  
                
  
                 Un'idea 
                  è soltanto un'idea 
                   
                  Scrivo questa breve riflessione stimolata da un paio di articoli 
                  apparsi sul numero 403 di “A” (dicembre-gennaio). 
                  Il primo porta la firma del mio omonimo Andrea (“Un 
                  po' d'anarchia nell'oggi”, pag. 8), il secondo è 
                  l'ultima corrispondenza dal Chiapas di Orsetta Bellani (“Un 
                  futuro già presente”, pag. 22). Con entrambi 
                  mi sono sentita in sintonia - trovando che si completino a vicenda 
                  dato che il secondo esemplifica ciò a cui il primo fa 
                  riferimento - quindi il mio scritto vuole essere solo un'aggiunta, 
                  un pensiero in più. 
                  Un'idea è soltanto un'idea (parafrasando il vecchio Gaber 
                  di almeno quarant'anni fa) e per quanto nobile – quindi 
                  ideale – è pur sempre prodotto umano, quindi suscettibile 
                  di evoluzione e cambiamenti anche radicali; infatti, come afferma 
                  il citato Gustavo Esteva nello scritto di Orsetta, vivere la 
                  fine non solo di un periodo storico (determinato dalle grandi 
                  ideologie che in qualche modo sono servite per ricostruire la 
                  società occidentale dopo le due guerre mondiali), ma 
                  di un'era – come sta succedendo proprio qui da noi in 
                  Europa – esige l'abbandono del tipo di pensiero nel quale 
                  ci siamo formati perché “la natura umana è 
                  un divenire culturale e come tale può essere modificato”. 
                  Questo vale, io credo, anche per l'idea anarchica che, se non 
                  trova nelle persone che la rendono vitale la possibilità 
                  di trasformarsi, è destinata a finire o rimanere aggrappata 
                  alla nostalgia di chi non vede la necessità del tempo. 
                  Questo è quanto mi sembra dica Andrea quando riconosce 
                  tutti quei semi sotto la neve che stanno prendendo la 
                  forma di esperimenti sociali di vario genere che, in questo 
                  periodo, sono le cose più ricche di vita e speranza per 
                  il futuro non soltanto europeo. Infatti – cito dall'articolo 
                  – le esperienze nella zona curda del Rojava e nel Chiapas 
                  messicano sono tra le più significative dal punto di 
                  vista libertario e continuano a sorgere nel mondo situazioni, 
                  momenti, movimenti, sperimentazioni e quant'altro, tutti segnati 
                  da metodologie profondamente libertarie spesso con tratti anarchici, 
                  ma che quasi mai si autodefiniscono tali. 
                  Perché? Ci sarà un motivo per cui le persone che 
                  stanno in quegli esperimenti di vita preferiscono non essere 
                  inquadrate da termini provenienti da un passato storico, seppur 
                  onorevole. 
                  Bisognerebbe tenerne conto nel modo dovuto, dice Andrea, “perché 
                  è un segnale che indica come ci sia una spinta spontanea 
                  di rivolta per ricercare e sperimentare situazioni di tipo anarchico 
                  e libertario (...) che diano un senso vero di liberazione e 
                  libertà sociale”. 
                  Bisognerebbe tenerne conto nel modo dovuto, lo dico anch'io, 
                  e avere il coraggio di mollare gli attaccamenti (che non significa 
                  ripudiare ciò in cui si è creduto e si crede), 
                  rivedendo linguaggi e modi di fare (lo dico da donna che vive 
                  in un ordine sociale maschile fatto di parole, gesti e azioni), 
                  perché il bisogno umano di libertà e giustizia 
                  sociale esiste da prima che qualcuno nell'Ottocento lo chiamasse 
                  anarchia e oggi probabilmente sta cercando di aggrapparsi a 
                  una pluralità di spinte interne ed esterne a ognuno di 
                  noi per le quali quel termine, come tanti altri, è troppo 
                  stretto. 
                  Personalmente trovo proprio in questo l'entusiasmo utile a sostenermi 
                  in questo difficilissimo periodo storico, nella necessità 
                  che il tempo richiede di capovolgere tutto per andare a vedere 
                  in profondità, in quel che rimane, ciò che davvero 
                  conta e che non ha nome, come ogni novità vera. 
