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				 diserzione 
                  
                Dietrofront! 
                  
                di Brad McCall, Kimberly River, Ryan Johnson, Robin Long, André Sheperd, Matt Mishler, Samantha Schutz, Brandon Hughey 
                    
                Storie tutte diverse e tutte sbagliate, di donne e uomini lasciatisi intrappolare dalla propaganda militare (e militarista). Una volta venute e venuti, in vario modo, a contatto con la realtà quotidiana della guerra, però...  
                Cominciavo a prendere coscienza della mole 
                  di propaganda che, fin da quando ero bambino, mi aveva spinto 
                  ad arruolarmi nei marines. Ho iniziato a ripensare a tutti i 
                  film che avevo visto, agli eroi di certi film di guerra, Clint 
                  Eastwood, Heartbreak Ridge, Top Gun, a tutte quelle storie con 
                  le quali ero cresciuto, idolatrandole. Mi rendevo finalmente 
                  conto che la società americana è pesantemente, 
                  davvero pesantemente, indottrinata, e l'indottrinamento comincia 
                  presto, da quando sei in grado di riceverne i messaggi dalla 
                  televisione. 
                  Benji Lewis 
                   
                  Non riesco a sentirmi parte del mondo militare. Non è 
                  che non voglia: non posso proprio. Non sopporto di essere circondato 
                  da persone in uniforme, non sopporto di indossare un'uniforme, 
                  perché ogni giorno tutto ciò che accade mi ricorda 
                  costantemente, 24 ore su 24, sette giorni su sette, non solo 
                  quello che ho fatto, ma anche quello a cui ho assistito e che 
                  mi ha tenuto la bocca cucita. Per questo [...] sono diventato 
                  un disertore. [...] Ho pensato che sarei finito in prigione, 
                  ma ero pronto ad andarci, per mantenere ferma la mia posizione. 
                  David Cortelyou 
                  
                
				 Ma io non sono come 
                  loro 
                   
                  di Brad McCall 
                   
                  Avevo sentito le storie che si raccontavano sull'Iraq, storie 
                  e particolari di atrocità che venivano commesse contro 
                  persone innocenti in quel paese. I veterani che le raccontavano 
                  ne andavano fieri. Si vantavano. Si pavoneggiavano nel modo 
                  più assoluto per quello che avevano fatto e per quello 
                  che avevano fatto altri commilitoni delle loro unità. 
                  Ci ridevano su, sembrava fosse solo un grande scherzo e non 
                  vedevano l'ora di tornare indietro perché si divertivano 
                  ad ammazzare la gente. 
                  Quando ascoltai per la prima volta quelle storie, la prima cosa 
                  che feci fu di correre al bagno e vomitare. Non riuscii a controllarmi. 
                  Mi faceva stare male, fisicamente. Quando mi ripresi, andai 
                  dritto dal mio comandante e gli riferii tutto. Lui disse “Bene, 
                  dovremo fare due chiacchiere con i veterani e assicurarci che 
                  non raccontino più a voi ragazzi queste storie”. 
                  Questo fu tutto ciò che fecero in merito. Quindi, da 
                  allora, per la prima volta mi sono messo a riflettere sul serio 
                  su me stesso, e persino su quali fossero le mie convinzioni 
                  politiche, morali e spirituali più profonde. Mi ribellai 
                  contro gran parte degli insegnamenti che i miei genitori mi 
                  avevano impartito da bambino e cercai di tentare di capire quali 
                  fossero le mie idee. Fuggii dalle regole che per tutta la vita 
                  avevo seguito, nel solco tracciato dai miei genitori. 
                  Scoprii che non ero un conservatore come avevo sempre pensato 
                  di essere. Scoprii che la guerra in Iraq era malvagia, atroce, 
                  ridicola e che se fossi andato in Iraq mi sarei reso colpevole 
                  di crimini di guerra, se non agli occhi degli altri, sicuramente 
                  ai miei. Tutto ciò per me era più che sufficiente 
                  per mettere un punto e dire “No, non posso partire.” 
                  Se fossi partito lo stesso, sapendo tutto questo, e fossi tornato 
                  vivo, avrei dovuto vivere il resto della vita con la consapevolezza 
                  di aver partecipato a una guerra maledetta, scatenata per motivi 
                  ingiusti. Non sarei stato capace di vivere con me stesso. Perciò 
                  feci l'unico passo che conoscevo e domandai che mi fosse riconosciuto 
                  lo status di obiettore di coscienza. I miei superiori mi presero 
                  in giro per tre settimane, mentre imploravo, imploravo, imploravo 
                  che me lo concedessero, e alla fine scappai e andai in Canada. 
                  [...] 
                  Presi la decisione definitiva in un giorno. Ne parlai con un 
                  amico a Colorado Spring, e mi raccontò dei soldati che 
                  stavano scappando in Canada e io pensai “Forte!”. 
                  Così, da lì mi recai a casa di un altro amico 
                  con il mio pc portatile e scoprimmo che era davvero possibile. 
                  Trovammo su internet il sito dei soldati resistenti, e quella 
                  stessa notte feci la scelta di lasciare il paese la settimana 
                  successiva, ma dopo il giorno di paga. Sapevo che avrei avuto 
                  bisogno di soldi per affrontare la situazione e muovermi da 
                  un posto all'altro. [..] 
                  La prima cosa che mi successe appena arrivai nella Columbia 
                  Britannica fu che mi arrestarono, sul confine. Nella settimana 
                  che rimasi a Fort Carson, entrai in contratto via e-mail con 
                  diversi canadesi che volevano aiutarmi. Allora non me ne ero 
                  accorto, ma i miei genitori avevano la mia password della posta 
                  elettronica e stavano seguendo quanto accadeva, e avevano inoltrato 
                  tutte le e-mail al mio comandante e al sergente. Sapevano quindi 
                  che stavo andando in Canada. 
                  Fui arrestato al confine dalle guardie di frontiera canadesi, 
                  su richiesta dell'Esercito degli Stati Uniti. 
                  [...] Mentre ero in prigione feci domanda di asilo, motivando 
                  tale richiesta sulla base della convinzione che se fossi tornato 
                  negli Stati Uniti sarei stato perseguitato o perseguito legalmente 
                  a causa delle mie posizioni politiche, morali e spirituali. 
                 Brad McCall  
                 
