rivista anarchica
anno 45 n. 404
febbraio 2016





Milano/
Nutrire i popoli preservando il pianeta

”La sovranità alimentare è il diritto dei popoli a produrre con metodi ecologicamente sostenibili il cibo nutriente e culturalmente appropriato di cui hanno bisogno, e quindi il loro diritto a determinare i propri sistemi agricoli e alimentari”.
(Dalla Dichiarazione finale del Forum per la sovranità alimentare, Nyéléni, Mali, 27 febbraio 2007, www.nyeleni.org)
“L'agroecologia è politica. Essa ci impone di sfidare e trasformare le strutture del potere nelle nostre società. Noi vogliamo e dobbiamo porre il controllo dei semi, della biodiversità, della terra, dell'acqua, della conoscenza, della cultura e dei beni comuni nelle mani dei popoli che nutrono il pianeta”.
(Dalla Dichiarazione del Forum internazionale per l'agroecologia, Nyéléni, Mali, 27 Febbraio 2015, www.foodsovereignty.org)
Ora che la grande macchina illusionistica e propagandistica di Expo2015 ha finalmente chiuso i battenti, credo sia necessario raccogliere e rilanciare la sfida culturale rappresentata dai temi che lo hanno - più o meno pretestuosamente - caratterizzato, e cioè agricoltura e alimentazione. Temi cruciali per il futuro del pianeta, su cui è importante proporre una visione alternativa a quella dei governi e delle multinazionali.

Il fallimento dell'agricoltura industriale

Oggi è infatti davanti agli occhi di tutti il fallimento delle politiche agricole e commerciali promosse negli ultimi decenni dagli organismi internazionali (Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale, Organizzazione Mondiale del Commercio) e sponsorizzate dai “padroni del cibo”, ovvero dalle grandi multinazionali della produzione, trasformazione e distribuzione alimentare.
La diffusione su vasta scala dell'agricoltura industriale - basata sulla monocultura, gli organismi geneticamente modificati, l'uso massiccio di carburanti fossili e pesticidi - e la liberalizzazione del mercato dei prodotti agricoli, non solo non hanno risolto il problema della fame e della denutrizione, che affligge oggi circa 850 milioni di abitanti del pianeta, ma hanno anzi contribuito ad aggravarlo. Queste politiche hanno infatti comportato, da un lato, l'allontanamento di decine di migliaia di piccoli agricoltori e allevatori dalle loro terre (land grabbing) e, dall'altro, la distruzione dei mercati agricoli locali, inondati dalle eccedenze agricole dei paesi ricchi (dumping).
Il risultato di questi devastanti processi di sradicamento ed espropriazione è stato quello di aumentare il numero di persone che, cacciate dalla loro terra, affollano gli slums delle megalopoli o migrano, in cerca di fortuna, verso le regioni ricche del Nord del pianeta.
Senza contare i danni incalcolabili che l'agricoltura industriale ha prodotto e continua a produrre in termini di inquinamento di aria, acqua, terra e di distruzione della biodiversità.

La sovranità alimentare

Oggi è dunque più che mai necessario denunciare i guasti provocati dalla agricoltura industriale e gli ingiusti meccanismi del mercato agroalimentare mondiale, per costruire dal basso e promuovere le alternative possibili. In particolare occorre far conoscere e diffondere le idee e le buone pratiche riconducibili al paradigma della sovranità alimentare, ovvero del diritto dei popoli e delle comunità a produrre autonomamente, in modo ecologicamente sostenibile, il cibo salubre e culturalmente appropriato di cui hanno bisogno.
Inizialmente elaborato da La Via Campesina (www.viacampesina.org) - rete internazionale che raggruppa circa 200 milioni di agricoltori, contadini senza terra, donne rurali e comunità indigene appartenenti a 167 organizzazioni locali di 88 paesi di Africa, America, Asia ed Europa - il paradigma della sovranità alimentare è oggi diventato il terreno di incontro tra questi movimenti e la parte più radicale e consapevole delle associazioni ambientaliste, delle organizzazioni non governative che si occupano di cooperazione internazionale, del movimento del commercio equo e dei gruppi d'acquisto solidale.
Fare proprio il programma politico della sovranità alimentare significa:

  • affermare che il cibo non è una merce ma un diritto;
  • sostenere le lotte per l'accesso delle comunità locali alla terra, all'acqua, alle sementi;
  • contrastare il consumo del suolo fertile per scopi non agricoli (commerciali, residenziali, industriali o infrastrutturali);
  • favorire i sistemi di coltivazione tradizionali, naturali, biologici (agroecologia);
  • assicurare agli agricoltori una giusta retribuzione per i loro prodotti e il loro lavoro;
  • riconoscere e promuovere il ruolo delle donne nella produzione di cibo.

