibili 
                  forme di strutturazione della società non comportano 
                  la sua fine, l'assenza della legge o la disintegrazione di quella 
                  che all'interno di tale società è considerata 
                  una famiglia. Anzi, nel matriarcato l'istituzione famigliare 
                  pare più solida e vitale di quanto non lo sia in Occidente 
                  [...] senza bisogno di discorsi morali per sostenerla”. 
                  Senza rendercene conto continuiamo a credere i valori della 
                  nostra civiltà come universali e difficilmente spingiamo 
                  la riflessione fino a considerare quanto essi siano fondanti 
                  nel sostenere l'ineguaglianza e l'ingiustizia che ci circonda. 
                  È cosa buona celebrare la giornata contro la violenza 
                  sulle donne, ma se non iniziamo a cercare un modo efficace per 
                  scardinare la causa da cui quella violenza prende avvio, come 
                  per tutte le violenze, credo che non se ne verrà fuori. 
                  A partire dagli anni '70 una parte delle donne si è impegnata 
                  per comprendere se stessa e le possibilità di migliorare 
                  condizioni di vita, lavoro e relazione, tra donne e con gli 
                  uomini. In più di quarant'anni si è formata una 
                  cultura “femminista” che ha contribuito non poco 
                  nel creare crepe - cioè spazi di apertura e libertà 
                  - nel pensiero dominante di stampo maschile patriarcale. 
                  Oggi è arrivato il tempo in cui si può guardare 
                  a ritroso e riconoscere il cambiamento - epocale e tragico – 
                  che circa ottomila/diecimila anni fa vide il patriarcato sostituirsi 
                  con violenza alle precedenti culture e religiosità matriarcali 
                  femminili: da lì sono partiti antropocentrismo (centralità/superiorità 
                  dell'essere umano nella creazione) e androcentrismo (la centralità/ 
                  superiorità del maschio umano). 
                  Mi trovo d'accordo con chi afferma che - soprattutto nell'Occidente 
                  cristiano e patriarcale - il nuovo paradigma è proprio 
                  il femminismo che invita l'umanità - soprattutto nella 
                  sua componente maschile - a riscoprire la propria parzialità 
                  nel cosmo. Soltanto questa consapevolezza ci può aiutare 
                  nel vivere tutte le differenze con convivialità, incominciando 
                  proprio dall'uguaglianza tra i generi. 
                  Se vogliamo concorrere alla possibilità di una realizzazione 
                  futura di società egualitarie, basate su quelli che vengono 
                  chiamati “valori materni”, cioè a dire: pace 
                  attraverso la mediazione, non-violenza nella gestione dei conflitti 
                  e nelle relazioni, cura e nutrimento di tutto l'esistente; credo 
                  sia arrivato il tempo che i maschi facciano la loro parte. 
                  Osservare le società matriarcali ci mostra come in linea 
                  di massima queste siano orientate principalmente verso l'appagamento 
                  dei bisogni piuttosto che verso il potere da raggiungere. Quindi 
                  più realistiche, poiché consapevoli del valore 
                  materno maggiormente idoneo al benessere umano (la storia ce 
                  lo ha mostrato ampiamente) di quanto non lo sia il patriarcato, 
                  il quale tende a sopprimere il femminile in generale e le donne 
                  in particolare. 
                  Mi auguro che anche una piccola cosa come la lettura di un libro, 
                  grazie al quale si vengono a conoscere stili di vita diametralmente 
                  opposti rispetto al nostro, nei quali la serenità la 
                  fa da padrone, possa spingerci tutte e tutti, uomini in prima 
                  fila, a iniziare il lungo percorso per invertire la rotta. A 
                  onor del vero qualcosa è già iniziato, seppure 
                  in sordina, da almeno una decina d'anni. Anche se purtroppo 
                  si tratta ancora di un fenomeno marginale abbiamo a che fare 
                  con un movimento molto interessante, pieno di potenzialità 
                  e speranza che ci auguriamo dilaghi velocemente (per saperne 
                  di più vedi http://www.maschileplurale.it/). 
                 Silvia Papi 
                     Libero e non-benpensante/ 
                  Un racconto (erotico) di formazione 
                 «Pornografi 
                  - o meglio pornologi - non sono coloro che, in nome del sacrosanto 
                  diritto all'edonismo, procurano piacere a se stessi e a quanti 
                  più altri gli riesce, ma coloro che, nel cesso di un 
                  ristorante, non si degnano di alzare la ciambella di legno prima 
                  di pisciare, e la lasciano regolarmente costellata di schizzi». 
                  Lelio Luttazzi, nato a Trieste nel 1923 e morto nel 2010, è 
                  stato autore di canzoni e colonne sonore, direttore d'orchestra, 
                  conduttore radiofonico e televisivo, attore, showman. Il re 
                  dello swing italiano ere un uomo eclettico e possedeva molti 
                  doni, ma quello della scrittura è senza dubbio meno noto 
                  di altri al grande pubblico. 
                  Eppure L'erotismo di Oberdan Baciro (Einaudi, Torino, 
                  2012, pp. 176, € 17,00) è un capolavoro di umorismo 
                  senza pari, uno straordinario e tragicomico “romanzo di 
                  formazione” che riesce a spiazzare, avvincere e catturare 
                  dall'inizio all'epilogo con leggerezza e profondità. 
                  Si tratta di un romanzo postumo e autobiografico, rimasto per 
                  più di trent'anni in un cassetto e ritrovato dalla moglie 
                  Rossana dopo la scomparsa dell'autore. 
                  La storia del piccolo protagonista ricorda da vicino quella 
                  del piccolo Lelio, orfano di padre poco dopo la nascita, figlio 
                  unico di una maestra bigotta e innamorata del duce. 
                  Ma racconta anche il suo pensiero di uomo adulto, educato e 
                  libertino, autoironico e libertario, insofferente delle proibizioni 
                  della morale: “L'eros - scriveva in epigrafe – è 
                  l'unica verità universale e inestinguibile che la creazione 
                  ha elargito agli esseri viventi. Giacché è tempo 
                  di convincersi che, quanto agli altri valori ereditati dalla 
                  nostra millenaria civiltà, forse non era vero niente”. 
                  Oberdan è un giovane ma già espertissimo pipparolo, 
                  figlio unico di madre vedova, donna pia e tutta d'un pezzo; 
                  si chiama così perché la madre «irredentista, 
                  patriota, fascista e rompicoglioni» gli ha imposto il 
                  nome del triestino Guglielmo Oberdan, patriota e martire risorgimentale. 
                  Trasferitasi da Trieste a Prosecco per esercitare il suo incarico 
                  di maestra, la vedova Baciro reprime sistematicamente il figlio, 
                  che fin dall'infanzia (poco tenera, come molte infanzie dell'epoca) 
                  è prepotentemente e dolorosamente attratto dall'altro 
                  sesso e dai misteri celati sotto le pudiche gonne e camicette 
                  imposte dalla cultura clerico-fascista dell'epoca (siamo nei 
                  primi anni trenta). 
                  Malauguratamente circondato a scuola da ragazzette bruttarelle 
                  e poco appetibili, “figlie di rozzi vaccaroli sloveni”, 
                  Oberdan inizia i suoi percorsi di solitario apprendimento sognando 
                  e corteggiando maldestramente piccole bellezze asburgiche, snob 
                  e irraggiungibili. 
                  Ideali femminini che sembrano complottare contro di lui, in 
                  un continuo tira-e-molla di avvicinamenti e fughe, offerte e 
                  negazioni, un carillon di promesse mai mantenute che diventano 
                  una comica e tragica persecuzione. 
                  Così Oberdan si sceglie il proprio maestro di vita, un 
                  giovanotto di nome Fausto, in libera uscita da un ospedale psichiatrico, 
                  che davanti al cancello di casa gli riaccende ogni sera con 
                  i suoi trionfali racconti fantasie proibite, contribuendo a 
                  formare nella testa del protagonista una sorta di “filosofia 
                  erotica” puntualmente trascritta nei suoi “taccuini” 
                  e destinata a rappresentare l'ennesima frustrazione: perché 
                  se l'amore di coppia per Oberdan è difficile, quello 
                  di gruppo è un vero e proprio miraggio. 
                  A nulla varrà per il nostro antieroe trasferirsi a Trieste, 
                  scoprirsi brillante musicista, diventare l'ambito animatore 
                  delle feste del liceo, conoscere la stupenda Sarah Meyer, mondana, 
                  emancipata, figlia di una facoltosa famiglia ebrea: a mettere 
                  fine ai suoi sogni, ai suoi struggimenti e alla sua breve esistenza 
                  servirà solo - ahilui e ahinoi - la guerra. 
                  Oberdan morirà infatti a causa di un fatale lapsus, in 
                  guerra, all'età di 18 anni. 
                  Vergine. 
                  Nel racconto della formazione erotico-onanistica di Oberdan 
                  e delle sue disavventure, c'è tutta l'insofferenza di 
                  Lelio Luttazzi per le pratiche del fascismo, le pena per quegli 
                  innocenti Balilla e quelle innocenti Piccole Italiane costretti 
                  a scattare sull'attenti a scuola e fuori, per le belle cartoline 
                  rosa di chiamata alle armi; e c'è la sua “sbandata 
                  per il jazz” i cui adepti si radunavano per ascoltare 
                  i dischi di Ellington e di Armstrong «come carbonari risorgimentali». 
                  Il romanzo di Luttazzi è il ritratto di un'Italia puritana 
                  e bigotta (di facciata, s'intende) che si avvicina a piè 
                  sospinto ad una delle sue tragedie peggiori. Dalle macerie di 
                  quella guerra e dai taccuini del giovane Baciro “morto 
                  per la patria” emergeranno verità scomode, negate 
                  per decenni ancora e ancora irrisolte, anche oggi, anche nella 
                  nostra tormentata modernità. 
                  Una su tutte, tratta dai taccuini di Oberdan, datata giugno 
                  1940, anni 17, solo per mostrare quanto dietro ad erotismo spudoratezza 
                  e sbandieramento di peccati mortali si nascondano altri e profondi 
                  pensieri luttazziani. 
                  “Non pretendo di aver scoperto io, che tra la cosiddetta 
                  follia e la non follia esistono ben labili confini, 
                  né di discutere di neurologia, né di addentrarmi 
                  in dilettantesche distinzioni tra psicopatici, nevrotici ecc. 
                  Ma sono certo che nei manicomi di tutto il mondo convivono, 
                  accanto ai veri sofferenti bisognosi di cure e tra i pazzi pericolosi, 
                  chissà quanti “anormali” felicissimi del 
                  loro stato e tutt'altro che aggressivi. Fuori, costoro sarebbero 
                  semplicemente degli stravaganti, magari degli emarginati, magari 
                  degli asociali, ma certo meno mediocri di coloro che se ne sono 
                  liberati rinchiudendoli nella fossa dei serpenti. Oltre a tutto 
                  le famiglie e la società non lo hanno fatto per salvarli 
                  o per difendersene: lo hanno fatto perché li odiavano. 
                  Un odio basato sull'invidia, perché i benpensanti avvertono 
                  la superiorità dei non-benpensanti, e i non-liberi temono 
                  la libertà dei veri liberi.” 
                  Un romanzo straconsigliato a tutti gli amanti degli atti impuri, 
                  delle fiamme eterne e della cattiva morale. In altre parole, 
                  della libertà. 
                 Claudia Ceretto 
                     Cinema sociale/ 
                  Un posto nel mondo 
                Orfani del mondo, ripudiati dal loro paese, rifiutati dai nostri 
                  paesi. Raccolti in mare, mai accolti. Negletti dalla società, 
                  fuori mercato, inutili e dannosi granelli di sabbia in un meccanismo 
                  ben oliato e così imperfetto. Oppure tanto utili perché 
                  sfruttabili senza ritegno, bambini di pochi anni inclusi. Donne 
                  e uomini alla ricerca di un'identità, di un posto nel 
                  mondo, di una meta. Assicurare una vita dignitosa al corpo e 
                  alla mente, viaggiare alla ricerca del proprio cammino, di un 
                  porto per i propri figli. Occhi attoniti e increduli, a volte 
                  addirittura divertiti, di fronte alle assurdità grottesche 
                  del sistema mondo-mercato che ci siamo costruiti e che ci sta 
                  divorando. 
                  Di queste e di altre galassie si è occupata la rassegna 
                  cinematografica “Un posto nel mondo. Percorsi di cinema 
                  e documentazione sociale” giunta alla sua 14° edizione. 
                  “Attraverso un percorso articolato con film invisibili, 
                  documentari scomodi, riflessioni urgenti e piccole provocazioni 
                  nei confronti di una provincia culturalmente pigra, abbiamo 
                  cercato di comunicare la necessità di incontrare e raccontare 
                  contraddizioni, conflitti, speranze per conoscere meglio il 
                  nostro tempo e i suoi equilibri instabili, dove anche se spesso 
                  non li vogliamo vedere, crescono disagi, disuguaglianze, diritti 
                  negati, nuovi bisogni.” (Tratto dal sito www.filmstudio90.it). 
                  Di questa “provincia pigra”, che non vuole confini, 
                  fa parte anche il Canton Ticino. Il dialogo tra l'Associazione 
                  cultura popolare di Balerna (www.acpnet.org) 
                  e FilmStudio90 di Varese si sta intensificando grazie al progetto 
                  “Cittadinanze in visione”. Dopo la rassegna primaverile 
                  “Di terra e di cielo” incentrata su temi ambientali 
                  (vedi Rassegna libertaria A401), “Buongiorno Taranto”), 
                  torniamo a parlare di cinema documentaristico con “Un 
                  posto nel mondo” che propone annualmente in autunno un 
                  programma ricchissimo: nell'edizione 2015, una quarantina di 
                  film e documentari proiettati tra il 5 novembre e l'8 dicembre 
                  in diverse sale diffuse nella provincia di Varese e nell'area 
                  transfrontaliera. 
                  Le tre serate proposte a Balerna hanno lasciato immagini sconcertanti. 
                  Rivivendole e provando a raccontarle mi accorgo quanto sia importante 
                  una proposta come questa per scuoterci, rompere il guscio in 
                  cui ci rifugiamo e aprire gli occhi su un mondo che non può 
                  piacere nemmeno a chi dalle disuguaglianze trae profitto: noi 
                  tutti. Un mondo le cui aberrazioni sono vergogna e umiliazione 
                  se appena ci prendiamo il coraggio di guardarle in faccia. 
                