                  Credo sia importante riconoscere come le società dell'Occidente 
                  – inteso non tanto geograficamente ma come riferimento 
                  a parametri culturali – hanno perso creatività, 
                  vale a dire la responsabilità del sogno e dell'immaginazione, 
                  sostituiti dall'ideologia del mercato e della finanza. È 
                  chiaro che con sogno non intendo gli importanti accadimenti 
                  notturni di cui ciascuno di noi mantiene più o meno memoria 
                  e auspico faccia il miglior uso che gli è possibile, 
                  ma parlo di sogno come atteggiamento vigile e di immaginazione, 
                  come elemento da affiancare alla speranza, quali spinte che 
                  consentono di creare la novità che si nutre non di una 
                  sola idea (come quella anarchica) ma di tutta la storia umana. 
                  Cito a braccio una teologa cristiana – Antonietta Potente 
                  – affermando che proprio nel sogno e nell'immaginazione 
                  c'è spazio per l'invisibile, per l'inedito, il non ancora 
                  conosciuto, forse perché ancora senza nome. Sogno e immaginazione: 
                  iniziativa creativa di noi donne e uomini in cammino nella quotidianità 
                  della realtà più reale dove cerchiamo di portare 
                  cambiamento nei fatti e nelle pratiche della vita di tutti i 
                  giorni, assumendoci l'iniziativa al livello che per ciascuno 
                  è possibile, rimanendo consapevoli che ogni cosmovisione 
                  è relativa al proprio contesto e nessuno può avere 
                  una visione completa e assoluta della realtà. 
                  Anche la corrispondenza di Orsetta Bellani si conclude riprendendo 
                  l'idea di sogno: “Iniziare a sognare e dibattere collettivamente 
                  quello che vogliamo costruire è parte del cammino. Un 
                  cammino che si fa camminando e si cammina chiedendo, con l'energia 
                  che ci muove verso ciò che ancora non è” 
                  (Jerome Baschet da lei citato). 
                  Ma la gran parte degli anarchici non è dentro questi 
                  movimenti - sottolinea Andrea - e qualcosa questo fatto vorrà 
                  pur dire, forse la paura di abbandonare il vecchio per il nuovo 
                  correndo il rischio, però, di diventare simili a cariatidi 
                  dell'anarchia. 
                  Riconosco che, fortunatamente, le pagine di “A” 
                  sono un'eccezione nella disponibilità che dimostrano 
                  a uscire dal coro. Così sarebbe bello vedere l'evoluzione 
                  di questa rivista nel diventare ancora di più centro 
                  di raccolta e testimonianza di tutto quel materiale senza etichetta 
                  che racconta le esperienze di chi sta dalla parte della vita. 
                 Silvia Papi 
                  Gropparello (Pc) 
				   
                   
                  
                  Dibattito Isis.2/ Alcune riflessioni 
                  su Islam, terrorismo e Occidente 
                   
                  All'indomani dei sanguinosi attentati terroristici che lo scorso 
                  13 novembre hanno colpito Parigi, il discorso pubblico occidentale, 
                  in modo compatto, si è prontamente mobilitato nel tentativo 
                  di restituire una narrazione dei fatti che purtroppo non è 
                  stata e non sarà in grado di produrre una riflessione 
                  seria e approfondita sull'argomento. Per quanto comprensibili 
                  e condivisibili, infatti, le unanimi condanne che sono state 
                  scagliate sugli attentatori non serviranno certo ad evitare 
                  future tragedie. Oltre alle parole, serviranno ancora meno l'eventuale 
                  sospensione degli accordi di Schengen, la chiusura delle frontiere 
                  o l'innalzamento di nuovi muri; serviranno a ben poco lo stato 
                  di emergenza, le leggi speciali e il generale aumento delle 
                  misure di sicurezza; ma, soprattutto, non servirà a nulla 
                  un'ennesima campagna bellica come quella che si sta profilando 
                  in questi giorni se non a produrre nuovi adepti tra le fila 
                  di quel terrorismo che si vorrebbe debellare. 
                  Come prima cosa, dunque, sul piano speculativo, occorre andare 
                  oltre le condanne e le sentenze, oltre la retorica e la pratica 
                  della “guerra al terrore” e del richiamo allo scontro 
                  di civiltà – tanto falso quanto inutile, seppure 
                  sempre estremamente efficace sul piano del consenso mediatico 
                  e politico - per cominciare invece a porsi alcune domande fondamentali 
                  e interrogarsi quindi sui molti doverosi perché. Occorre 
                  cercare spiegazioni, non certo impossibili giustificazioni, 
                  ma elementi di comprensione utili a definire il fenomeno del 
                  terrorismo cosiddetto islamista evitando anzitutto di cadere 
                  nell'errore di ridurlo alla dimensione imperscrutabile della 
                  follia. Affermare che i terroristi rispondono unicamente alla 
                  pazzia – come da molti è stato fatto sull'onda 
                  dello sconcerto - può offrire un comodo riparo al nostro 
                  istintivo disorientamento e, ancor di più, alle nostre 
                  coscienze, ma significa arrestare il pensiero a un piano estremamente 
                  superficiale della questione e soprattutto significa inevitabilmente 
                  non capire la portata storica di quei gesti nichilistici. 