Si tratta insomma di far conoscere e sostenere il modello dell'agricoltura famigliare, contadina, di comunità, cooperativa, prioritariamente orientata alla produzione di cibo per l'autoconsumo e la vendita diretta nei mercati locali, che ha dimostrato di essere efficace non solo nel garantire una vita dignitosa agli agricoltori e alle loro famiglie, ma anche nel tutelare l'ambiente e la biodiversità.
Questo modello - alternativo a quello dell'agricoltura industriale - merita di essere sostenuto non solo nel Sud del mondo, ma anche nei cosiddetti “paesi sviluppati”.
Anche in Italia esiste infatti un'agricoltura di piccola scala, a dimensione famigliare, comunitaria o cooperativa, condotta con metodi naturali o biologici, che rischia di scomparire sotto il peso di leggi e regolamenti pensati per l'agricoltura imprenditoriale e industriale. Eppure l'agricoltura contadina, oltre a produrre occupazione e reddito, contribuisce a mantenere popolate le campagne e la montagna, a conservare la fertilità della terra e la diversità del paesaggio, a mantenere vivi i saperi e i prodotti locali.
Molti di questi “contadini per scelta” si sono inoltre caratterizzati negli ultimi anni come partners dei gruppi d'acquisto solidale e protagonisti dei mercati locali, rurali, a filiera corta e a km zero che animano i nostri paesi e le nostre città, dando vita a una nuova relazione tra produttori e consumatori fondata sulla conoscenza reciproca, la condivisione dei problemi, il mutualismo. Essi svolgono dunque una funzione sociale ed ecologica, oltre che economica, che merita di essere riconosciuta e valorizzata (www.agricolturacontadina.org).

Coltivare la speranza

Le lotte dei movimenti contadini per la sovranità alimentare e l'agroecologia riguardano dunque tutti noi. Proponendosi di porre il controllo della terra, dell'acqua, delle sementi, della biodiversità, dei saperi e dei beni comuni nelle mani di coloro che nutrono il pianeta, strappandolo alle grinfie dei governi e delle multinazionali, queste lotte rappresentano una sfida radicale alle attuali strutture del potere economico e politico, sia a livello locale che a livello globale.
In particolare esse sfidano un modello di produzione che - nel Nord come nel Sud del pianeta - tende a sostituire i contadini con braccianti stagionali costretti a lavorare in condizioni di vera e propria schiavitù, e un modello alimentare che riserva ai ricchi il cibo sano e nutriente per lasciare ai poveri la fame o, al massimo, il cosiddetto “cibo spazzatura”.
Dall'esito di queste lotte non dipende solo il futuro della nostra alimentazione ma anche - e in misura rilevante - la possibilità di costruire un mondo migliore, basato sulla giustizia sociale e l'armonia con il pianeta. Per questo è importante che - superato un certo pregiudizio “progressista” ancora oggi diffuso nei confronti del mondo contadino - intorno ad esse si sviluppi una vasta rete di solidarietà.

Ivan Bettini
ivan.bettini@rcm.inet.it
Coordinamento economia solidale della Martesana (Milano)

Il Coordinamento economia solidale della Martesana è una rete di gruppi di acquisto solidale, cooperative, associazioni e aziende che operano nel territorio compreso tra la città di Milano e il fiume Adda, lungo il corso del Naviglio Martesana.
Il nostro obiettivo è quello di arrivare gradualmente alla costruzione di un distretto di economia solidale, cioè di una rete stabile e duratura di soggetti che si aiutano a vicenda per soddisfare i propri bisogni di acquisto, vendita, scambio e dono di beni, servizi e informazioni.
I criteri che guidano la nostra azione sono la giustizia sociale e il rispetto delle persone, la solidarietà, la tutela dell'ambiente, il sostegno all'economia locale e il rapporto attivo con il territorio.
Il nostro metodo di lavoro è basato sui principi della partecipazione e dell'autorganizzazione.

Bibliografia minima

Altieri Miguel, Agroecologia: prospettive scientifiche per una nuova agricoltura, Padova, Muzzio 1991
Canale Giuseppe, Ceriani Massimo, Contadini per scelta. Esperienze e racconti di nuova agricoltura, Milano, Jaca book 2013
Centro Nuovo Modello di Sviluppo, I padroni del nostro cibo, Vecchiano (PI), 2015 scaricabile dal sito www.cnms.it
Davis Mike, Il pianeta degli slum, Milano, Feltrinelli 2006
Liberti Stefano, Land grabbing: come il mercato delle terre crea il nuovo colonialismo, Roma, Minimum fax 2011
Patel Raj, I padroni del cibo, Milano, Feltrinelli 2008
Perez-Vitoria Silvia, Il ritorno dei contadini, Milano, Jaca book 2007
Perez-Vitoria Silvia, La risposta dei contadini, Milano, Jaca book, 2011
Potito Michela e Borghesi Roberta, Genuino clandestino: viaggio tra le agri-culture resistenti ai tempi delle grandi opere, Firenze, Terra Nuova 2015