                   
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                    |   Gaza (Palestina) - Cantautore rap (da Striplife, Gaza 
                  in a day  | 
                   
                 
                 La risata di una donna. Partita dal Ghana è giunta 
                  in Italia dopo anni di viaggio e mille peripezie. Soccorsa vestita, 
                  nutrita, visitata da un medico si sente finalmente accolta, 
                  riceve un foglio di carta. Lo interpreta come un documento che 
                  attesta il suo statuto di rifugiata, che ne sancisce i diritti. 
                  Niente di tutto questo, le viene spiegato, si tratta di un foglio 
                  di via, che le impone un dovere, non un diritto: quello di lasciare 
                  il paese entro trenta giorni. Ride Gladys, ride di gusto e fa 
                  anche una battuta al funzionario: come devo partire, via terra 
                  o via mare? In questa risata stanno le nostre assurdità 
                  e le sue ragioni. Come nell'interrogativo che si pone Giuseppe 
                  Battiston: “Fatemi capire: con l'operazione Mare nostrum, 
                  noi soccorriamo i migranti che rischiano la vita semplicemente 
                  perché, sempre noi, non li lasciamo entrare attraverso 
                  vie più sicure? (Come il peso dell'acqua di Giuseppe 
                  Battiston, Stefano Liberti, Marco Paolini, Andrea Segre, Italia 
                  2014) 
                  I canti ritmati dei ragazzi di Gaza City. Come in ogni parte 
                  del mondo che noi conosciamo, anche a Gaza ci sono giovani che 
                  compongono e cantano pezzi rap, di nascosto da Hamas, che lo 
                  vieta in pubblico. O si cimentano in acrobazie spericolate con 
                  le loro squadre di Parkour; hanno immense costruzioni semidiroccate 
                  a disposizione, da fare invidia ai ragazzi di Milano, di Ginevra 
                  o di Lisbona. Nei sottotitoli dei loro canti leggo con stupore 
                  parole di resistenza pacifica: “Voi continuate ad uccidere, 
                  noi continuiamo a vivere”. Anche quando a distanza ravvicinata 
                  si sentono e si vedono i bombardamenti, i rapper riescono a 
                  sdrammatizzare: “Lo vedi? Scoppiano le bombe e noi ridiamo. 
                  Guarda, il fumo sta formando un cuore nel cielo”. (Striplife, 
                  Gaza in a day di Nicola Grignani, Alberto Mussolini, Luca 
                  Scaffidi, Valeria Testagrossa, Andrea Zambelli, Italia/Gaza 
                  2013) 
                  Gli occhi intelligenti di Padma. Siamo a Piduguralla (India), 
                  la città della calce. Padma nel 2002 era una ragazzina 
                  di dieci anni costretta come tanti suoi vicini e amici ad un 
                  lavoro durissimo, quello di spaccare pietre nel sole e nella 
                  polvere. Impietosi entrambi. In quell'inferno bianco, le parole 
                  e gli occhi neri, troppo seri, duri e determinati per una bambina, 
                  rivendicavano il diritto ad una vita dignitosa. A dodici anni 
                  di distanza il suo sguardo incrocia di nuovo quello del regista 
                  Adriano Zecca, che l'ha cercata e ritrovata. È uno sguardo 
                  più dolce, commosso, a tratti allegro: i suoi tre figli 
                  non sono più costretti a lavorare come fu per lei, frequentano 
                  la scuola, possono costruirsi un futuro diverso, hanno occhi 
                  curiosi. (Piduguralla, la città della calce di 
                  Adriano Zecca, Svizzera 2014). 
                  I ragazzi di Napoli di N'ata scians (di Adriano Zecca, 
                  Italia 2010). Mi si è fermato il cuore. Non soffrono 
                  la fame, anche se è verosimile pensare che escano da 
                  famiglie disastrate; si trovano in un ambiente non particolarmente 
                  malsano per il corpo, quello delle nostre città, rumorose 
                  e inquinate, ma ancora vivibili; hanno scooter, telefonini, 
                  vivono in compagnia, di espedienti, certo, ma sembrano allegri; 
                  non frequentano la scuola, cacciati o fuggiti. Che cosa mi ha 
                  intristito, che cosa mi ha turbato tanto da togliermi quel filo 
                  di speranza che gli altri documentari che raccontano vite “più 
                  dure”, oppresse, negate, sfruttate non hanno spezzato? 
                  Sembra che questi ragazzi non abbiano più sogni, che 
                  siano definitivamente spogliati della loro dignità. Definitivamente, 
                  senza speranza. Vogliono soldi, soldi facili, dicono. 
                  La sensazione è che non sappiano più cosa vogliono, 
                  che abbiano perso la capacità di sognare. Violenza e 
                  sopraffazione hanno distrutto i loro sogni. Sono l'altra faccia 
                  di Piduguralla, la faccia senza riscatto. Il documentario racconta 
                  però anche di insegnanti che partecipano ad un progetto 
                  di scuola di strada con una tenacia che ammutolisce. Progetto 
                  “Chance”, ambizioso e meraviglioso, abbandonato 
                  dalle istituzioni nel 2009 per ragioni ignote. Forse è 
                  la perseveranza, la speranza (uno di loro è un ex ragazzo 
                  di strada di questi stessi quartieri) che non riescono a rispecchiarsi 
                  negli occhi vuoti di questi ragazzi a fare male. Pensi allora 
                  ai ragazzi che cantano e piroettano tra le macerie di Gaza, 
                  che irradiano integrità, voglia di sognare, speranza 
                  invincibile. I ragazzi dei quartieri spagnoli di Napoli vagano 
                  invece tra le macerie delle loro vite: quando le macerie sono 
                  dentro di te, dove lo trovi un posto nel mondo? 
                
                   
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                    |   PiduguraIla (India) - I bambini della “Città 
                  della calce”.  (Altre immagini sono state pubblicate nel reportage  di Raùl Zecca Castel in “A” 399, giugno 2015)  | 
                   
                 
                