                  La prima domanda domanda da porsi, allora, nel caso degli attentatori 
                  di Parigi - tanto quelli che hanno assaltato la redazione di 
                  Charlie Hebdo quanto i protagonisti di questo sanguinoso 13 
                  novembre -, non può che essere relativa alla loro identità. 
                  Molto semplicemente c'è da chiedersi chi sono. La risposta 
                  è altrettanto semplice e non lascia indifferenti per 
                  almeno due motivi. Sappiamo infatti che il massacro di Charlie 
                  Hebdo è stato perpetrato da due giovani fratelli di nazionalità 
                  francese e che anche cinque degli attentatori del 13 novembre 
                  erano francesi, mentre quella che viene ritenuta la “mente” 
                  dell'operazione, Abdelhamid Abaaoud, era di nazionalità 
                  belga. Questo dunque il primo motivo: si trattava a pieno titolo 
                  di cittadini europei, nati e cresciuti nel cuore dell'Occidente, 
                  nella nostra civile e democratica Europa, e non oltre quel confine 
                  immaginario che separa il Noi dal tutti-gli-altri. Come hanno 
                  scritto quattro insegnanti di Sein-Saint-Denis, “quelli 
                  di Charlie Hebdo erano i nostri fratelli: li piangiamo come 
                  tali. I loro assassini erano orfani, in affidamento: pupilli 
                  della nazione, figli di Francia. I nostri figli hanno quindi 
                  ucciso i nostri fratelli. Tragedia. In qualsiasi cultura questo 
                  provoca quel sentimento che non è mai evocato da qualche 
                  giorno: la vergogna”. E concludevano dunque ribadendo 
                  che certamente siamo Charlie Hebdo, ma siamo anche i genitori 
                  dei loro assassini. E tale paternità, occorre riconoscerlo, 
                  non è esclusiva francese ma, appunto, europea, occidentale. 
                   
                  Mentre in Place de la Republique... 
                  Alla luce di questo dato, il secondo motivo che non può 
                  lasciare indifferenti riguarda appunto la costruzione mediatico-politica 
                  del terrorista come mostro alieno, nel vero senso etimologico 
                  della parola: colui che viene da fuori e che è straniero, 
                  estraneo al nostro mondo, alla nostra cultura, ai nostri valori, 
                  in sintesi, alla nostra civiltà (ammesso e non concesso 
                  di possedere un'identità da leggere in questo senso). 
                  Una costruzione per niente ingenua o frutto di superficialità, 
                  ma perfettamente funzionale e strumentale al potere politico: 
                  “La Francia è in guerra”, ha infatti ben 
                  presto dichiarato Hollande. E non intendeva certo una guerra 
                  civile. Il nemico è stato subito proiettato oltre il 
                  giardino di casa, al di là della Fortezza Europa, nella 
                  lontana Siria, a Raqqa, quartier generale di quel sedicente 
                  Stato Islamico che ha orgogliosamente rivendicato le morti parigine. 
                  E così le prime bombe non si sono fatte attendere a lungo. 
                  Ma le ricadute politiche e giuridiche che la reazione del governo 
                  francese ha determinato non sono meno preoccupanti e colpiscono 
                  indiscriminatamente tanto i cittadini francesi quanto i migranti 
                  – e non solo - di tutta Europa. In deroga alla Convenzione 
                  europea di salvaguardia dei diritti dell'Uomo e delle libertà 
                  fondamentali (CEDU), che limita la durata dello stato di 
                  emergenza a un massimo di dodici giorni. 
                  Il Consiglio dei Ministri francese ha decretato che, data la 
                  gravità della situazione, questo sarà eccezionalmente 
                  mantenuto in vigore per tre mesi. Si tratta di una decisione 
                  di una forte e inquietante deriva autoritaria che l'opinione 
                  pubblica francese ed europea in generale, concentrata sulla 
                  propria sicurezza, non ha immediatamente recepito come tale, 
                  dunque come una grave minaccia alla propria libertà. 