Lugano/
Sulle note di De André

“Faber per sempre” il 26 settembre a Lugano. Bastano queste poche parole per catturare l'attenzione. Chi sono? La band che ripropone i brani di Fabrizio De André è patrocinata dalla Fondazione De André, gode dunque della “benedizione” di Dori Ghezzi, una bella garanzia; Pier Michelatti, storico bassista del cantautore genovese, è il “fondatore” della band. Quasi quasi ci vado. Leggo una sua intervista su un quotidiano locale pochi giorni prima del concerto: mi intriga, parla del suo piacere di suonare ancora questi brani indimenticabili, di trasmetterli nel tempo. E poi il concerto è a scopo benefico. Qualche perplessità ce l'ho ancora, un minimo di preoccupazione: temo che mi intristisca, o peggio che mi infastidisca sentire i brani cantati da un'altra voce, e poi forse il carattere inevitabilmente nostalgico peserà un po' sull'atmosfera della serata. Ebbene?
Ho davvero fatto bene ad andarci perché il 26 settembre è stata una serata meravigliosa.
L'inizio è decisamente sorprendente: appare a schermo Wim Wenders, con un bell'inglese chiaro e comprensibilissimo, dato da un sano accento tedesco, e racconta sorpreso e commosso di come ha conosciuto la musica di De André. Una scoperta, una folgorazione, un amore al primo ascolto, l'intenzione di fare un film sul cantautore genovese, mai incontrato di persona. Una bella introduzione, inusuale, che imprime alla serata il carattere più puro e anche “nobile” del ricordo, senza rimpianti ma ricco di gratitudine e sincero apprezzamento per quanto Faber ci ha lasciato.

Anais Drago, violino

Già dalle prime note mi sento inondata dalla serenità, dal piacere di riascoltare, dalla sensazione gradevolissima delle sonorità autentiche, fedeli, da una voce meravigliosa, quella di Ivan Appino, che si inserisce armoniosamente nella strumentazione e nella memoria acustica che tutti abbiamo impressa in modo indelebile in qualche angolo del cervello e del cuore.
Ed è forse proprio questa armonia la cosa più sconvolgente e anche inebriante della serata. Il bello è che poi, superato il primo scoglio, ti fidi, dai piena fiducia ai musicisti sul palco, peraltro eccellenti sia come gruppo sia presi singolarmente come strumentisti. E la fiducia si sa è un circolo virtuoso, genera un'eco, una risonanza, apre porte, rende accoglienti, predispone all'ascolto e alla partecipazione emotiva, all'empatia. Di più, alla simpatia. E non intesa soltanto come disposizione d'animo favorevole, ma persino come fenomeno acustico per cui un corpo sollecitato dalle vibrazioni di un corpo vicino, vibra a sua volta, in perfetta armonia. Questa fiducia si mangia le inevitabili pochissime imperfezioni e ti predispone a godere appieno della qualità delle opere di De André e dell'interpretazione carezzevole e affettuosa, e nel contempo bella tonica, della band.
Affettuosa. Una cosa che ho apprezzato intimamente è che nessuno sul palco gioca al protagonista, tutti interpreti, meravigliosi interpreti.

Pier Michelatti, basso, direzione musicale e arrangiamenti

Una sorta di filosofia di fondo, molto onesta, che è testimone inequivocabile dell'affetto e della sensibilità con cui il gruppo si propone. Lo scopo, la missione che i musicisti di “Faber per sempre” si sono dati - che sul palco è dichiarata e non viene mai disillusa - è far rivivere l'emozione di un concerto live del cantautore genovese. Nessuna produzione discografica dunque, “se volete ascoltarlo a casa, ascoltatevi l'originale” suggerisce Pier Michelatti. E le sue parole, i brevi racconti, qualche simpatico aneddoto che fa da contrappunto ai brani musicali, sono quelli di un amico, che lo ricorda con piacere, che suona con immenso piacere, anche lui per rivivere ancora meravigliose e appassionate sensazioni. “Fosse per noi staremmo qui tutta la notte” dice dopo l'ennesimo bis. È la storia di un'amicizia: leggo sul sito (www.faberpersempre.com) del biglietto scritto da Fabrizio e ritrovato in un'agenda dopo la sua morte: “Caro Pier, non sai il senso di sicurezza che provo nell'ascoltarti alle mie spalle mentre canto. È come sentirsi protetti [...]”. Poche parole che raccontano di un rapporto intenso e intimo.
Ogni concerto è dunque un tramandare emozioni, poesia, cultura; una cultura di autentico ascolto e accoglienza di ogni alterità, di ogni vita ai margini. Anche se le conosciamo tutti e tutte le canzoni di Faber (o quasi), riascoltarle live, cantate e suonate così, fedelmente e con amore, è un modo per riscoprirle, cogliere la precisione delle parole scelte ad una ad una, la loro delicatezza. Lasciarsi sedurre, ancora e ancora. Faber per sempre.