                  Volevo concludere qui il mio breve resoconto. L'ho riletto, 
                  rimproverandomi: volevi scrivere di una rassegna cinematografica 
                  e hai finito per metterci la tua rassegnazione. Poi ho scoperto 
                  che rimane ...una Chance, n'ata scians. Leggo dal sito www.maestridistrada.it: 
                  “Il progetto Chance nato nel 1998 aveva suscitato in centinaia 
                  di giovani la speranza di aver incontrato qualcuno che con coerenza 
                  li sostenesse. È stato chiuso nel 2009 per ignoti motivi, 
                  ma i Maestri di Strada continuano ad alimentare quella speranza. 
                  [...] Dal 2009 l'associazione Maestri di Strada si è 
                  completamente rinnovata basandosi su risorse private e sul lavoro 
                  di giovani che hanno compiuto studi nel campo delle scienze 
                  umane e sociali e giovandosi dell'apporto gratuito di cittadini 
                  che si rendono responsabili dell'educazione di giovani a rischio 
                  dispersione.” 
                  Che sollievo sapere che qualcuno sopperisce, che qualcuno continua 
                  a lottare per le cause giuste contro le ingiustizie del mondo. 
                  E noi? Non siamo tutti maestri di strada ma ognuno può 
                  trovare il suo modo per opporsi, mai rassegnarsi e resistere. 
                  Ognuno deve. 
                 Paola Pronini Medici 
                     Combattere l'inferno/ 
                  Storia degli psichiatri che sconfissero i manicomi 
                John Foot, professore di storia contemporanea a Bristol, ha 
                  da poco pubblicato per Feltinelli La “Repubblica dei 
                  Matti”. Franco Basaglia e la psichiatria radicale in Italia 
                  dal 1961 al 1978 (Milano, 2014, pp. 392, € 22,00). 
                   Nel 
                  ricostruire le vicende che portarono alla Legge 180, l'autore 
                  ricostruisce le vicende di un gruppo di giovani psichiatri italiani 
                  che riuscirono a sbaraccare i manicomi. Foot ci parla lungamente 
                  anche dei più stretti collaboratori di Basaglia, in particolare 
                  di Giovanni Jervis e Franca Ongaro. Nel volume però trovano 
                  spazio nomi spesso dimenticati, come quello di Edelweiss Cotti, 
                  che ebbero un ruolo importante nel processo di messa in crisi 
                  della psichiatria e che successivamente furono messi in ombra 
                  dalla celebrazione solo di alcune esperienze. 
                  Alla fine della seconda guerra mondiale, i manicomi emanavano 
                  odore di merda e di morte e assomigliavano ai lager. Combattere 
                  questo inferno e modernizzare il paese fu l'assillo di questi 
                  tecnici psi. 
                  Foot distingue all'interno della psichiatria critica ed evidenzia 
                  delle notevoli differenze con la tradizione inglese, rappresentata 
                  soprattutto da Maxwell Jones, Cooper e Laing; ciò lo 
                  porta alla riscoperta fra gli italiani di coloro che effettivamente 
                  possono considerarsi come rappresentanti dell'antipsichiatria 
                  (Cotti, Antonucci). Si trattava di una minoranza, perché 
                  il grosso del movimento era composto da intellettuali e medici 
                  che l'autore inglese preferisce chiamare globalmente come psichiatri 
                  radicali e che avevano come fine principale l'abolizione dell'ospedale 
                  psichiatrico e la sua sostituzioni con differenti pratiche. 
                  Si trattava, quindi, di una corrente maggioritaria propriamente 
                  definibile come anti-istituzionale. 
                  Gran parte del libro di Foot è, così, dedicata 
                  alla descrizione delle esperienze di riforma dell'ospedale psichiatrico 
                  condotte a Gorizia, Cividale, Perugia, Parma, Reggio Emilia, 
                  Arezzo e poi Trieste (si nota la mancanza del Sud d'Italia; 
                  ad es. Nocera Superiore con Sergio Piro). 
                  È chiaro che ci si trovava di fronte a due tipi di intervento: 
                  da un canto quello dei tecnici rappresentati dai goriziani e 
                  dall'altro quello dei politici che soprattutto a Perugia, Parma, 
                  Arezzo e poi anche Trieste, giocarono un ruolo centrale nel 
                  portare alla chiusura del manicomio. 
                  Nel libro si sottolinea chiaramente che le pratiche dei goriziani 
                  furono le stesse del “movimento”. La psichiatria 
                  radicale italiana rappresentò, quindi, un caso storicamente 
                  rilevante per comprendere i profondi processi di riforma istituzionale 
                  che caratterizzarono l'Italia, fino alla fine degli anni Settanta. 
                  L'uso delle “assemblee” significava la radicale 
                  messa in discussione delle gerarchie che nelle istituzioni sopravvivevano 
                  come eredità del passato regime. Con le assemblee, il 
                  direttore, gli infermieri, i pazienti erano tutti posti su un 
                  piano orizzontale da cui emergevano i processi decisionali. 
                  Le assemblee furono poi il grimaldello che tentava di scardinare 
                  le istituzioni del passato anche nella fabbrica, nell'ospedale, 
                  nella scuola e nell'università. 
                  Il volume di Foot ha, quindi, il merito di sollevare alcune 
                  questioni che oltrepassano la mera storia della psichiatria 
                  radicale, assumendo che questa sia stata uno dei territori in 
                  cui la riforma delle istituzioni, sollecitata dai movimenti 
                  degli anni Sessanta e Settanta, sia stata anche più profonda. 
                  Il quadro che ne esce lascia, tuttavia, aperte alcune questioni. 
                  In particolare occorrerebbe chiarire il diverso punto di vista 
                  epistemologico che caratterizzò i protagonisti delle 
                  vicende. Schematicamente c'era da una parte la psichiatria universitaria, 
                  legata a vecchi schemi, dall'altra giovani psichiatri portatori 
                  di idee nuove, “supportati” però da una folta 
                  “moltitudine”, non disciplinata, di operatori, composta 
                  da ex degenti, psicologi, sociologi, assistenti sociali, medici 
                  non specialisti, infermieri, politici, artisti e intellettuali. 
                  Quale era il ruolo di questa moltitudine? Quali le differenti 
                  sensibilità psi? 
                  Il passaggio della Legge 180 del 13 maggio 1978, “impose” 
                  inoltre un accordo alle differenti e litigiose anime del movimento 
                  anche per sfuggire al referendum radicale che dal punto di vista 
                  dei tecnici e dei politici avrebbe potuto creare un indesiderato 
                  vuoto legislativo. Il 16 Aprile era stato, per giunta, sequestrato 
                  Aldo Moro e il 9 Maggio ne era stato ritrovato il corpo. Si 
                  trattò, dunque, di una legge emergenziale che come nota 
                  Foot ebbe vita breve. Essa infatti fu abolita per essere quasi 
                  totalmente implementata nella Legge di globale riforma del Sistema 
                  Sanitario Nazionale (n. 833 del dicembre 1978). 
                  Tale passaggio veloce se da un canto permise una delle poche 
                  riforme radicali repubblicane, dall'altro presentava dei limiti. 
                  Foot nota che già Basaglia aveva capito che in realtà 
                  alcune parti contenute nella legge, come l'istituzione del Trattamento 
                  Sanitario Obbligatorio, reintroducevano un potere sul malato 
                  e avrebbero potuto essere sicuramente scritte con una sensibilità 
                  maggiormente libertaria. 
                  Il libro, dunque, ha il pregio di non essere celebrativo e di 
                  ricostruire la storia delle origini del movimento psichiatrico 
                  radicale italiano nelle sue complesse conseguenze. 
                 Renato Foschi 
                     Nordest, Occidente e altre allucinazioni/ 
                  Prima (e terza?) guerra mondiale 