                  L'indottrinamento 
                  tra i banchi di scuola 
                   
                  di Kimberly Rivera 
                   
                  Come sanno tanti, i reclutatori cominciano a puntarti quando 
                  sei molto giovane, alla scuola superiore, e spesso ti contattano 
                  anche a sedici anni, a volte non è facile indovinare 
                  l'età dei ragazzini a scuola. Se si accorgono che ancora 
                  non hai compiuto i sedici anni, o che non sei né al penultimo 
                  né all'ultimo anno, ti lasciano stare. Non parleranno 
                  con te per tutto il resto dell'anno. Poi però arriva 
                  l'anno successivo. Appena acquisiscono i tuoi dati dalla scuola, 
                  iniziano a chiamarti a casa; cominciano a sistemare i loro banchetti 
                  in sala mensa e a recitarti la loro tiritera ancora, e ancora, 
                  e ancora. Da studente di scuola superiore non sei davvero preparato, 
                  penso, a prendere decisioni che ti possono trasformare la vita, 
                  come è nel caso della scelta della carriera militare. 
                  Eppure io l'ho presa, questa decisione, e a volte sento che 
                  sono stata un po' forzata a prenderla, perché essendo 
                  ancora a scuola vivevo a casa con mia madre e mio padre e non 
                  avrei mai voluto essere di peso per loro. Perciò ho pensato 
                  “bene, questo può essere il modo migliore per mettere 
                  da parte i soldi per la scuola.” 
                  I reclutatori fecero firmare ai miei genitori una specie di 
                  modulo di autorizzazione o roba simile per avere il permesso 
                  di parlare con noi. Ma poi venne fuori che non era solo un permesso 
                  per parlare con me, era un'autorizzazione dei genitori a permettergli 
                  di arruolarmi. [...] 
                  Nel 2000, al penultimo anno, ci andai, feci il test e poi dovetti 
                  parlare con un consulente militare. Il consulente è quello 
                  che dice, in base al punteggio ottenuto nel test, per quale 
                  tipo di lavoro ci si è qualificati.  Mi 
                  hanno dato tre opzioni di lavoro tra cui scegliere, e io ne 
                  ho scelto una, non sapendo che scegliendo quel lavoro stavo 
                  effettivamente firmando un contratto militare. Dopo averlo firmato, 
                  ho dovuto faticare a convincermi di aver fatto la cosa giusta, 
                  e che quella sarebbe stata la scelta giusta per me. Succede 
                  così in fretta. Appena hai scelto il lavoro, sei lì, 
                  seduta nella stanzetta e in sostanza aspetti solo di fare il 
                  giuramento. Da quel momento mi ripetevo “Sai che c'è? 
                  Mi sono appena arruolata”. Avevo diciassette anni. 
                  Andai al campo di addestramento reclute. Nulla mi sembrava davvero 
                  reale. Ero cresciuta in Texas, sempre circondata da armi. Ero 
                  davvero un maschiaccio, perciò fare quel tipo di cose, 
                  allenarsi, fare le corsette a ostacoli, e tutto quel gridare 
                  “Uccidi! Uccidi! Uccidi!” mi sembrava solo un gioco, 
                  in fondo. Non era reale. [...] 
                  Quei “bravi ragazzi” 
                Avevo sempre pensato che i soldati fossero bravi ragazzi, che 
                  fossero quelli che aiutavano le persone quando ce n'era bisogno. 
                  Che rimettono a posto le cose e ricostruiscono. La pensavo così 
                  anche sull'Iraq. Avevo sempre creduto, cioè, che lo scopo 
                  di essere lì fosse quello di conquistare i cuori delle 
                  persone, ma non era così. Accaddero un paio di fatti 
                  importanti, di incidenti, che realmente mi spinsero a interrogarmi 
                  su tutto, da me stessa alla scelta del servizio militare, al 
                  perché fossi lì, tutto. Uno dei fatti accadde 
                  quando lavoravo all'ingresso della base. 
                  Ogni sabato i civili arrivavano e presentavano delle richieste 
                  di indennizzo. Io non sapevo cosa avessero passato le loro famiglie. 
                  Non sapevo cosa avessero perduto. Ad alcuni era stato sequestrato 
                  l'unico fucile che avevano a casa, che poteva rappresentare 