                  Solo quando alla popolazione francese è stato vietato 
                  di scendere nelle strade di Parigi e manifestare pubblicamente 
                  contro la conferenza sul clima (Cop21) inaugurata lo scorso 
                  29 novembre in molti si sono finalmente resi conto della pericolosità 
                  di tale provvedimento. Ancora più recentemente, il filosofo 
                  Giorgio Agamben ha ricordato come lo stato di emergenza, lungi 
                  dal costituire uno scudo per lo stato di diritto, offra invece 
                  la possibilità concreta del suo rovescio, come accadde 
                  in Germania durante il regime hitleriano. E così, mentre 
                  sul selciato di Place de la Republique venivano deposte 
                  migliaia di innocue scarpe colorate, altrove, decine di militanti 
                  ecologisti e ambientalisti, di appartenenti ai movimenti antagonisti, 
                  ma anche di semplici agricoltori, subivano irruzioni improvvise 
                  nelle proprie abitazioni (senza mandato), perquisizioni personali 
                  e fermi preventivi grazie al benestare del sopraccitato stato 
                  di emergenza. 
                  Di pari passo, dal giorno degli attentati, migliaia di cittadini 
                  francesi (ma dall'apparente origine straniera e presumibilmente 
                  prestanti fede musulmana) vengono sistematicamente fermati e 
                  controllati per scopi identificativi. Il clima di prove generali 
                  di sospensione di alcuni dei diritti fondamentali dell'uomo, 
                  quali tra gli altri la libertà di circolazione e di riunione, 
                  non si è arrestato (è il caso di dirlo) al cospetto 
                  della Alpi. Ne abbiamo sentito il riverbero anche in Italia, 
                  quando il 24 novembre, decine di forze dell'ordine in tenuta 
                  antisommossa hanno fatto irruzione presso il centro di accoglienza 
                  “Baobab” di Roma, perquisendone i locali e trasportando 
                  in questura ventiquattro ragazzi migranti per non meglio precisati 
                  accertamenti. Per non parlare del Belgio, dove la capitale Bruxelles 
                  è stata blindata e militarizzata per diversi giorni, 
                  tenendo l'intera cittadinanza ostaggio delle proprie case e 
                  del terrore: scuole, metropolitana e cinema chiusi, concerti 
                  annullati e campionato di calcio sospeso. 
                   
                  Infiniti non-luoghi 
                  Riprendendo il filo del discorso, tuttavia, una volta trovata 
                  la risposta all'identità degli attentatori parigini e 
                  compresa dunque la loro totale appartenenza al mondo europeo 
                  ed occidentale, occorre porsi una seconda e ben più complessa 
                  domanda: perché? Dove risiede la motivazione di tanto 
                  odio? Da cosa si origina un tale livore nei confronti della 
                  terra che li ha cresciuti? La prima risposta, quasi un riflesso 
                  condizionato, associa istintivamente gli eccidi parigini allo 
                  scontro di civiltà o, meglio ancora, a una presunta guerra 
                  di religione, identificando nell'islam radicale la radice di 
                  tale fenomeno, definito, appunto, terrorismo islamico. D'altra 
                  parte, che il sedicente ISIS - o DAESH che dir si voglia - sia 
                  una realtà concreta responsabile di atrocità enormi, 
                  compresa la strage di Parigi, è un dato di fatto incontrovertibile 
                  che nessuno può e vuole mettere in dubbio. E tuttavia 
                  questa risposta non pare sufficiente a spiegare la questione 
                  nella sua complessità. 
                  Da un lato, dunque, occorre volgere lo sguardo ai luoghi più 
                  vicini a noi, quei luoghi delle nostre città, le periferie 
                  suburbane, nei quali gli attentatori sono appunto nati e cresciuti, 
                  nei quali si sono letteralmente formati e hanno maturato l'odio 
                  sociale e religioso sviluppandolo fino alle ultime conseguenze. 
                  Un sottosuolo, appunto, quasi sempre relegato a se stesso, 
                  taciuto e negato, dove la mano dello Stato si allunga solo per 
                  castigare e reprimere. 
                  È a partire da queste terre di nessuno, da questi infiniti 
                  non-luoghi, che occorre invece intervenire con uno sforzo e 
                  un investimento consistente di matrice politica e culturale 
                  al fine di prevenire ed evitare la produzione di pericolose 
                  sacche di emarginazione ed esclusione dove facilmente si può 
                  cadere prede di richiami identitari estremistici, tanto religiosi 
                  quanto sociali. 