                «Come è governato il mondo e come cominciano le 
                  guerre? I diplomatici raccontano bugie ai giornalisti e poi 
                  credono a ciò che leggono». Avevo scelto questa 
                  frase di Karl Kraus - poi lo ritroveremo, con un altro aforisma 
                  - per iniziare un ragionamento su Cent'anni a Nordest 
                  di Wu Ming 1 (Rizzoli, Milano, 2015, pp. 274, € 17,00) 
                  uscito a giugno – sottotitolo «Viaggio tra i fantasmi 
                  della guera granda» - e dedicato ad Antonio Caronia. 
                  È un reportage narrativo? Un saggio storico ben scritto? 
                  Non so a voi, a me non importa imbarattolarlo, lo consiglio 
                  senza etichette. 
                   Proprio 
                  mentre rileggevo il libro, sul mio computer ha fatto irruzione 
                  la seconda strage (bisognerà numerarle?) di Parigi. Dunque 
                  mi ritrovo a scrivere di questo libro - importante, anche per 
                  la sua capacità di connettersi all'oggi - con un'accresciuta 
                  sensazione di catastrofe sulla schiena. Con le bugie dei “diplomatici” 
                  che in queste ore dilagano: a coprire certe guerre, altre a 
                  gonfiarne e nuove a prepararne. E con il direttore di Repubblica 
                  a suggerirci la linea: siamo tutti occidentali, cioè 
                  buoni. Io come Salvini e la ministra Pinotti. Sottinteso: gli 
                  altri sono non occidentali. L'Isis come Vandana Shiva, suppongo. 
                  Com'è semplice il mondo. Ha invece ragione Wu Ming 1 
                  a scrivere: «Dobbiamo fare i conti con questi intrichi 
                  di identità, con le nostre memorie selettive, con matasse 
                  piene di nodi». Lui parla del Nordest ma questa complessità 
                  è quasi ovunque. 
                  «A Nordest il passato si confonde con il presente, tra 
                  memorie rimosse ed eredità inconfessate. Così 
                  ho deciso di studiare, intervistare, mappare, scrivere». 
                  Nordest cioè i luoghi della «guera granda, 
                  nelle parlate venete». 
                  Facciamo un giro con Wu Ming 1. Lì c'è il fiume 
                  della retorica: «la Piave» ribattezzato maschio 
                  perché gli eroi – si sa – non possono essere 
                  femmine. Ecco là Gorizia, «tu sei maledetta». 
                  I grandi cimiteri nazionalisti e fascisti. Il Carso «che 
                  in tedesco si chiama Karst, in sloveno Kras». Ronchi che 
                  usa il suffisso «dei Legionari» ma qualcuno vorrebbe 
                  ribattezzare «dei partigiani». Caporetto, «o 
                  meglio Kobarid». Trento e Trieste, sempre citate insieme 
                  pur se lontane e poco somiglianti: «si fa presto a dire 
                  Nordest» però quelle tre regioni sono diversissime 
                  fra loro. Bolzano «che non era “irredenta” 
                  né italiana, ma già che ci siamo prendiamola»... 
                  Il passato ci parla delle infamie di Cadorna, di Andrea Graziani, 
                  del Duca d'Aosta; di fucilazioni sommarie a Villesse, Cervicento 
                  e via, un lungo e terribile elenco. Ma racconta anche di renitenti 
                  e antimilitaristi. Il presente ha buona memoria quando erige 
                  il «monumento al disertore di tutte le guerre» (a 
                  Rovereto). O quando ripropone storie censurate: a esempio l'attore 
                  e regista Alessandro Anderloni o il drammaturgo Massimiliano 
                  Speziani. E Cent'anni a Nordest ci riconnette al presente: 
                  «Perché diserzione e disobbedienza non sono “acqua 
                  passata sotto i ponti” ma domande poste al presente, a 
                  chi vuole fare la guerra oggi». 
                  Nel Nordest, dall'intreccio di ricchezza e ignoranza – 
                  così cantavano i Pitura Freska – nascono i Pietro 
                  Maso. E il leghismo-razzismo, con le spinte secessioniste (in 
                  parte vere, in parte altamente alcoliche). Qui adesso c'è 
                  anche molto assurdo. La rivendicazione di un Putin dalle origini 
                  venete, per dirne una. Se la desinenza “in” è 
                  «tipicamente veneta», tagliamo corto: «Vero. 
                  Lenin era di Montebelluna, Rasputin di Monselice, Gagarin di 
                  San Donà di Piave». Nel Trentino e Alto Adige «c'è 
                  un Welfare che altrove te lo sogni» ma allora perché 
                  «ci si ammazza più che altrove?». La pianura 
                  veneta è «divorata dalla psoriasi del mattone e 
                  del cemento». In meno di 40 anni «questa terra è 
                  passata dalla miseria [...] a una ricchezza perseguita con pochi 
                  freni» scrive Wu Ming 1. «Suolo e sangue. Blot 
                  und Boden»: da queste parti, più che altrove, 
                  torna a risuonare l'antico, terribile binomio e l'autore commenta 
                  - citando Karl Kraus (rieccolo) - «l'unione di sangue 
                  e terra provoca il tetano». L'oggi è fortemente 
                  connesso al passato. «Non parleremmo di “Nordest” 
                  senza la Prima guerra mondiale. Il Nordest è il prodotto 
                  di quella guerra che operò una cesura irreversibile. 
                  [...] Il Nordest è figlio della guera granda in 
                  ogni suo aspetto a cominciare dal paesaggio». 
                  Cent'anni a Nordest si muove anche fra indipendentismi, 
                  austronostalgie, «mitologie tossiche» (e perlopiù 
                  inventate). Spesso, nelle pieghe del passato inventato, affiora 
                  anche qualche complicata verità: a esempio, «con 
                  l'annessione all'Italia, Trieste non sembra aver fatto un buon 
                  affare». Altra complicazione: «la nostalgia per 
                  gli Asburgo può nasconderne una più lercia: quella 
                  per le SS». E c'è oggi chi rivendica quei “bei 
                  tempi”. 
                  I nodi «vanno sciolti con pazienza, uno a uno». 
                  Chissà se «il centenario della Grande guerra, coi 
                  suoi 4 anni di ricorrenza» potrebbe far nascere ragionamento 
                  collettivo, almeno in una minoranza. In ogni caso la frase finale 
                  - «Bentornati, fantasmi della diserzione» – 
                  è sempre buona, oggi più di ieri. 
                 Daniele Barbieri 
                     Pablo Echaurren e l'arte contro/ 
                  “Make art not Money” 
                Pablo Echaurren, pittore, grafico, fumettista, creatore di 
                  oggetti, ceramiche, saggi sull'arte e autore di romanzi e graphic 
                  novels, impegnato da sempre nel sociale, ex-settantasettino 
                  e libertario Pablo Echaurren si ritiene soprattutto collezionista 
                  di documenti sul Futurismo di cui ha la più importante 
                  raccolta al mondo. Voleva fare il bassista o forse l'entomologo, 
                  ma gli è toccato di essere artista, tant'è... 
                  Echaurren ha collaborato saltuariamente con l'editoria anarchica 
                  ed ha anche recentemente realizzato due manifesti pubblicitari 
                  per le Cucine del Popolo di Massenzatico. Questa intervista 
                  l'abbiamo realizzata il 20 novembre in occasione della vernice 
                  della mostra Pablo Echaurren, contropittura alla Galleria 
                  Nazionale d'Arte Moderna (GNAM) di Roma che resterà aperta 
                  sino al 3 aprile 2016. 
                  Bellissimo e completo il catalogo dell'esposizione con due omaggi 
                  nella prefazione da parte dei suoi due mentori, un'introduzione 
                  di Arturo Schwarz, suo scopritore e primo gallerista e una “lettera 
                  a Pablo” di Gianfranco Baruchello, il grande artista anarchico, 
                  suo primo maestro. Chiude il catalogo un esauriente saggio biografico 
                  della moglie, Claudia Salaris. 
                  In armonia con l'impronta sovversiva dell'arte di Pablo è 
                  l'intervistato che inizia col far domande all'intervistatore... 
                 Franco Bunuga 
                