                  l'unica forma di sicurezza per la propria famiglia. Alcuni avevano 
                  visto portarsi via i figli giovani o i mariti, e si chiedevano 
                  dove fossero, alcuni erano anche stati feriti in maniera grave. 
                  Bene, quel sabato in particolare, anche ora che affronto la 
                  vita giorno per giorno, lo ricordo chiaramente, come se non 
                  avessi mai lasciato l'Iraq. Vedo questa bambina, avrà 
                  avuto circa due anni più o meno, come la mia bimba che 
                  avevo lasciato a casa, e la vedevo tremare. Tremava violentemente, 
                  non come se avesse una crisi epilettica, ma quasi. Le lacrime 
                  le scendevano dagli occhi, le scendevano sul viso. Ma non piangeva. 
                  Non gridava. Niente. Ma i bambini non piangono senza gridare. 
                  Sapevo che qualcosa di traumatizzante era successo a quella 
                  bimba, che le lacrime che le scendevano sul viso erano legate 
                  a quello shock. Ero impotente, non potevo fare nulla. Indossavo 
                  l'equipaggiamento completo, portavo un fucile d'assalto M16 
                  ed era carico, con la sicura disinserita, perché così 
                  ci era richiesto di fare quando eravamo in missione. Non riuscivo 
                  a immaginare cosa potesse fare suo padre per aiutarla, e nemmeno 
                  come avrei reagito io, essendo madre anche io, se mia figlia 
                  si fosse trovata in quello stato, sapendo di essere incapace 
                  di aiutarla e di fare qualcosa, o al contrario proprio perché 
                  sapevo cosa accadeva nella sua testa e quello che aveva subito. 
                  [...] 
                  Al cancello c'erano anche alcune donne più anziane. [...] 
                  Nei loro occhi solo domande che ti penetravano il cuore e l'anima: 
                  “Perché mi stai facendo questo? Che ti ho fatto? 
                  Che cosa ti ha spinto a colpire in questo modo la mia famiglia?”. 
                  E riuscivi a percepirlo. Non avevano bisogno di dirlo a parole, 
                  lo sentivi, glielo leggevi in faccia. Non potevo accettarlo. 
                  Ancora, vedevo persone – civili iracheni che lavoravano 
                  con noi – che si strappavano i vestiti e si gettavano 
                  a terra per aver perso dei loro conoscenti. Non avevo idea di 
                  cosa diavolo stesse succedendo. [...] 
                  I miei superiori sapevano che stavo passando un periodo di forte 
                  stress, e quando alla fine ottenni la mia licenza di due settimane, 
                  penso che temessero che non sarei più tornata indietro. 
                  Allora iniziarono a farmi pressioni, e avemmo una discussione 
                  sui motivi per non disertare. In sostanza mi dissero che potevano 
                  farmi qualunque cosa, che potevano non solo rovinarmi la vita, 
                  ma anche, se avessero voluto, fare di me un esempio per tutti 
                  e uccidermi durante uno scontro a fuoco in battaglia. Dalle 
                  loro bocche uscì questo. Ma arrivata a quel punto, nulla 
                  di ciò che potevano dire o fare poteva spaventarmi oltre. 
                  [...] 
                  Un giorno, navigando su internet, saltò fuori la “War 
                  Resisters Support Campaign” (gruppo di attivisti canadesi 
                  impegnati a sostenere i renitenti, ndr) e tante altre 
                  storie di soldati resistenti. Mio marito mi suggerì di 
                  trasferirci in Canada. Rimanemmo in giro per circa due settimane, 
                  entrando e uscendo da posti differenti. Ero super-paranoica. 
                  Non so se lo fosse anche Mario (il marito, ndr), io certamente 
                  lo ero. Mi vedevo trascinata via, spacciata. In Kuwait eravamo 
                  stati addestrati per catturare i prigionieri e ripulire stanze 
                  o intere abitazioni, perciò avevo chiaramente in testa 
                  quello che facevano nei loro raid, anche se io non vi avevo 
                  mai preso parte. Quando sei stata addestrata per far parte delle 
                  squadre speciali e sai come ti possono catturare e portar via, 
                  hai addosso un terrore tremendo. 
                 Kimberly Rivera 
                 