Paola Pronini Medici




Londra/
Le sfide del movimento anarchico contemporaneo

“L'idea dell'Anarchist Bookfair [di Londra] in realtà proviene dal SWP (o International Socialists, come si chiamavano allora). Erano soliti tenere una Socialist Bookfair al Camden Centre. Moltissimi anarchici ci andavano, ma era un evento davvero noioso, costoso e con un sacco di editori di largo consumo. Allora noi anarchici decidemmo di organizzare la nostra versione”.1
Insomma, dobbiamo ringraziare il pessimo lavoro dei trozkisti inglesi se dal 1984 a Londra esiste quella che in italiano è forse più conosciuta come “Vetrina dell'editoria anarchica e libertaria”. Un appuntamento annuale che attira anarchici, simpatizzanti e curiosi da tutto il Regno Unito (ma non solo) per incontri, dibattiti, proiezioni, e ovviamente anche per acquistare libri e materiale d'ispirazione libertaria (dalle magliette con bandiera Makhnovista alle borse di tela contro la caccia).
Anche a seguito dell'altissima affluenza, quest'anno l'Anarchist Bookfair ha cambiato sede. Si è spostata nella centralissima e da poco ristrutturata sede della University of the Arts London, vicino alla stazione di King's Cross. Un imponente granaio ottocentesco in cui il caratteristico austero mattone rosso della facciata lascia posto, appena si entra, alle forme moderne di vetro e acciaio, e a tanta luce che inonda gli ampi spazi interni. Passato e presente uniti con armonia, come dovrebbe essere l'anarchismo di oggi.
L'edizione del 24 ottobre 2015 è stata la mia terza Anarchist Bookfair, ma la prima a cui sono stato invitato come relatore. Come per le edizioni precedenti, sono arrivato verso le dieci per la solita full immersion. I temi degli incontri spaziavano dal primitivismo alla rivoluzione in Rojava, dall'ecologia sociale ad arte&anarchismo, dagli zapatisti a Colin Ward, dalle donne nella lotta armata all'organizzazione sul posto di lavoro. Oltre cinquanta appuntamenti, di una o due ore, in nove aule diverse. E il dilemma, come ogni anno, era sempre lo stesso: quale incontro scegliere quando ce ne sono nove in contemporanea?
Alla fine hanno prevalso “Rete dei centri sociali”, organizzato dai compagni del centro sociale Kebele di Bristol, e la serie di incontri sull'educazione libertaria. Il primo si è rivelato la classica discussione “interattiva” che tanto piace agli inglesi. Del tipo: “ok, adesso ci dividiamo in sotto-gruppi e ogni gruppetto si riunisce in un angolo della stanza per discutere un tema e scrivere su un cartellone le proprie idee. E poi ne parliamo tutti insieme”. Eravamo in tutto una dozzina, principalmente persone già coinvolte in centri sociali o che vorrebbero aprirne uno, e si è discusso in maniera generica di centri sociali: a cosa servono, quali problemi devono affrontare, che ruolo possono avere in futuro? Solo alla fine i bristolliani hanno distribuito il programma del prossimo raduno dei centri sociali britannici, che si terrà presso Kebele il 28 e 29 novembre 2015, e che punta a rilanciare la “rete dei centri sociali”. Insomma, si è trattato di una sorta di incontro preparatorio in vista del raduno. Raduno che fa ben sperare, perché è solo coordinandosi e facendo rete che si può provare a resistere alla crescente ondata repressiva che caratterizza la Gran Bretagna degli ultimi anni.