                 Pablo Echaurren: Ma Le Cucine del Popolo le fanno ancora 
                  lì a Reggio Emilia, si?  
                  Franco Bunuga: Oh, si, a Massenzatico, dove la rivoluzione 
                  se verrà “sarà un pranzo di gala”, 
                  come recita un recente manifesto di una cena collettiva. 
                  Pablo: Per loro ho realizzato due manifesti. Mi ero fatto 
                  tentare dalla promessa di Ferrari che le organizza di retribuirmi 
                  con un po' di parmigiano di vacca rosso. Ma poi non me l'ha 
                  dato, sto ancora aspettando. 
                   
                  Tu hai pubblicato nel 2013 per le edizioni dell'Arengario 
                  di Gussago Il mio '77, una tua riflessione su quegli 
                  anni corredata da molte immagini e documenti che ritrovo esposti 
                  in questa mostra. In quel testo dicevi: “Rispetto a ogni 
                  altra precedente avanguardia (se è vero che fummo “avanguardia 
                  di massa” come disse Calvesi) noi non ci siamo posti alcun 
                  intento a lunga gittata, non pensavamo certo di produrre “opere” 
                  [...] volevamo [...] essere contro, senza “dover essere” 
                  schierati con questa o quella frazione di fazione”. Questo 
                  concetto mi sembra molto importante, un momento di passaggio 
                  fondamentale nel dibattito sulla funzione dell'arte così 
                  come si veniva definendo alla fine degli anni '70. 
                  Soprattutto in questo anno particolare che fu il '77. Molte 
                  menti erano state costrette ad adeguarsi alle risoluzioni delle 
                  organizzazioni politiche e quell'anno invece segnò il 
                  momento dell'esplosione in cui tutti decisero di emanciparsi 
                  da quella tutela. In quell'anno c'è stata la vera possibilità 
                  -è durata una frazione di secondo perché poi il 
                  piombo ha messo a tacere tutto- di riacquistare una totale autonomia, 
                  non intendo un'autonomia operaia come si proclamava allora 
                  ma un'autonomia da tutto e anche addirittura la facoltà 
                  di poter creare una deriva creativa. Fino a quel momento la 
                  creatività era considerata un accessorio, invece in questo 
                  momento tanti ragazzi si mettono a fare giornaletti autoprodotti 
                  come il nostro “Oask?!” e tanti altri. Il '77 è 
                  stato sì l'anno del piombo ma anche l'unico anno in cui 
                  è sembrata realizzabile l'ipotesi di un'arte davvero 
                  diffusa che sgombrasse una volta per tutte la voglia di essere 
                  “artisti” professionisti. 
                   
                  Ormai si stanno storicizzando quegli anni. Noi quando 
                  eravamo dentro al Movimento certamente non avevamo l'esigenza 
                  di lasciare tracce, non ci rendevamo conto del momento unico 
                  che stavamo vivendo, eravamo contro ogni forma di storicizzazione, 
                  non firmavamo neanche articoli disegni o manifesti, non prendevamo 
                  posizioni definite, tutto era collettivo, nulla apparteneva 
                  a nessuno e tutto era di tutti. 
                  Tutte queste riviste, disegni o documenti che sono esposti in 
                  questa sala, tutti o in gran parte mi sono stati restituiti 
                  a distanza di tempo. Si lasciavano le proprie produzioni a disposizione 
                  di tutti, chi voleva se le prendeva senza pensare a che fine 
                  avrebbero fatto, a quanto potessero valere o come sfruttarle.
                 
                   
                     | 
                   
                   
                    |   Pablo Echaurren, Market, acrilico su tela, 160x235 
                  cm  | 
                   
                 
                 A proposito di oggetti ritrovati o restituiti dal caso, 
                  ricordo che sul tuo blog una volta citavi il fatto che qualcuno 
                  aveva trovato dei tuoi quadri accanto a un cassonetto, mi sembra 
                  a Milano, e ti aveva contattato esprimendo la sua felicità 
                  per quel inaspettato dono del caso criticando chi aveva gettato 
                  le tue opere senza conoscerne il valore, anche materiale. La 
                  tua risposta mi era piaciuta molto, non ti eri irritato affatto, 
                  avevi ironizzato in modo giocoso sull'opera e sul suo presunto 
                  valore. Make Art not Money, il titolo di una sezione 
                  della mostra potrebbe essere anche una delle tue regole di vita. 
                   
                  Penso che l'arte non sia un fine, quindi qualcosa da contemplare, 
                  ma sia un mezzo ed anche uno strumento, come un paio di occhiali, 
                  tu li inforchi e se ne hai bisogno cerchi di chiarificare la 
                  tua vista, non è detto che ci si riesca, una lente può 
                  essere sfasata non adatta o fuori fuoco. L'arte non deve essere 
                  altro che questo, un modo per dire quello che si pensa della 
                  realtà, se si ha qualcosa da dire. E poi se ciò 
                  che fai funziona anche per altri, cioè se gli altri guardando 
                  le tue opere e ci trovano qualcosa che riconoscono come proprio, 
                  allora forse resterà qualcosa. Ma poi forse sai, questo 
                  fatto del durare nel tempo è molto aleatorio, la percezione 
                  di quello che è stato il percorso dell'arte si capovolge 
                  continuamente. Fino ai primi del Novecento ad esempio nessuno 
                  si interessava più a Caravaggio, la sua era considerata 
                  una pittura fastidiosa. 
                   