                 
                  I racconti dei veterani 
                   
                  di Ryan Johnson 
                   
                  Cominciai a parlare con i veterani che erano tornati, per conoscere 
                  la loro esperienza da militari, per scoprire cosa avessero visto 
                  in Iraq; sapevo in cosa mi stavo mettendo, anche perché 
                  già dall'inizio, quando mi ero arruolato, mi ero imbarcato 
                  in un qualcosa senza avere sufficienti informazioni. 
                  Mi raccontavano storie in cui avevano visto carri armati schiacciare 
                  auto di civili nelle strade. Mi raccontavano di abusi, di uccisioni 
                  di civili, di bambini morti per le strade, di spari ai check 
                  point contro automobili nelle quali poi avevano guardato dentro 
                  e avevano visto i corpi senza vita di una famiglia disarmata, 
                  o un bambino incenerito. Storie orrende, che provocavano a loro 
                  incubi continui e avevano reso insopportabile persino lo stare 
                  in luoghi affollati. [...] 
                  Allora ho iniziato a chiedermi davvero come fosse scoppiata 
                  la guerra, all'inizio. Si, insomma, a informarmi sull'11 settembre 
                  e capire che non c'era alcuna connessione con l'Iraq. Su come 
                  il presidente avesse detto che in Iraq c'erano armi di distruzione 
                  di massa, e invece non era vero. L'Iraq non aveva fatto nulla 
                  per provocare l'attacco al suo territorio. E allora ho cominciato 
                  ad andare ben oltre la consapevolezza che quello che stavamo 
                  facendo fosse sbagliato. 
                 Ryan Johnson  
                 
                  Una famiglia di militari 
                  e un destino già segnato 
                   
                  di Robin Long 
                   
                  Mi sono arruolato nel giugno 2003, nel programma di reclutamento 
                  differito. In sostanza venivo da una famiglia di militari, mio 
                  padre era militare, come i miei zii e zie e tutti i miei cugini 
                  da parte di padre. Da ragazzino cresciuto con i G.I. Joe, avevo 
                  sempre pensato che da grande sarei entrato nell'esercito. [...] 
                  Durante l'addestramento di base cercano di smontarti pezzo per 
                  pezzo e ricostruirti secondo le esigenze dell'esercito. Ci facevano 
                  marciare, cantare ogni momento slogan che inneggiavano all'uccisione 
                  di persone e a lacrime, sangue e budella. Ci stavano trasformando 
                  in macchine assassine, e al contempo tentavano di disumanizzare 
                  il nemico. Sui principali organi di stampa sentivo raccontare 
                  che gli Stati Uniti andavano in Iraq per le armi di distruzione 
                  di massa, per liberare il popolo iracheno, eppure mi raccontavano 
                  che sarei andato nel deserto a uccidere le teste coperte di 
                  stracci, e scusate l'offesa razzista. All'inizio questa cosa 
                  mi disturbava, perciò mi misi a fare al mio sergente 
                  domande del tipo: “Ma perché chiamiamo gli iracheni 
                  teste coperte di stracci?” e lui rispose: “Beh, 
                  perché è quello che sono.” [...] 
                  Arrivavano soldati appartenenti ad altre unità di ritorno 
                  dall'Iraq e stazionavano a Fort Knox. Gran parte di loro si 
                  vantava di quel che stava succedendo laggiù. Iniziammo 
                  a sentire quello che i media principali non raccontavano. Per 
                  esempio, un tipo mostrava alcune foto di una persona che lui 
                  aveva schiacciato con il suo carro armato, un altro aveva foto 
                  della sua prima vittima – lui era in posa sorridente e 
                  col segno della pace, mentre sollevava la testa di un ragazzo 
                  morto – e altri che se la tiravano per aver ucciso questa 
                  o quella persona o per come avevano visto esplodere qualcuno. 
                  Tutto questo cominciò a farmi arrabbiare, sì, 
                  arrabbiare, più di ogni altra cosa. Sentivo che il malessere 
                  allo stomaco sarebbe continuato ogni volta che avessi ascoltato 
                  queste storie. [...] 
                  Alla fine, quindi, proprio il giorno che avrei dovuto imbarcarmi 
                  sull'aereo per andare a Fort Carson e registrarmi per andare 
                  in Iraq, presi la mia ultima decisione. Mi nascosi nell'appartamento 
                  di un amico per circa due mesi prima di incontrare alcune persone 
                  che stavano andando in Canada – una coppia di hippy 
                  che andava in Canada per un matrimonio – e dissi “ 
                  Sapete cosa? Sono stanco di nascondermi qui negli Stati Uniti. 
                  Non può funzionare. Meglio andare in Canada, dove almeno 
                  non dovrò nascondermi per tutto il tempo dalla polizia.” 
                 Robin Long 
                 