                  Dall'altro lato però occorre contemporaneamente volgere 
                  lo sguardo anche ai luoghi più lontani, nel tempo e nello 
                  spazio. Ed è qui che si rende indispensabile adottare 
                  un criterio di indagine che, per dirla con l'antropologo statunitense 
                  Paul Farmer, sia quanto più possibile storicamente 
                  profondo e geograficamente ampio. Occorre dunque 
                  abbandonare le quattro decrepite mura della fortezza europea 
                  per affacciarsi oltre le acque del mediterraneo e dell'oceano, 
                  senza timori, volgendo lo sguardo all'indietro, ai tempi delle 
                  colonie americane ed africane e dunque ripercorrere la Storia 
                  con il pensiero rivolto da un lato a ciò che si proclamava 
                  proprio in Francia sui concetti di libertà, uguaglianza 
                  e fratellanza - declamati e rivendicati alla stregua di diritti 
                  universali -, e dall'altro a ciò che invece avveniva 
                  nella realtà, ad esempio ad Haiti, dove la stessa Francia 
                  cercò invano di reprimere nel sangue la rivolta degli 
                  schiavi neri che pretendevano di credere negli stessi valori 
                  della madrepatria o, ancora più recentemente, in Algeria, 
                  dove per otto lunghi anni sempre la Francia si impegnò 
                  in tutti i modi possibili – e di nuovo invano – 
                  per sconfiggere la giusta battaglia per l'indipendenza del popolo 
                  algerino. 
                  Sono solo due esempi utili a rendere l'idea di come il discorso 
                  civile o illuministico che dir si voglia occidentale, lungi 
                  dall'essere universale, sia invece sempre stato un costrutto 
                  autoreferenziale, presupponendo di per sé le condizioni 
                  di quella che solo oggi viene riconosciuta come la divisione 
                  tra Noi e Loro. Una divisione e una separazione volute e create 
                  fin dai primordi dell'Occidente, poiché solo grazie a 
                  questa divisione e a questa separazione di natura evidentemente 
                  gerarchica l'Europa ha potuto edificarsi e proclamarsi superiore, 
                  ovvero a scapito di tutti-gli-altri. Non è possibile 
                  parlare di Europa e di Occidente senza fare i conti con il nostro 
                  passato recente; senza fare i conti con lo schiavismo, il colonialismo, 
                  l'imperialismo e, più in generale, con ogni forma di 
                  sfruttamento. E non è possibile per il semplice motivo 
                  che ne siamo il prodotto culturale e materiale. Finché 
                  non proveremo a decolonizzare il nostro pensare e il nostro 
                  agire non potremo mai superare quella linea del colore 
                  – per dirla con Du Bois - che ancora separa il Noi dal 
                  tutti-gli-altri, i civili dai non-civili. 
                   
                  Macabra contabilità della morte 
                  Fino ad allora continueranno a valere le parole di Talal Asad 
                  secondo cui “la percezione che la vita umana abbia un 
                  valore di scambio differente nel mercato della morte a seconda 
                  che si tratti della vita di persone 'civilizzate' o 'non 
                  civilizzate' non è solo assai comune nei paesi liberaldemocratici: 
                  è funzionale a un ordine mondiale gerarchico”1. 
                  A questo proposito, entro l'ottica di uno sguardo capace di 
                  allargare gli orizzonti del discorso al di là dei confini 
                  europei ed occidentali, si profila un'ulteriore riflessione 
                  dai risvolti tanto sorprendenti quanto significativi. Stando 
                  all'ultimo rapporto del Global Terrorism Index2, 
                  infatti, negli ultimi 15 anni, le vittime occidentali del terrorismo 
                  (islamista o meno) sono pari al 2,6% del totale e, se si escludono 
                  le morti legate agli attentati dell'11 settembre 2001, la percentuale 
                  scende ulteriormente allo 0,5. 
                  Ciò significa che, malgrado il bassissimo impatto mediatico, 
                  la quasi totalità delle vittime del terrorismo mondiale 
                  si conta in paesi non-occidentali, primi fra tutti Iraq, Nigeria 
                  e Afghanistan. Un dato altrettanto inaspettato riguarda il principale 
                  gruppo terroristico per numero di morti, ovvero Boko Haram e 
                  non, come si potrebbe immaginare, l'ISIS. Ma ciò che 
                  colpisce di più in questa macabra contabilità 
                  della morte riguarda il fatto che la stragrande maggioranza 
                  delle vittime non è di religione cristiana o ebrea, ma 
                  musulmana. Basti pensare che solo nel 2015 i morti islamici 
                  per mano terrorista sono stati oltre 23mila, contro i 148 caduti 
                  in Europa tra Parigi (7 gennaio e 13 novembre) e Copenaghen 
                  (14/15 febbraio). È dunque questo il terreno su cui cominciare 
                  a riflettere seriamente, per porsi altre necessarie domande 
                  e tentare qualche doverosa risposta. 