                  Ho letto la tua Controstoria dell'arte, la tua 
                  è più contropittura o pittura contro come direbbero 
                  i settantasettini che amavano il ribaltamento o i due termini 
                  si equivalgono? 
                  Io sostengo che la pittura non debba essere qualcosa di statico, 
                  né una cosa separata dal resto delle altre espressioni 
                  creative, quindi il fumetto, l'illustrazione, la ceramica, la 
                  pittura, la scultura o il cinema. Penso che sia tutto un grande 
                  blob: io a volte mi firmo Pablob. Cerco di inglobare tutto, 
                  cosa che facciamo tutti, nessuno si deve necessariamente – 
                  a meno che non sia uno scienziato – specializzare. Anche 
                  uno scienziato forse è meglio che non si specializzi, 
                  molti problemi derivano da un eccesso di specializzazione. Nel 
                  mondo dell'arte si tende molto a dividere e tenere separati 
                  i campi, ma la cosa accade non solo nel mondo dell'arte, quando 
                  io facevo fumetto in realtà non ero accettato neppure 
                  tra i fumettisti. 
                   
                  Questa esposizione testimonia soprattutto la tua produzione 
                  pittorica, ti sei espresso in molti campi della pratica artistica, 
                  forse meno in opere concettuali o installazioni, anche se hai 
                  sperimentato molte tecniche e materiali. 
                  Ho sempre seguito fedelmente la lezione di Marcel Duchamp, che 
                  detestava il quadro tradizionale, quello che lui definiva “le 
                  ebbrezze all'acquaragia”. Non ho mai vissuto come pittura 
                  la mia produzione di “quadratini” che sono all'inizio 
                  come delle pagine di un diario di un'enciclopedia individuale, 
                  non certo quadri da parete, tanto che sono realizzati con colori 
                  che stanno svanendo. Al piano di sopra troverai anche dei quadretti 
                  fatti strofinando foglie e fiori di piante unite alle ombre 
                  delle stesse piante, quindi cose essenzialmente mentali, quasi 
                  non li vedi perché non c'è niente da vedere, ma 
                  da percepire... No, io in realtà non sono mai stato pittore, 
                  io sono molto superficiale, non conosco tecniche, non le ho 
                  mai approfondite: me ne servo come strumento per dire qualcosa. 
                  Ma poi alla fine tutta la pittura è concettuale. Chi 
                  è più concettuale di Canova o di Raffaello?... 
                  Quelli che si autodefiniscono concettuali lo fanno perché 
                  hanno bisogno di affermare di avere un qualche concetto in testa, 
                  che altrimenti non si percepirebbe neanche. [...] 
                   
                  [...] Tu dici in un'intervista che l'arte oggi è 
                  ormai solo appannaggio di una visione monetaristica e che siamo 
                  ormai tutti devoti al “Corpus Christie's” e al “Corpus 
                  Sotheby's”. 
                  Siamo in un'epoca in cui il denaro prevale su tutto tanto che 
                  a questo punto il valore di un'opera è determinato dal 
                  prezzo e non il contrario come dovrebbe essere. [...] 
                   
                  Qual è oggi la possibile via di uscita per non 
                  diventare come dici in un tuo scritto transatlantico o piccola 
                  barchetta o naufrago costretto a galleggiare in questo mare 
                  del mercato in cui conta solo il denaro? 
                  Non riesco a vivere in un mondo a compartimenti stagni quindi 
                  non riesco a pensare a una tavolata di soli artisti come non 
                  posso pensare a una tavolata di entomologi, anche se almeno 
                  questi hanno delle cose concrete da dirsi. Gli artisti pensano 
                  sempre solo a come fare più soldi, in quale modo migliorare 
                  la propria carriera o a trovare strategie vincenti. Il mondo 
                  dell'arte se si chiude su se stesso diventa un luogo simile 
                  a quei comprensori abitativi statunitensi fatti di case, campi 
                  da golf, ristoranti, dove si va da pensionati agiati per passare 
                  la vecchiaia in tranquillità e poi morire. Ci sono solo 
                  anziani che frequentano anziani. Ma la vita è fatta di 
                  varietà, differenze, stimoli provenienti dalle difformità. 
                   
                  Cosa ti piace qualcosa di oggi, qualche artista o movimento? 
                  Al piano di sopra c'è un video che abbiamo realizzato 
                  a Roma assieme a Giorgio de Finis che è un antropologo 
                  culturale che ha messo su una specie di museo che si chiama 
                  MAAM, museo dell'altro e dell'altrove ed è situato in 
                  una fabbrica occupata sulla via Prenestina che è diventata 
                  luogo collettivo di eventi, dove si radunano persone che a cielo 
                  aperto producono ogni genere di attività. Una barriera 
                  corallina fatta di sovrapposizione di opere e graffiti. 
                  Franco Bunuga 
                     Mangiare e bere/ 
                  Il gusto ribelle per la vita 
                Reale tragedia dell'uomo  
                  è la demonizzazione del piacere.  
                  Marguerite Yourcenar 
                  