                 
                 Tutto 
                  ciò che non sapevo 
                   
                  di André Shepherd 
                   
                  Sono cresciuto a Cleveland, Ohio, e ho frequentato il college 
                  alla Kent State University. Il fatto è che mi sono diplomato 
                  quando è scoppiata la bolla delle aziende dot-com, quindi 
                  mentre cercavo un lavoro nell'ambito per il quale avevo studiato, 
                  quello informatico, non ho trovato nessun impiego. Allora sono 
                  finito a fare mille lavoretti – nei fast food, come corriere, 
                  per un po' anche come venditore di aspirapolveri, imbustavo 
                  lettere a casa, cose di questo tipo – lavori sottopagati, 
                  cercando di arrivare alla fine del mese. [...] 
                   È 
                  finita che sono andato a vivere in macchina, – la prima 
                  volta nel 2001 per sei mesi e la seconda nel 2003 più 
                  o meno per lo stesso lasso di tempo. Quindi, nell'estate del 
                  2003, mi sono presentato a un reclutatore dell'esercito a Lakewood, 
                  Ohio, che mi ha parlato degli ingaggi che stavano proponendo, 
                  che avevano bisogno proprio di persone come me per aiutare i 
                  popoli del mondo a liberarsi dal terrorismo e dai dittatori, 
                  e cose di questo genere. Per esempio ha parlato di Saddam Hussein, 
                  Osama bin Laden, Kim Jong Il, [...] l'”Asse del male”. 
                  Mi ha parlato ancora un po' di questi argomenti, e poi ha cominciato 
                  a illustrarmi i vantaggi che dava l'esercito, la paga regolare, 
                  la possibilità di viaggiare, la casa gratis, e anche 
                  l'assicurazione sanitaria gratuita, che sarebbe andata avanti 
                  anche se avessi lasciato il servizio. Tutto quello che dovevo 
                  fare era firmare per qualche anno e avrei avuto tutti quei benefit. 
                  In quel periodo vivevo nella mia macchina e quindi trovai tutto 
                  ciò davvero convincente. Dopo qualche mese a pensare 
                  se fosse o meno una buona idea, il 27 gennaio del 2004 decisi 
                  di arruolarmi. [...] 
                  Sapevo che, dal momento che eravamo impegnati in un conflitto 
                  e che era in corso la guerra contro il terrore, essere spedito 
                  al fronte poteva essere una possibilità. A quel tempo 
                  non avevo le conoscenze che ho ora. Tutto ciò che sapevo 
                  era più o meno quello che raccontavano i mass media e 
                  quello che sosteneva l'amministrazione Bush. Allora credevo 
                  ancora nel mio governo, e pensavo che ci avrebbero detto solo 
                  la pura verità. Perciò non mi turbava affatto 
                  essere coinvolto in prima persona nel conflitto. Pensai che 
                  avrei reso un grande servizio al mio paese e che questo avrebbe 
                  messo la mia vita sulla retta via. [...] 
                  Mentre ero in Iraq, la prima cosa che ho notato è stato 
                  l'atteggiamento della popolazione locale quando si avvicinava 
                  alla nostra postazione. Quando sei il liberatore, la popolazione 
                  dovrebbe essere stracontenta di vederti. Essere felice che tu 
                  voglia aiutare e accoglierti a braccia aperte. Ma quando incontravo 
                  gli iracheni al mattino, mentre andavo al lavoro, non avevano 
                  affatto l'aria di essere contenti di vederci. Sembrava o che 
                  avessero paura di me, come se io stessi per colpirli, in un 
                  modo o in un altro, oppure sembrava che se avessi voltato loro 
                  la schiena e fossi stato disarmato, probabilmente avrebbero 
                  tentato di uccidermi. Così mi misi a pensare: “Ok, 
                  cosa sta succedendo qui? Perché io ero convinto che noi 
                  in teoria fossimo i buoni, ma qui tutti mi guardano come se 
                  fossi pazzo.” 
                  Mi misi a parlare con i soldati della base, per provare a conoscerli 
                  tutti, visto che erano laggiù già da sei mesi. 
                  La maggior parte di loro diceva di non capire perché 
                  fosse lì. [...] 
                  Questo fatto mi fece riflettere: forse eravamo davvero incappati 
                  in uno sbaglio. Cominciai a chiedermi “Okay, perché 
                  siamo qui?” [...] Quindi iniziai a fare ricerche. Ero 
                  lì, sul posto, e cominciai a notare piccole incongruenze 
                  in quello che leggevo, tra quello che l'amministrazione Bush 
                  raccontava a tutti e quello che stava realmente accadendo, specialmente 
                  sulla rincorsa alla guerra all'Iraq, perché i nostri 
                  media avevano creato davanti alla popolazione uno schermo per 
                  impedire ogni voce di dissenso alla linea ufficiale. [...] 
                  Mi sembrava come se esistesse una sorta di agenda parallela 
                  che andava al di là della liberazione del popolo iracheno 
                  da un dittatore o del tentare di trovare le armi di distruzione 
                  di massa. Poi ci fu la battaglia di Falluja, dove i media raccontavano 
                  che era stata una grande vittoria per noi in Iraq. I canali 
                  televisivi militari raccontarono che avevamo fatto un gran bel 
                  lavoro nel risollevare una città che era stata completamente 
                  invasa dai terroristi, dagli insorti, ecc. Ma continuando le 
                  mie ricerche, iniziai a scoprire cose davvero scioccanti, come 
                  uomini che erano in età per combattere, ma che non volevano 
                  farlo e a cui veniva impedito di lasciare la città. In 
                  pratica erano solo seduti lì, indifesi, presi nell'assedio 
                  con i marines e le forze armate e poi i report dell'uso che 
                  veniva fatto del fosforo bianco e, insomma, la totale distruzione 
                  che stava andando avanti in città. [...] 
                  Quando guardavo gli iracheni, e loro mi guardavano con la gentilezza 
                  con cui i francesi avrebbero guardato i nazisti tedeschi o come 
                  qualunque dei popoli che erano stati oppressi dai romani, mi 
                  veniva da chiedermi “ma che cosa significa davvero questa 
                  bandiera che porto sulla spalla?” [...] 
                  Mi sono messo a scavare tra le storie raccontate dai media e 
                  ho iniziato a scoprire tutte le più grosse bugie che 
                  l'amministrazione Bush aveva raccontato. [...] Ho letto che 
                  la CIA aveva dichiarato in un suo rapporto che non esisteva 
                  nessuna arma di distruzione di massa e ho scovato e guardato 
                  un video in cui George Bush ridicolizzava quel rapporto; mentre 
                  la gente in Iraq soffre e muore, lui è lì seduto 
                  a fare battute sul rapporto, tentando di far finta di trovare 
                  le armi di distruzione di massa. Cose del genere sono assolutamente 
                  ingiuste. [...] 
                  Una volta capíta a grandi linee la verità, e cioè 
                  che questa guerra in fondo non era altro che una truffa non 
                  solo nei confronti del popolo americano, ma di tutto il mondo, 
                  decisi che non avrei partecipato a un'altra missione in Iraq. 
                  [...] Questo era il momento della verità. Dovevo prendere 
                  una decisione davvero grande, se andare avanti nonostante la 
                  mia coscienza o dire: “No, non posso farlo, è assolutamente 
                  crudele e non voglio avere a che fare neanche in maniera indiretta 
                  in nessuna delle atrocità che continuano a perpetrarsi 
                  in Iraq.” [...] 
                  Mi trovai di fronte a due alternative: andare in Iraq o disertare, 
                  perché non esiste altra scelta. [...] 
                 André Shepherd  
                 