Autoritarismo educativo e scuole libertarie

Un po' deluso dal primo meeting ho consultato il programma per decidere dove andare dopo. Un compagno italiano appena conosciuto ha cercato di convincermi a partecipare alla presentazione di un libro dall'intrigante titolo: “Never work”. Ma, essendo io un ex insegnante che ha abbandonato la scuola inglese a causa della burocrazia e dell'autoritarismo che la affliggono, mi sono lanciato in tre ore di dibattiti sull'educazione libertaria. Significativa è stata l'affluenza a questi incontri. C'erano talmente tante persone che, per tutelare la salute e sicurezza del pubblico, ogni incontro è stato ulteriormente suddiviso e ospitato in tre aule diverse. Ciascuno su un sotto-tema dell'educazione libertaria. Questo conferma il grande interesse nel mondo anarchico, ma non solo, intorno al tema dell'educazione.
La prima serie di dibattiti aveva come oggetto “L'educazione e lo stato”. Mentre in contemporanea si discuteva del ruolo dell'università, io ho assistito a “Educazione, resistenza e sistema penale”. Lì si è parlato di Y-stop, un progetto che punta ad informare i ragazzi in età scolare dei propri diritti quando si è fermati dalla polizia. Poi la regista olandese Julia ha presentato il suo documentario che parte da una vicenda personale (quando ha scoperto di essere stata rapinata dal figlio dei suoi vicini) per introdurre l'argomento della giustizia riparatoria, che punta alla riabilitazione del responsabile attraverso la riconciliazione con la comunità. E infine Carl Cattermole, ex detenuto ed autore di una guida gratuita di sopravvivenza alla prigione, ha discusso dell'importanza dei programmi di alfabetizzazione nelle carceri come strumento per contrastare il sistema. Tre interessantissime testimonianze sul ruolo dell'educazione alternativa come strumento per resistere alla repressione statale.
I tre dibattiti successivi erano accomunati dal filo conduttore “Educazione e libertà”. Judith Suissa ha spiegato cos'è l'educazione anarchica mentre Ros Kane e il Risinghill Research Group hanno riflettuto su esempi passati di scuole radicali. Io invece sono rimasto ad ascoltare Ian Cunningham, preside del Self-managed Learning College di Brighton, e tre alunni della famosa Summerhill School. Più che un vero e proprio incontro strutturato questo è stato un bombardamento di domande per Ian e i ragazzi da parte di decine di insegnanti, studenti universitari e genitori accorsi per capire come funziona concretamente una scuola libertaria. Molti erano stupiti all'idea di ragazzi e ragazze che decidono se e quali corsi seguire, che stabiliscono un programma di studi con l'insegnante, che frequentano lezioni individuali o in piccoli gruppi. E che, alla fine della scuola, spesso si iscrivono al Sixth Form (gli ultimi due anni di scuola, non obbligatori) o conseguono il diploma da privatisti. E a giudicare da come i tre sedicenni di Summerhill si esprimevano e argomentavano, non ho difficoltà a crederci. Ma l'assenza di una graranzia del diploma dissuade molti genitori dall'iscrivere i propri figli a scuole libertarie o democratiche. In aggiunta, queste scuole sono private e quindi a pagamento. Dunque non per tutti.
L'ultimo degli incontri sull'educazione libertaria ha visto la partecipazione di tre ex alunne della Mossbourne academy, il progetto pilota voluto dall'ex primo ministro laburista Tony Blair per la creazione delle accademie. Ovvero scuole finanziate dallo stato ma con ampie libertà di gestione finanziaria, amministrativa e del curriculum. Sì, questo significa anche che ogni accademia può stabilire in autonomia le condizioni lavorative e retributive dei propri insegnanti. Non c'è da sorprendersi, dunque, se dal 2010 anche il governo conservatore ha attivamente incoraggiato la conversione di migliaia di scuole in accademie in tutta la Gran Bretagna.
Ciò che è emerso dal racconto delle tre neo-diplomate sembrava l'ambientazione di un romanzo distopico, con corrodoi a senso unico e insegnanti che ispezionano la lunghezza delle gonne delle alunne. Tutte cose che ormai sono normali in moltissime scuole del regno, e che ho visto con i miei occhi durante la mia esperienza come insegnante. Addirittura, durante un colloquio presso una scuola di Londra, un preside una volta mi ha esplicitamente chiesto se fossi pronto a seguire la politica scolastica che consisteva nell'urlare contro i ragazzi e farli marciare. Avrei pensato ad uno scherzo se non avessi visto gli insegnanti della scuola farlo poco prima. Ma Mossbourne e altre accademie hanno permesso di testare quello che oggi è un ritorno su larga scala alla scuola fortemente autoritaria di stampo pre-sessantottino. Ciononostante, le tre ragazze hanno spiegato come la creazione di un collettivo studentesco femminista le avesse aiutate a restare compatte e organizzare forme di resistenza alle decisioni delle gerarchie scolastiche.

Londra (Gran Bretagna), 24 ottobre 2015 - La 34esima
edizione della vetrina dell'editoria anarchica e libertaria
Centri sociali libertari: una ricerca