                 Cucina sfrontata, impudente, ribelle alle convenzioni del 
                  gusto. Le cuoche ribelli (DeriveApprodi, Roma, 2013, 
                  pp. 512, € 20,00), offre un punto di vista interessante 
                  sul tema dell'alimentazione, specie in un periodo storico come 
                  il nostro, in cui il cibo è merce-spazzatura per servi 
                  o vacua e scintillante rappresentazione di status symbol. Una 
                  ribellione che affonda le sue radici nella cultura materiale, 
                  nella convinzione che non esista libertà che non contempli 
                  quella dei sensi. E che – cosa più importante – 
                  non esista possibilità di piacere senza libertà. 
                   In 
                  netta contrapposizione con la contemporanea tendenza all'innovazione 
                  culinaria fine a se stessa che, nella maggior parte dei casi, 
                  si risolve in una minimale quanto asettica rappresentazione 
                  di sapori, un effimero tentativo di saziare la noia insaziabile 
                  di pochi eletti consumatori. 
                  Tre diari anonimi redatti rispettivamente da una prostituta 
                  parigina negli anni venti del secolo scorso (La cucina impudica: 
                  ricette segrete di una donna di mondo rivelate a chi intenda 
                  diventarlo), da una militante anarchica duramente la guerra 
                  civile spagnola (La cucina spagnola ai tempi della guerra civile. 
                  Ricette e ricordi), da una spartachista tedesca ai tempi della 
                  repubblica di Weimar (Storia di una cellula spartachista al 
                  Bauhaus di Weimar. Con un ricettario di cucina tedesca). 
                  Negli scritti le tre donne affiancano aneddoti personali, ricordi, 
                  incontri e racconti di azioni politiche a ricette, complete 
                  di elenchi di ingredienti e metodi di cottura, condimento e 
                  guarnizione. Ogni ricetta “con innumerabili allacciamenti, 
                  sorprendenti ribalte e pruriginose seduzioni, ti riporta alle 
                  tante (grazziaddeo) piccole morti della cognizione della qualità 
                  e del gusto, alla cultura ribelle e immoralista”. 
                  Un vero e proprio ricettario del Novecento europeo, declinato 
                  nelle specifiche tradizioni nazionali delle tre cuoche, inneggiante 
                  al desiderio di vita, alla passione e alla creatività 
                  a dispetto delle tragedie, dei totalitarismi, della paura che 
                  fanno da cornice ai diari. 
                  Dai piatti ammalianti della parigina, utilizzati alla stregua 
                  di vere e proprie armi di seduzione, agli slanci passionali 
                  della spagnola, spesso capace di invenzioni sorprendenti a partire 
                  da un'estrema povertà di materie prime. Per giungere 
                  alle creazioni tipicamente nordiche della “cuoca rossa”, 
                  che attraverso i suoi piatti vuole contribuire al germogliare 
                  di nuove idee di giustizia sociale. 
                  Frittelle impastate di lacrime prima della partenza per una 
                  pericolosa azione di sabotaggio, languide omelette per sedurre 
                  un amante ritroso, zuppe calde per curare i feriti, budini per 
                  calmare gli animi durante un'assemblea, torte di frutta per 
                  lenire la malinconia. Il cibo intriso di vita e di passione, 
                  “anarchia cucina e vini come il sangue”. 
                  Ricette peraltro riproducibili piuttosto agevolmente (parola 
                  mia), anche grazie alle note del curatore - a sua volta anonimo 
                  - che interviene per adattare le ricette e i tempi di cottura 
                  adeguandoli alle nuove apparecchiature di cucina. 
                  Non potevano mancare le prefazioni di Luigi Veronelli, enogastronomo 
                  anarchico per il quale buon cibo e buon bere – in considerazione 
                  delle dinamiche culturali ed economiche che sottendono – 
                  sono un modo per contrastare il degrado sociale e la massificazione 
                  della sensibilità conseguente alla globalizzazione. “Le 
                  cuoche ribelli” può in questo senso rappresentare 
                  un buon esercizio, un allenamento alla sensibilità dei 
                  sensi che già di per se è atto di ribellione. 
                  Scrive Veronelli rivolgendosi idealmente ad Hannah, la “cuoca 
                  rossa”: “la vita è fondata sulle passioni 
                  che abbiamo vissuto e che viviamo. Più sintetico: so 
                  che i gesti con cui i boccioli si schiudono al mattino evidenziano 
                  – unica cosa – l'affermazione della vita e della 
                  morte”. 
                 Marta Becco 
                     Anarchici italiani/ 
                  All'attenzione della polizia 
                 Il 
                  nuovo volume di Giorgio Sacchetti Carte di Gabinetto. Gli 
                  anarchici italiani nelle fonti di polizia (1921-1991), (La 
                  Fiaccola, Noto, 2015, pp. 300, € 20,00) - che, vale sottolinearlo 
                  per porre in luce un percorso di studio costante da parte dell'Autore, 
                  si colloca in stretta continuità con la prima edizione 
                  che si fermava al 1966 - è un testo che, pur non volendo 
                  essere una storia (o una delle possibili storie) dell'anarchismo 
                  italiano nel '900, si iscrive in una prospettiva di ricostruzione 
                  certo tradizionale, come sono le carte di polizia, ancora portatrice 
                  di interessanti risultati sia dal punto di vista della ricerca 
                  in senso stretto, sia delle prospettive che un simile approccio 
                  offre a successivi interventi di studio e di interpretazione. 
                  Se infatti è chiaro come la lettura delle fonti istituzionali 
                  e di controllo rispetto a un movimento così particolare 
                  come quello anarchico, possiede la criticità di fondo 
                  di essere parziale e potenzialmente distorsiva della realtà 
                  (così come è ben chiaro nell'impostazione del 
                  volume), è altrettanto vero che in questa miriade di 
                  informazioni, veline e segnalazioni relative al “pericolo” 
                  rappresentato dal mondo anarchico e libertario (non sempre ben 
                  chiaro agli estensori dei rapporti e delle comunicazioni, e 
                  sovradimensionato dagli stessi nei suoi aspetti quantitativi 
                  rispetto alla realtà del movimento soprattutto nella 
                  seconda parte del '900), Sacchetti riesce – muovendosi 
                  con esperienza, ma soprattutto con le accortezze e la sensibilità 
                  dello storico – a fornire una serie di spunti e altrettante 
                  strade per identificare tracce e mappe dell'anarchismo italiano. 
                  Lo spoglio sistematico delle carte d'archivio, il loro posizionamento 
                  nel contesto della storia italiana e del movimento, non rappresentano 
                  quindi solo un faticoso, affascinante e ben condotto lavoro 
                  di ricerca sul campo, ma anche una base importante per individuare 
                  chi sono gli anarchici, ma anche dove e attraverso cosa il movimento 
                  riesce ad esprimersi. I risultati cui giunge Sacchetti sono 
                  quindi non solo positivi per l'arricchimento che offre del quadro 
                  generale della storia dell'anarchismo italiano in particolare 
                  per il secondo dopoguerra, ma anche molto interessanti sia per 
                  le possibilità di ricerca che apre, sia per gli spunti 
                  di interpretazione e riflessione che emergono lungo la lettura 
                  del suo lavoro, e che ci offre. 
                  Dagli Arditi del Popolo agli anni '90 del XX secolo emergono 
                  così non solo i molteplici e continui interessi delle 
                  istituzioni nei confronti degli anarchici (“attenzionati” 
                  – si direbbe oggi – in modo particolare e con tutti 
                  i mezzi a disposizione, con costanza e con estrema dovizia di 
                  informazioni alcune molto specifiche e precise, altre del tutto 
                  illogiche o infondate), ma anche tutta una serie di spunti che 
                  consentono di seguire strade e percorsi, individuali e collettivi 
                  al tempo stesso, in grado di raccogliere le diverse generazioni 
                  di militanti, talvolta contrapposte nei modi di intendere la 
                  teoria e la pratica dell'anarchismo, e le diverse espressioni 
                  assunte dal movimento e che lo hanno caratterizzato: dal sindacalismo 
                  al problema dell'organizzazione; dal controllo poliziesco agli 
                  sforzi di collegamento a livello nazionale e internazionale; 
                  dalla lotta contro ogni forma di fascismo all'opposizione al 
                  comunismo ed agli imperialismi; dall'antimilitarismo all'obiezione 
                  di coscienza; dalla propaganda orale agli sforzi per sostenere 
                  la propria stampa. 
                  Il volume inizia dalla sconfitta di fronte al fascismo, segnalando 
                  la partecipazione anarchica alle prime forme di Resistenza armata 
                  contro la violenza fascista. È questa forse la storia 
                  più conosciuta ma che nell'impostazione che ci offre 
                  Sacchetti, collocandola nel lungo periodo e nelle fonti istituzionali, 
                  permette ancora di essere studiata e approfondita proprio attraverso 
                  la continuità degli insediamenti libertari in Italia. 
                  La seconda e la terza parte del volume sono dedicate agli anni 
                  che vanno dall'immediato secondo dopoguerra alla metà 
                  degli anni Sessanta, considerati giustamente uno snodo cruciale 
                  nella storia degli anarchici, registrabile in modo puntuale 
                  attraverso le carte istituzionali e di polizia, ed al periodo 
                  che ci accompagna agli anni Novanta. È in queste due 
                  parti che – complessivamente – si esprime appieno 
                  il senso dello studio e la sua continuità rispetto alle 
                  pagine iniziali del volume. Pagine che descrivono, sotto molti 
                  punti di vista, la ricerca di una risposta a cosa abbia effettivamente 
                  rappresentato il movimento agli occhi dello Stato negli della 
                  ricostruzione e dell'affermarsi della Repubblica dei partiti, 
                  negli scenari della guerra fredda ma anche della strategia della 
                  tensione e del terrorismo. 
                  Uno fra i molti elementi di interesse del volume è rappresentato 
                  dal disegno che offre di una geografia del movimento, considerato 
                  lungo un arco di tempo molto lungo, in grado di confermare in 
                  modo puntuale la continuità dello stesso nelle aree a 
                  più tradizionale diffusione, ma consentendoci - in più 
                  - di identificare sia il suo modificarsi (soprattutto dagli 
                  anni Cinquanta in poi), sia l'individuazione di nuove zone di 
                  penetrazione territoriale o sociale. Ci troviamo così 
                  di fronte ad una descrizione dettagliata dell'anarchismo lungo 
                  la penisola che – pur nel contesto delle fonti di polizia 
                  - offre uno spaccato delle sue tante articolazioni territoriali 
                  e dei tanti temi di lotta, che l'autore pone in parallelo con 
                  i passaggi più importanti vissuti in quegli anni dal 
                  movimento (congressi, convegni, scissioni, nuove sigle, strumentalizzazioni 
                  e controlli serrati). 
                  Un secondo aspetto è lo spazio dedicato agli anni della 
                  Repubblica ed in particolare al periodo dagli anni '60 in poi, 
                  considerati come uno spartiacque generazionale. Il dispiegarsi 
                  del nuovo protagonismo giovanile, trova un movimento in difficoltà, 
                  che non coglie fino in fondo e non è pronto alla ripresa 
                  di quei temi libertari che sempre più spesso sembrano 
                  emergere dalla contestazione e dai giovani che, a loro volta, 
                  guardano all'anarchismo. Una ripresa di attività lungo 
                  parole d'ordine e nel solco di temi tradizionali che sembrano 
                  – nella lettura di Sacchetti – congiungere la vecchie 
                  e nuove generazioni, entrambe poste di fronte all'esplodere 
                  della strategia della tensione e all'avvio della destabilizzazione 
                  stabilizzante, con tutto ciò che Piazza Fontana, Pinelli 
                  e gli avvenimenti successivi hanno rappresentato per il movimento 
                  e per quella storia della Repubblica, all'interno della quale 
                  strumentalizzazioni e stereotipi (evidenti nelle carte utilizzate 
                  dall'autore) si rincorrono nel disegnare ciò che si vuole 
                  far apparire, e che ancora oggi – sotto tanti punti di 
                  vista – aspetta di essere chiarito. 
                  Un terzo punto è il tentativo che Sacchetti compie nel 
                  cercare di individuare nuovi terreni di azione che gli anarchici 
                  sembrano percorrere. Su questo aspetto – peraltro centrale 
                  nel più recente dibattito sull'anarchismo italiano a 
                  partire soprattutto dagli anni dei movimenti in poi – 
                  c'è ancora molto da fare, partendo dalla riflessione 
                  se possa effettivamente parlarsi di nuovi territori dell'anarchismo; 
                  certo il manifestarsi in quegli anni di pratiche libertarie 
                  diffuse è di per sé sintomo di un forte interesse 
                  delle nuove generazioni verso i concetti propri dell'anarchismo, 
                  integrati con temi talvolta solo tangenzialmente toccati dal 
                  movimento. Un rinnovamento quindi, ma da ricercare e inquadrare 
                  all'interno di un percorso non sempre riconducibile ad una autonoma 
                  capacità propositiva degli anarchici, tuttavia capace 
                  di coinvolgerli almeno parzialmente. Ci veniamo così 
                  a trovare di fronte, nello stesso tempo, ad una dimensione libertaria 
                  del '68, ma - come giustamente sottolinea Sacchetti - “culturalmente 
                  etero prodotta rispetto all'anarchismo tradizionale”. 
                  Un cenno infine non si può non fare a quello che sembra 
                  essere, nel volume, un tracciato di fondo lungo il quale sembra 
                  muoversi l'anarchismo italiano. Mi riferisco al progressivo 
                  trasversalismo verso altre espressioni ed esperienze politiche 
                  e sociali coeve, che appare lungo il volume, e che – nel 
                  bene o nel male – nel corso dei decenni coinvolge gli 
                  anarchici, interagendo con le radici tradizionali del movimento. 
                  Un trasversalismo che sembra tendere così a modificare 
                  il quadro tradizionale di riferimento, per come questo si era 
                  definito nell'immediato primo dopoguerra e poi di fatto recuperato 
                  nel secondo, con in mezzo il fascismo, la cesura spagnola e 
                  la guerra. È anche questo un tema “aperto”, 
                  da approfondire, inquadrandolo per quello che - storicamente 
                  – ha rappresentato nel movimento, e nel suo frequente 
                  rincorrere un rinnovamento ed una attualizzazione in grado di 
                  rilanciarlo senza perdere le radici. 
                 Pasquale Iuso 
                     Parkinson/ 
                  Non compassione, ma aiuto per l'autonomia(possibile) 
                la malattia aiuta ad ascoltare 
                  i rumori della vita 
                  