                 La guerra non è 
                  un videogame 
                   
                  di Matt Mishler 
                   
                  Quando misi la firma avevo vent'anni. [...] Pensavo solo che 
                  fosse dovere di ciascuno servire il proprio paese, e in quel 
                  momento credevo che era quella la cosa che volevo fare nella 
                  mia vita. Decisi di arruolarmi nei marines perché avevo 
                  sentito che avevano il centro di addestramento reclute più 
                  duro. [...] 
                  Presto mi resi conto che la mia linea di pensiero non era molto 
                  comune tra gli altri marines che avevo intorno. Il modo in cui 
                  parlavano, quel che dicevano... preferivo prendere le distanze 
                  dai discorsi in cui si addentravano. Non esprimevo spesso la 
                  mia opinione, ma non volevo ascoltare gente ignorante che diceva 
                  frasi del tipo: “Oh, non vedo l'ora di uccidere qualche 
                  maledetto arabo.” Per me questi discorsi erano disgustosi 
                  e da ignoranti, e mi misi a pensare: sono persone anche loro, 
                  hanno una madre, un padre, una famiglia. [...] 
                  Se pensiamo alla Prima o alla Seconda Guerra mondiale, moltissimi 
                  soldati in battaglia non erano in grado nemmeno di imbracciare 
                  il fucile, ma poi è arrivato il Vietnam, e il numero 
                  delle vittime è iniziato a crescere, perché i 
                  militari avevano deciso di usare tecniche per disumanizzare 
                  il nemico. Mi ricordo che al campo di addestramento la parola 
                  “Uccidi” era usata come se niente fosse. Si usava 
                  anche in risposta agli ordini “Uccidi! Signorsì, 
                  uccidi!” [...] 
                  Al campo di addestramento giocavamo con i videogame, c'erano 
                  anche lì... ma la guerra non è un videogame: se 
                  uccidi qualcuno, non torna in vita. È morto. E magari 
                  era una persona che aveva dei figli, una madre, un padre, probabilmente 
                  una moglie, aveva dei doveri, avevano una vita che stavano vivendo 
                  e tu gliela potevi strappare unicamente in base al tuo giudizio. 
                 Matt Mishler 
                  