                 Raúl Zecca Castel 
                  Monza (MB) 
                Note  
                  1 ASAD T., Il terrorismo suicida. Una chiave per comprenderne 
                  le ragioni, Ed. Cortina, p. 92 
                  2 
                  http://economicsandpeace.org/wp-content/uploads/2015/11/Global-Terrorism-Index-2015.pdf 
				   
                   
                  
                  Anarchia, letteratura e le 
                  mistiche 
                   
                  Le coordinate dello spirito - si sa - sono anarchiche. Così 
                  mi capita di ripensare ad un discorso espresso in una circostanza 
                  passata e sentirlo al presente, o subito dopo, come un lascito 
                  vago, qualcosa rimasto in sospeso. 
                  È un bene? È un male? Chissà? È 
                  un dato di fatto: le cose esigono tempo. Premono – fuori 
                  dal tremore del momento – a riprendere il filo del discorso 
                  e a cercare di intrecciarlo, con un punto a orlo un po' sghembo, 
                  nel cuore della cosa. 
                  A Massenzatico per la festa 
                  dei 400 numeri di A, in combinata con Massimo Ortalli, mi 
                  è stata data l'opportunità di dire la mia su letteratura 
                  e anarchia. 
                  Non intendo rinnegare ora la mia affermazione di allora – 
                  la letteratura è detestabile in quanto fuori dall'atto 
                  di scrivere – ma riprendere il contrappunto in rapporto 
                  all'altro lato della questione, articolandolo alla dimensione 
                  ideale dell'anarchia. 
                  Dove? Come? Con quali passaggi abbordare atto dello scrivere 
                  e contesto anarchico senza confonderli e sentirli tuttavia vivere 
                  (quasi) morbosamente? Attraverso la scrittura mistica, la cui 
                  natura misteriosa scorre, non di meno dell'ideale anarchico, 
                  su impietosi silenzi. 
                  Ecco, posso ora rispondere più concretamente alla richiesta 
                  di Carlotta che, da giovane anarchica qual è, sollecitava, 
                  a incalliti anarchici che siamo, suggerimenti di lettura. 
                  I testi delle mistiche e dei mistici di ogni tempo – le 
                  dico ora – e le raccomando di non forzare la lettura in 
                  cerca di quella neutralità in cui si crede consista il 
                  pensiero oggettivo, come se il pensare soggettivo non facesse 
                  parte del contesto ragionante; che (ci) si abbandoni alla lettura 
                  come a qualcosa di cui al primo impatto, ingombrati come siamo 
                  di noi stessi e delle nostre certezze, si capisce quasi niente 
                  e che forse, con una dose di distacco, si avverte evocatrice 
                  intima di qualcosa di prezioso, di perfettamente incomprensibile 
                  in grado di orientarci. Stare alla lettera è una virtù 
                  semplice quanto difficile da preservare, perché ci si 
                  aspetta in fondo di essere confermati. 
                  Stando in prossimità del testo mistico ci si accorge 
                  di una semi-assenza di chi scrive, si dice sia la morte dell'io 
                  necessaria all'autore. Far resistenza ad essa per paura di risultare 
                  ignobile è rifiutare la verità che pur in minima 
                  parte è sempre tutta. Il torpore di chi scrive si presenta 
                  nell'articolazione paratattica della prosa e si manifesta altresì 
                  nel verso lirico della poesia. L'autore mistico non argomenta 
                  niente, non dice nulla, non si pronuncia su niente, non ha disposizioni 
                  da opinionista, non sa lui stesso dove andrà a parare. 
                  Si abbandona alla risonanza in tutta semplicità – 
                  come la linearità paratattica attesta e l'illuminazione 
                  poetica arriva, se arriva, come epifania di parola. In sintesi, 
                  la verità nuda non ha perché nè di fine 
                  né di causa. 