                 Eppure non ti avevo invitato (di Maurizia Catozzi, 
                  qp Edizioni, 2015, pp.104, € 12,90) vuole essere testimonianza 
                  di un'esperienza in cui il limite della malattia diventa opportunità, 
                  rivelazione di doti profonde inaspettate, occasione per frugare 
                  nel proprio vissuto e scovare pieghe umettate da un balsamo 
                  lenitivo dalla grande forza resiliente. Maurizia Catozzi, classe 
                  1954, conosce prima dei sessant'anni il morbo di Parkinson. 
                  Da lei definito con ironia e distacco Mr. P, l'ospite indesiderato, 
                  invadente e subdolo si impone come invitato e suo compagno di 
                  viaggio occupandosi delle più piccole azioni quotidiane, 
                  per ostacolarle. 
                   Conoscere 
                  l'approfittatore sconosciuto è la prima mossa per avversarne 
                  l'operato. Così, come in una partita a scacchi giocata 
                  in difesa, da dilettante, Maurizia può studiare con precisione 
                  ogni contromossa. Allo sconforto per non riuscire allacciarsi 
                  un bottone della camicia o la stringa delle scarpe, impugnare 
                  una penna, un pennello, parlare, camminare, oppure all'umiliazione 
                  per la lotta quotidiana contro le barriere di un'architettura 
                  ancora troppo distratta - l'assenza di corrimano lungo le scalinate, 
                  salire su un autobus o un treno - reagisce con la forza della 
                  volontà e la perseveranza nello sforzo. 
                  Risponde alla condanna di Mr. P circondandosi di complicità. 
                  La scrittura, per dare forza alle parole delle sue poesie, con 
                  il segno della penna impresso a fatica su fogli a righe alte 
                  e quadretti grandi. La pittura, per dipingere la bellezza e 
                  usare il pennello con mano ferma. Il canto, per esercitare la 
                  voce a non rimanere muta. Il ricamo, la soddisfazione nelle 
                  piccole cose lavorate all'uncinetto imparato da piccola sui 
                  gradini di casa, come esercizio per la motricità fine 
                  delle mani per non renderle rattrappite e inservibili. 
                  La musica, e come compagno di ballo un manico di scopa, per 
                  mantenere il ritmo e una postura più aperta, spalle dritte, 
                  e passi lunghi come quelli dei cavalli della copertina del libro, 
                  da lei dipinti proprio per contrasto ai passetti corti imposti 
                  da Mr. P. Poi le lunghe passeggiate, con la dignità del 
                  bastone e quella fierezza di chi combatte ogni giorno: “raddrizzar 
                  la schiena aprendo il petto e a testa alta camminare togliendo 
                  a lui un po' di quel tuo spazio che si era preso”. 
                  Con la malattia, il tempo subisce accelerazioni, il corpo invecchia 
                  prima. Il tempo è anche dilatato, serve più tempo 
                  per le solite azioni in apparenza prive di significato. Il rapporto 
                  con il tempo cambia: i ritmi vanno adeguati alle proprie necessità. 
                  Ma il tempo della memoria non rimane compromesso: attingere 
                  ai ricordi e la consapevolezza del proprio vissuto diventano 
                  energia per affrontare le insicurezze del presente. 
                  Il tempo dedicato agli altri, inoltre, rappresenta un'altra 
                  reazione al potere della malattia: la lettura ai bambini di 
                  racconti e filastrocche, oppure disegnare personaggi dei cartoni 
                  animati da far colorare ai bambini autistici. Organizzare incontri, 
                  convegni per conoscere i risultati della ricerca di un morbo, 
                  ancora poco conosciuto. Così, per chi vuole accoglierla, 
                  la malattia apre le finestre, spalanca gli occhi sul mondo, 
                  favorisce un fine sguardo introspettivo e ribalta i ruoli. Parlando 
                  del figlio: “accompagnandomi al mercato, mi fa camminare 
                  dalla parte del muro, come facevo io con lui da piccolo”. 
                  Il libro si rivolge non solo ai malati di Parkinson, ma anche 
                  ai loro familiari, perché siano una presenza discreta 
                  e invisibile. Chi è malato non ha bisogno di compassione, 
                  ma essere aiutato a diventare autonomo, per quanto gli sarà 
                  possibile. Cento pagine di gradevole lettura arricchite da poesie 
                  dell'autrice, per dare coraggio a chi deve affrontare momenti 
                  di precarietà e non sprofondare nel baratro della depressione 
                  in agguato, pronta a succhiare le energie vitali. Ma sempre 
                  impugnando l'arma dell'autoironia, senza prendersi troppo sul 
                  serio per sfidare, con più leggerezza, i pesanti affanni 
                  del vivere. 
                 Claudia Piccinelli 
                 L'associazione “Azione Parkinson Brescia” devolverà 
                  parte del ricavato dalle vendite del libro alla ricerca sulla 
                  malattia di Parkinson.  |