                 
                 Niente giornalismo, 
                  solo propaganda 
                   
                  di Samantha Schutz 
                   
                  Nel 2006, quando mi arruolai, stavo attraversando un periodo 
                  molto duro. Nell'aprile di quelle stesso anno ero stata ricoverata 
                  nell'ospedale locale per una profonda depressione e per una 
                  sorta di incapacità a integrarmi nella società. 
                  [...] 
                  Quando misi la firma avevo diciannove anni, mi era saltato il 
                  terzo contratto di affitto ed ero appena stata dimessa dall'ospedale. 
                  Non avevo la minima fiducia nelle autorità. Avevo pochissime 
                  scelte davanti a me, per non dire nessuna, e arruolarmi fu l'unica 
                  opportunità che riuscii a trovare per mettere insieme 
                  un po' di soldi. [...] 
                  Gli spot pubblicitari funzionano davvero per adescare i giovani. 
                  Come me, che pensavo che l'esercito non fosse una macchina da 
                  guerra, ma solo un posto per fare qualche soldo per il college, 
                  per migliorare me stessa. Ero abbastanza ingenua a riguardo. 
                  [...] 
                  Mi recai alla Defense Information School per sapere come diventare 
                  giornalista all'interno dell'esercito. L'addestramento durò 
                  quattordici settimane. 
                  [...] Scrissi un mucchio di articoli su quello che succedeva 
                  alla base, su chi veniva promosso, sulla sicurezza e cose simili. 
                  Di solito inviavamo i nostri articoli ai due giornali civili 
                  che avevano sede nelle vicinanze della base. [...] 
                  Però io non mi ritenevo una giornalista. Mi sentivo una 
                  propagandista. Ci veniva inculcato in testa di mettere sempre 
                  l'accento positivo su tutto e che c'erano solo alcuni argomenti 
                  di cui potevamo occuparci. Un'altra parte del lavoro laggiù 
                  consisteva nel lavorare insieme ai media occidentali e orientarli. 
                  Loro si affidavano a noi, erano affiliati all'esercito, dunque 
                  in modo indiretto censuravamo quello che erano autorizzati a 
                  vedere, a vivere, a scrivere e filmare. Eravamo noi a scegliere 
                  a quali missioni potevano prendere parte, perché sapevamo 
                  in anticipo quali potevano risultare particolarmente violente 
                  o quali mostravano solo aspetti positivi, il nostro ruolo nella 
                  ricostruzione o cose simili. Ovviamente, inviavamo i media occidentali 
                  nelle missioni che mostravano le nostre buone intenzioni, e 
                  non menzionavamo affatto quelle violente. 
                  Dato che lavoravo nella Divisione ed ero una donna, non ero 
                  autorizzata a prendere parte alla maggioranza delle missioni 
                  pericolose. Però avevo l'impressione che i compiti a 
                  me assegnati fossero incentrati sull'ignorare quel che succedeva 
                  là fuori, ma avessero lo scopo di salvare la faccia all'esercito 
                  e di intrattenere il pubblico. In passato avevo realmente pensato: 
                  “Diventerò una corrispondente di guerra, darò 
                  copertura mediatica a questo evento storico, che è anche 
                  controverso”. Ma presto capii la verità, avevo 
                  sempre saputo che i media erano un po' faziosi, ma nulla di 
                  quello che facevo somigliava nemmeno vagamente alla cronaca 
                  degli eventi. 
                  Mi decisi infine a portare la questione all'attenzione di altre 
                  persone, dei miei colleghi e dei miei superiori. Il risultato 
                  fu che mi trasferirono, cancellarono la mia posizione e non 
                  scrissi più. Mi spostarono nella redazione della nostra 
                  newsletter, una newsletter quotidiana. Ora il mio lavoro, dodici 
                  ore essenzialmente notturne, consisteva nel lavorare da sola 
                  e assemblare semplicemente la newsletter. Era molto impegnativo, 
                  ma facevo solo copia e incolla. Credo mi abbiamo messa lì 
                  perché pensavano fossi diventata un pericolo, o che abbiano 
                  percepito la mia demotivazione. Fui separata dal resto dello 
                  staff, e lavorai da sola, dodici ore di notte. [...] 
                  Mi capitò di visitare i sobborghi di Baghdad e vedere 
                  le condizioni di vita delle persone. Tornando alla base americana, 
                  piazzata in mezzo a tutta quella miseria, ritrovavo la mia bella 
                  stanza con l'aria condizionata, il letto comodo, la TV, il frigorifero, 
                  il computer, il forno a microonde. Nel giro di mezzo miglio 
                  avevo a portata di mano Taco Bell o Burger King, Popeye's, l'ufficio 
                  postale e un grande supermercato. Mi sentivo sempre più 
                  depressa e colpevole perché sapevo che all'opinione pubblica 
                  americana veniva raccontato che stavamo offrendo il nostro aiuto, 
                  stavamo lì per sostenere la ricostruzione e la ripresa 
                  ed era sotto ai miei occhi che le enormi cifre stanziate – 
                  12 miliardi al mese nel 2008 – venivano spese più 
                  che altro per garantire i nostri comfort e non per aiutare fattivamente 
                  la popolazione. [...] 
                  Avevo come il presentimento, prima di partire in licenza, che 
                  avrei potuto non fare ritorno. Mi stavo preparando a prendere 
                  la decisione se tornare o meno. Quando arrivai a casa in licenza, 
                  sentii che non avevo scelta dal punto di vista morale. Non potevo 
                  continuare così. Dovevo fermarmi in quel momento, e così 
                  rimasi negli Stati Uniti. [...] 
                  In parte, ciò che voglio è riavere la mia voce 
                  ed essere in grado di aiutare altri a curare le ferite causate 
                  dalla macchina da guerra, ma aiutarli anche ad alzare la testa, 
                  per loro stessi. [...] 
                  Mi ero già preparata per qualcosa di persino peggiore. 
                  In tutta onestà posso affermare che avrei preferito passare 
                  i miei ultimi tre anni di ferma in una cella, piuttosto che 
                  al servizio della macchina militare. 
                 Samantha Schutz  
                 