                  Non disgiungere mai l'opera dall'autore, è stato l'altro 
                  suggerimento. Lo ribadisco in questo senso: i testi di mistiche 
                  e di mistici che, stando alla sostanza della lettera per le 
                  une e per gli altri, non è un'attribuzione generica, 
                  sono il testo vivo di un corpo erotico che (ci) parla nel tempo 
                  e in tempo reale; dicono di un soggetto fuori di sé a 
                  prescindere da sé stesso. Non per caso, Jacques Lacan 
                  giudicò gli scritti di mistiche e di mistici cose di 
                  «gente seria»... 
                  La dismisura che sostiene l'azzardata combinazione di mistica 
                  e anarchia sta nella dimensione ideale e politica di quest'ultima 
                  in base alla considerazione che il fine dell'azione sta già 
                  nel mezzo utilizzato, così come nella scrittura mistica 
                  la meta è già il percorso. 
                  Le utopie autoritarie, come i sistemi totalitari dalle quali 
                  dipendono, hanno per contro la pretesa di fare del proprio sogno 
                  il sogno di tutti e di realizzarlo a tutti i costi, deprivando 
                  gli altri della possibilità stessa di avere sogni e sogni 
                  differenti da quello del dominio. In vero, c'è da rilevare 
                  che i sistemi totalitari, almeno all'inizio, hanno assai poco 
                  da reprimere, essendo nutriti proprio da quella mancanza di 
                  pensiero vivo e di sogno creatore... 
                  La libertà autentica non è definita in rapporto 
                  a desiderio e soddisfazione ma in rapporto a pensiero e azione, 
                  che non reggono una perfetta coerenza logica, insorgono in parziali 
                  verità di reale vivente. 
                  L'idealità anarchica non pecca di realismo nel mantenersi 
                  viva sul piano ideale. Degrada per l'illusione di possibilità. 
                  Il possibile è il luogo dell'immaginazione e quindi della 
                  degradazione. Bisogna volere o ciò che precisamente esiste, 
                  o ciò che non può affatto essere; meglio ancora 
                  ambedue. Giacché non si tratta di consolarsi preservando 
                  solamente la purezza ideale fuggendo l'esistente dove, nel tempo 
                  continuo del qui-ora, la mediazione vivente tra realtà 
                  e irrealtà è la mediazione necessaria. Altrimenti 
                  detto: esserlo non farlo. 
                  La testualità anarchica inscrive la traversia assai movimentata 
                  dell'essere-già, in procinto, di non essere-ancora, tra 
                  dicibile e indicibile. 
                  Come la testualità mistica non è partorita per 
                  concepire pregressi canoni di uno specifico genere letterario 
                  – sarà ciò che avverrà – così 
                  su altro piano la tradizione anarchica si svolge al di qua di 
                  qualsiasi adesione programmatica, non si basa su attestazioni 
                  associative finalizzate a inscrizioni statuali. 
                  La scrittura in qualsiasi genere si manifesti è un fatto 
                  mistico. D'altronde scrivere su qualcosa (di già scritto), 
                  rende incomprensibile l'uno l'altro. La pagina bianca con tanto 
                  di margine da una parte e l'ideale senza fine dall'altra sono 
                  in rapporto analogico con verità ed esistenza. Anarchia 
                  e mistica, pietre di autori nudi. Autori nudi perturbanti se 
                  da sempre nella cultura occidentale mistica e lettera anarchica 
                  sono al bando. 
                  Il corpo del testo mistico si concretizza nello scrivere sulla 
                  scrittura scrivendo. 
                  Il corpo del testo anarchico è rigenerato dalle stesse 
                  sconfitte nella presa del palazzo. Sconfitte che costituiscono 
                  altrettante proprie vittorie. 
                  Mistica e anarchia stanno al sodo, all'essenziale, alla nuda 
                  verità delle cose e delle relazioni: impersonali nel 
                  corpo mistico, personali e politicamente dirette quelle del 
                  corpo anarchico, che sembrano farne il luogo senza delega del 
                  potere di chi non ha potere. 
                  Se è vero che il senso della politica, cosa del tutto 
                  altra dal potere, esige un lavoro su se stessi in rapporto singolare 
                  alle cose del mondo, allora mistica e anarchia condividono non 
                  tanto la virtualità morale quanto piuttosto la dismisura 
                  di un'esperienza che le eccede. 