Infine, dopo una pausa per un boccone e riprendere fiato, è arrivata l'ultima fascia oraria degli interventi, tra cui il mio. Nell'aula c'erano una trentina di persone. Visto che avevo preparato un PowerPoint per rendere la presentazione meno soporifera, gli organizzatori si sono scusati col pubblico perché avevano dovuto trasformare il circolo egualitario di sedie in terribili file antidemocratiche per permettere a tutti di guardare il mega-schermo. Ero stato invitato dal New Anarchist Research Group per presentare parte della mia ricerca collegata al mio progetto di dottorato: un'analisi comparata delle comunità libertarie britanniche e italiane. Il titolo del mio intervento era: “Centri sociali libertari: catalizzatori di attivismo comunitario o strumento di controllo sociale?”. E per ragioni di tempo mi sono concentrato solo su casi-studio baresi. Questa domanda è sorta dopo aver intervistato decine di compagne e compagni coinvolti in esperienze di tipo libertario dal 1968 ad oggi. Infatti alcuni, come il 61enne anarcosindacalista Gino, ritenevano i centri sociali “una discoteca esentasse [...] per far perdere tempo alla gente”, in cui gli attivisti si autoghettizzano rendendo più facile il controllo sociale da parte delle autorità. Altri invece, come il 42enne ex punk e anarco-comunista AL, li consideravano “un modello per una società alternativa”.
Così, ho presentato quattro esperienze che abbracciano il lasso di tempo che va dagli anni Settanta ad oggi: dal Comitato di Quartiere San Pasquale (1973-78), che anticipa le tematiche dei centri sociali moderni tanto da spingere il vecchio militante anarchico Nicola a chiamarlo “una sorta di centro sociale”, fino all'attuale Ex-Caserma Liberata (dal 2014). Ho quindi paragonato i quattro casi-studio soffermandomi sulla composizione dei collettivi, sui locali occupati e le aree in cui sorgevano, sui tipi di attività svolte, e sulle relazioni che questi hanno sviluppato specialmente col vicinato. Ad esempio, nel caso del CSOA Fucine Meridionali (1994-95), la rottura interna al collettivo tra “sottoproletariato” ed “elementi politicizzati” ha permesso a crimine organizzato e forze dell'ordine di isolare e infine annientare un'esperienza che tuttora molti attivisti rimpiangono. Allo stesso modo, la scelta di un luogo e del tipo di attività può condannare o premiare un centro sociale.
Infatti, il comitato di quartiere San Pasquale (CdQ) era sorto nell'omonimo quartiere proletario ed aveva modellato le proprie attività in base alle necessità espresse dalla popolazione locale, cosa che aveva permesso alle anarchiche e agli anarchici del CdQ di costruire relazioni durature con i residenti. E persino di insegnare agli abitanti di San Pasquale princìpi anarchici come l'azione diretta quando occuparono una villa abbandonata per trasformarla in asilo nido per i bimbi del quartiere.
Invece l'inesperienza dei punx baresi aveva portato all'apertura del CSOA Giungla (1983-84) nella zona industriale dove, come ricorda Nico, “non eravamo abbastanza lungimiranti da realizzare che era un'area troppo strategica per la malavita”. Difatti la presenza nel meridione degli anni Ottanta di centinaia di giovani con creste, catene e musica punk attirava i controlli delle solerti forze dell'ordine, cosa che i malavitosi non gradivano. E infatti furono loro a “sfrattare” la Giungla minacciandone gli attivisti. Insomma, i centri sociali possono sia stimolare l'attivismo di una collettività che rivelarsi uno strumento di controllo sociale. Dipende spesso dalle scelte che gli attivisti fanno. Alla fine, con un pubblico misto di inglesi e italiani, abbiamo continuato a parlare di vari aspetti emersi durante la mia presentazione, fino a quando son venuti a cacciarci dall'aula perché tardi.

Creare spazi inclusivi

Anche se certamente meno sentito dell'educazione libertaria, sembra che un crescente numero di persone stia rivalutando le esperienze comunitarie di tipo libertario, sia urbane che rurali. I centri sociali, i comitati di quartiere, le comuni rurali (di cui parlo nella mia tesi) sembrano rispondere all'appello di Andrea Papi su A-Rivista 400 che invitava, per sottrarci al sistema virtuale e “liquido” che ci avvolge, a “crea[re] spazi e luoghi dove approntare e sperimentare modalità di relazione inclusive non soggette alle spirali finanziarie, dove ciò che conta e dà senso sono la condivisione, la solidarietà, la reciprocità, la mutualità”.2
Ma la giornata non era ancora finita. All'uscita, quando ormai pregustavo una bella pinta nel pub più vicino, ho visto decine di persone con vestiti neri e volto coperto correre dalla stazione di King's Cross verso l'università, dove mi trovavo io. Dietro di loro, una schiera di giubbotti giallo fluorescente: la polizia. Dopo qualche secondo di stupore, avevo appreso che si trattava di parte della manifestazione di solidarietà con i migranti che la polizia aveva respinto fin lì in seguito al loro tentativo di occupare i binari da cui partono i treni per la Francia. Treni che percorrono il tunnel sotto la Manica, dove diversi migranti sono morti cercando di raggiungere la Gran Bretagna. Ormai isolati e bloccati sotto la pioggia battente, il gruppo di manifestanti è rimasto per qualche minuto a trascinare e rovesciare cassonetti sotto gli occhi indifferenti delle forze dell'ordine, e poi s'è disperso. A quel punto, raggiunto da compagne e compagni dell'Anarchist Federation che si erano trattenuti alle bancarelle dei libri, ho potuto concludere la giornata con la più classica delle tradizioni inglesi: il giro dei pub.
Tuttavia, ripensando alla giornata di dibattiti, mi chiedevo: ma in una città multietnica come Londra, dov'erano le persone di origine caraibica, africana, indo-pakistana, est europea? Come troppo spesso succede, le manifestazioni a carattere anarchico in questo paese sono frequentate quasi esclusivamente da bianchi di madrelingua inglese tra i venti e i quarant'anni, e spesso appartenenti alla classe media. Come possiamo pensare di creare una società alternativa basata su spazi e luoghi fondati sulla solidarietà se non riusciamo a coinvolgere tutte le etnie, i generi, le età e le classi sociali?