                 Diserzione. Unica 
                  scelta possibile 
                   
                  di Brandon Hughey 
                   
                  Un giorno arrivò a casa mia la telefonata di un reclutatore. 
                  Per prima cosa mi chiese: “Hai i mezzi per iscriverti 
                  all'università?”. “No,” risposi, “non 
                  ci ho ancora pensato in realtà.” “Bene,” 
                  mi disse allora, “vienici a trovare in ufficio e ne discutiamo 
                  un po'”. Così fissammo un appuntamento. Mi fermai 
                  da loro e il reclutatore mi raccontò tutte le fantastiche 
                  cose che avrebbero potuto fare per me se mi fossi arruolato 
                  per qualche anno. Tipo che avrebbero pagato loro l'università, 
                  che mi avrebbero dato un bonus economico al momento del giuramento 
                  e coperto in sostanza tutte le mie spese. Alle mie orecchie, 
                  in quel momento, suonò come fosse un buon affare. [...] 
                  Una volta arrivato al centro di addestramento reclute, però, 
                  cominciarono a venirmi pensieri diversi, perché mi sentivo 
                  quasi come se mi stessero riprogrammando per pensare in modo 
                  differente da come avevo fatto fino ad allora. [...] 
                  Notavo che non ci insegnavano tanto a combattere, ma piuttosto 
                  a disumanizzare totalmente l'avversario. C'erano un sacco di 
                  offese a sfondo razziale, un sacco di insulti che diventavano 
                  di uso comune per definire gli arabi e gli iracheni. Era del 
                  tutto evidente che loro non vedevano gli arabi come persone 
                  uguali a noi, ma come esseri inferiori, e cercavano di inculcare 
                  queste idee nelle nostre teste. Gli arabi non erano buoni come 
                  noi, erano inferiori. Immagino che facessero questo per renderci 
                  più facile puntare il fucile contro gli iracheni e ucciderli, 
                  una volta spediti laggiù. [...] 
                  Ho cominciato a pensare, okay, la mia sola scelta è lasciare 
                  il paese. A quel punto mi sono messo a fare piani per andare 
                  in Canada. 
                  Quando mi sono arruolato, l'immagine che avevo in testa era 
                  quella di partire per difendere il mio paese e lottare dalla 
                  parte giusta, ma quando è scoppiata la guerra in Iraq 
                  mi sono reso conto che non era così. Avevamo attaccato 
                  un paese che non ci aveva mai minacciato e portato la devastazione 
                  nell'intero territorio iracheno senza che loro ci avessero fatto 
                  niente. Allora espressi le mie idee, e per tutta risposta mi 
                  dissero di smetterla di pensare così tanto. [...] 
                  Così ho capito che, in sostanza, non avevo altra scelta 
                  che lasciare l'esercito. 
                 Brandon Hughey 
                   
                  Tutte le testimonianze presenti in questa pagina sono state 
                  tradotte da Guido Lagomarsino 
                  
                 
                 
                   
                    Queste 
                        testimonianze 
                      Il 
                        libro About face. Military resisters turn against war 
                        - dal quale abbiamo tratto gli scritti presenti in queste 
                        pagine - raccoglie le testimonianze di disertori, renitenti 
                        e obiettori dell'esercito degli Stati Uniti impiegati 
                        nelle guerre in Iraq e Afghanistan, scoppiate a partire 
                        dal 2001. I loro racconti sulle atrocità della 
                        guerra, gli abusi, i disturbi post-traumatici sono stati 
                        dapprima collezionati dall'associazione canadese “Courage 
                        To Resist” (un gruppo di supporto per militari obiettori) 
                        e in seguito raccolte dai curatori Sarah Lazare, Buff 
                        Whitman-Bradley, Cynthia Whitman-Bradley. Il libro contiene 
                        anche un'intervista a Noam Chomsky. 
                         
                        PM Press è una casa editrice indipendente 
                        fondata a Oakland (California, Stati Uniti) nel 2007 e 
                        specializzata in letteratura anarchica, marxista e radicale; 
                        pubblica saggi, romanzi, opuscoli, disponibili in formato 
                        cartaceo e e-book, oltre a materiali audio e video. 
                      Per 
                        maggiori informazioni sul catalogo PM Press: 
                        www.pmpress.org 
                        info@pmpress.org 
						
                      Sarah Lazare, Buff Whitman-Bradley, Cynthia Whitman-Bradley,
                  About face. Military resisters turn against war
                  (Oakland, CA - USA, 2011, pp. 272, $ 20,00)  | 
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