                 Monica Giorgi 
                  Bellinzona (Svizzera) 
                   
                
                   
                    Bibliografia minima sragionata 
                      Clarice 
                        Lispector, La passione secondo G.H.; L'ora della stella 
                        Margherita Porete, Lo specchio delle anime semplici 
                        Amélie Nothomb, Metafisica dei tubi; Cosmetica 
                        del nemico 
                        Søren Kierkegaard, Stadi sul cammino della vita 
                        Marìa Zambrano, Filosofia e poesia; Il sogno 
                        creatore 
                        Franz Kafka, Indagine di un cane 
                        Hadwjch d'Anversa, Lettere 
                        Max Stirner, L'unico e la sua proprietà 
                        Antonietta Potente, Cuando? Ahora - le coordinate anarchiche 
                        della misticapolitica 
                        Piötr Kropotkin, Il mutuo appoggio 
                        www.marapaltrinieri.wordpress.com; www.marapaltrinieri.youtube 
                        Simone Weil, L'ombra e la grazia; Dichiarazione degli 
                        obblighi verso l'essere umano 
                        Juan de la Cruz, Notte oscura; Cantico spirituale 
                        Meister Eckhart, Sermoni tedeschi 
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                          nostri fondi neri 
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                           Sottoscrizioni. Edy Zarro (Caslano – 
                            Svizzera) 17,00; Danilo Vallauri (Dronero – 
                            Cn) 10,00; Aldo Curziotti (Felegara – Pr) 10,00; 
                            Salvatore Pappalardo (Acireale – Ct), 40,00; 
                            Saverio Nicassio (Bologna) 10,00; Libreria San Benedetto 
                            (Genova Sestri Ponente – Ge) 3,50; Camilla Galbiati 
                            (Robecco sul Naviglio – Mi) 40,00; Aurora e 
                            Paolo (Milano) ricordando Alfonso Failla e Amelia 
                            Pastorello, 500,00; Maria Teresa Giorgi Pierdiluca 
                            (Senigallia – An) 10,00; Rino Ermini (Villa 
                            Cortese – Mi) 10,00; Paolo Facen (Feltre – 
                            Bl) 10,00; Benedetto Di Pietro (Aielli Stazione – 
                            Aq) 10,00; Luigi Vivan (San Bonifacio – Vr) 
                            10,00; Sergio Pozzo (Arignano – To) 10,00; Anita 
                            Pandolfi (Castel Bolognese – Ra) 10,00; Franco 
                            Schirone (Milano) 100,00: Dino Delcaro (San Francesco 
                            al Campo – To) 10,00; Carlo Capuano (Roma) 10,00; 
                            Gualtiero Mannelli (Pistoia) 20,00; Vincenzo Argenio 
                            (San Nazzaro – Bn) 30,00; Giovanna Quadri Giannazzi 
                            (Origlio – Svizzera) 67,00; Gianni Ricchini 
                            (Verbania) 10,00; Gianni Forlano e Marisa Giazzi (Milano) 
                            “buon anno ad A”, 100,00 Angelo Pizzarotti 
                            (Borsano di Calestano – Pr) 10,00; Enrico Calandri 
                            (Roma) 100,00; Gabriele Lugaro (Savona) 20,00; Marco 
                            Giusfredi (Chignolo Po – Pv) 100,00. Totale 
                            € 1.277,50. 
                          Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti 
                            specificato, trattasi di euro 100,00). Selva 
                            Varengo e Davide Bianco (Lugano – Svizzera); 
                            Mariella Bernardini e Massimo Varengo (Milano); Ettore 
                            Valmassoi (Quero – Bl); Mario Perego (Carnate 
                            – Mb) 250,00; Andrea Morigi (Savignano sul Rubicone 
                            – Fc); Renzo Bresciani (Campi Bisenzio – 
                            Fi); Luca Todini (Brufa Torgiano - Pg); Giacomo Ajmone 
                            (Milano); Salvatore Piroddi (Arbatax – Og); 
                            Fantasio Piscopo (Milano); Andrea Della Bosca (Morbegno 
                            – So); Alberto Ramazzotti (Muggiò – 
                            Mb) 150,00; Marco Bianchi (Arezzo); Liana Borghi (Firenze); 
                            Amedeo Pedrini e Fiorella Mastrandrea (Brindisi); 
                            Silvio Gori (Bergamo) ricordando Egisto, Marina e 
                            Minos Gori, 150,00; Milena Soldati (Clermont Ferrand 
                            – Francia) 150,00; Fabrizio Fazio (Serrastretta 
                            – Cz); Andrea Della Bosca (Morbegno – 
                            So); Silvano Montanari (san Giovanni in Persiceto 
                            - Bo). Totale € 2.300,00. 
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