Luca Lapolla

Note

  1. Traduzione di un'estratto della sezione 'History' sul sito dell'Anarchist Bookfair di Londra: anarchistbookfair.org.uk.
  2. Andrea Papi, A Rivista Anarchica 400, 2015, p. 14.


Guido Barroero/
Senza perdere la tenerezza

Guido non c'è più.
Nel 2001, dopo i fatti del G8 di Genova, venni convocato dai ROS per un interrogatorio come persona informata dei fatti. Tutto l'interrogatorio, condotto dal maresciallo Calandri alla presenza di un misterioso personaggio che non si qualificò, verteva su Guido Barroero. Volevano sapere dove era durante gli scontri, se era il capo degli anarchici di Genova, se era un sindacalista, ecc. ecc. Guido in quelle giornate era al corteo di Sampierdarena, quello organizzato dai sindacati di base. Un corteo pacifico dove non si verificarono incidenti di sorta. Eppure i ROS erano alla caccia dei pericolosi anarchici che, secondo loro, avevano diretto gli scontri e indagavano su di lui. Alla fine se la presero con i COBAS e con il loro presidio in piazza Paolo da Novi, tanto per non farsi mancare niente si inventarono che erano stati loro a organizzare gli scontri. La cosa si risolse in un nulla di fatto perché tutte le finte prove messe in atto si rivelarono per quello che erano. Un semplice tentativo di incriminare qualcuno a caso tanto per far vedere che lavoravano alacremente per dare la caccia ai famigerati Black bloc.
Con Guido dividevamo un appartamento nei vicoli del centro storico, in via San Bernardo. Ci siamo fatti un sacco di risate al pensiero che lui fosse il capo dei cattivi e io un testimone informato di questo fatto inesistente. Guido, in quel periodo, era impegnato a redigere la rivista Collegamenti Wobbly e il bollettino Altra Storia. Raccoglieva materiali sulla Resistenza e sulle formazioni partigiane anarchiche a Genova dal 1943 alla Liberazione. Si occupava delle schede per il Dizionario degli Anarchici Italiani pubblicato nel 2003 dalla BFS. In più girava a distribuire “UN” e la rivista “A” in librerie ed edicole.
La maggiore preoccupazione, viste le nostre misere entrate, era riuscire a coniugare il pranzo con la cena, pagare l'affitto e le bollette, organizzare presentazioni di libri e dibattiti. Riuscivamo anche a divertirci un po' organizzando cenette e scampagnate. Amava molto arrampicarsi sui monti e, appena poteva, inforcava lo zaino e se ne andava a fare dei giri sui bricchi. Così si rigenerava per essere pronto a immergersi di nuovo nello studio e nella ricerca all'Archivio di Stato, all'Istituto storico della Resistenza, all'Archivo di Pegli e alla sede anarchica di piazza Embriaci. Quando scopriva delle cose inedite era felice come un bambino. Verificava scrupolosamente le fonti e poi scriveva e commentava (mi faceva fare il correttore di bozze) ed era costantemente in bilico fra il rigore e l'autoironia.
Amava tantissimo fare battute sferzanti su tutto e in particolare su se stesso.
Adesso non c'è più e a me manca tantissimo.

Riccardo Navone




Imola/
Io topo, io merda, io antifascista

Il 25 novembre scorso Daniele Barbieri – che, oltre ad essere direttore responsabile del mensile Pollicino Gnus, è anche, tra le sue varie attività, collaboratore di “A” – ha ricevuto minacce di stampo fascista. Riportiamo l'articolo apparso sul suo blog qualche giorno dopo l'accaduto.

Il fatto. Mattina del 25 novembre. Mia moglie trova nella cassetta delle lettere quella che in gergo si definisce «lettera minatoria». Un breve testo. Mi avvisa. Io penso «can che che abbaia non morde». Comunque con Tiziana discutiamo se fare una denuncia. Io sono per il no. Nostro figlio consiglia: «babbo, tu non ti spaventi ma può darsi che altre persone, in una situazione analoga, invece si preoccupino. Se ne parli, se fai la denuncia magari viene fuori dell'altro». Sagge parole. Appena posso vado in questura e là viene redatto un «verbale di ricezione di denuncia-querela resa oralmente». Inevitabile domanda: «lei ha sospetti sugli autori?». Inevitabile risposta: «è come se la lettera fosse firmata» e spiego perché «ma ovviamente non ho prove, sono illazioni, deduzioni».
Un altro fattarello. Mi viene poi in mente un episodio minimo che avevo già dimenticato. Qualcuno mi ha detto «te ne intendi di topi, eh?» per poi dileguarsi... prima che io facessi in tempo a veder bene, a identificarlo. Connettendo questa vaga frasetta alla lettera «minatoria» penso che forse esiste un nesso, visto che ho accompagnato – qui in “bottega” – la notizia di una raccolta firme contro le organizzazioni neofasciste proprio con il disegno di un topo.
Lo ammetto. Confesso. Sono un topo. E sono una merda («dal letame nascono i fior»?). Non soltanto. Sono ebreo. Sono palestinese. Sono meticcio. Sono nero. Sono giallo. Sono un pellerossa. Sono figlio di Nn, un bastardo. Sono gay. Anzi in realtà sono una donna. E comunque sono trans. Ovviamente sono un anarco-comunista. Sono terrone, matto, povero, immigrato, handicappato, zingaro, hippie, femminista, malato, vecchio... E sono un alieno. Neanche a dirlo me la faccio con i pakistani, anzi io sono un pakistano. Ma soprattutto sono un topo. Come in «Maus» di Art Spiegelman del quale consiglio la lettura a chi non lo conosce.
E adesso? Continuerò ovviamente come prima. Sarò al banchetto dove si raccolgono le firme contro la concessione di spazi a Forza Nuova e simili. Perché di poche cose sono sicuro ma una è questa: vecchi e nuovi nazifascisti sono nemici di ogni possibile umanità. Mi oppongo e mi opporrò a loro. Per quel che posso e in ogni modo.

Daniele Barbieri




87 ore/
Il film-realtà sulla morte di Mastrogiovanni

Mentre si susseguono le udienze del processo d'appello per la morte di Francesco Mastrogiovanni (nel mese di novembre se ne sono tenute due) è stato proiettato, per la prima volta a Roma, il 6 novembre 2015, al Teatro Palladium, il “film realtà” di Costanza Quatriglio dal titolo 87 ore (2015, 75 min., prodotto da Doc Lab, in collaborazione con Rai Tre, con il sostegno del ministero per i beni e le attività culturali e il patrocinio di Amnesty International). Gran parte del film è costituito dalle immagini del video prodotto dal sistema di videosorveglianza interno al reparto di psichiatria dell'Ospedale di Vallo della Lucania (Sa).

Medici e infermieri i veri attori

Gli attori, più o meno consapevoli, sono i medici e gli infermieri che si succedettero al letto di contenzione di un gigante buono. Attori non molto umani, poco professionali, negligenti, imprudenti che conferiscono al “video dell'orrore”, al di là del suo valore probatorio, il racconto degli ultimi giorni di vita dell'insegnante libertario e ne fanno un documento unico nella storia della contenzione. Nel film le immagini di Mastrogiovanni sono come la vena nera nel marmo di Carrara, compaiono e scompaiono come sotto lo scalpello tra le onde del mare, nel quale si era tuffato cantando “Addio Lugano bella”, e i riflessi della luna, tra le foglie e il cammino delle formiche.
La decisione di rendere pubbliche le drammatiche immagini della lunga contenzione meccanica subita da Mastrogiovanni fu presa dai familiari, così come furono i familiari di Stefano Cucchi a volere la pubblicazione delle foto del corpo massacrato del loro congiunto. L'intento non era allora quello di divulgare una foto-notizia, insufficiente a spiegare da sola cosa avevano fatto a Stefano Cucchi, così come oggi sappiamo essere insufficiente il film della bravissima Costanza Quatriglio, per definire tutte le responsabilità che hanno provocato il decesso dell'insegnante cilentano. Il film, frutto di un lavoro accurato, lungo e complesso, condiviso con Luigi Manconi e Valentina Calderone, dell'associazione A buon diritto, restituisce agli spettatori l'intero dramma vissuto da Franco, e costituisce un'arringa indiretta, una vibrante protesta della verità e dell'umanità contro la barbarie.

Psichiatria e diritti umani

Tra le espressioni di grande sensibilità è, per me, indimenticabile la dichiarazione rilasciatami dalla Dott.ssa Agnesina Pozzi (primo medico e consulente gratuito della famiglia Mastrogiovanni) in una intervista di qualche anno fa (“A” Rivista Anarchica, anno 41, n. 364, estate 2011): “l'assoluta mancanza di privacy, di rispetto, di colloqui col paziente tesi anche alla ri-valutazione della necessità della contenzione. Colpisce il paziente che avvicina a sé una bottiglia d'acqua (Mancoletti Giuseppe n.d.a.) con un piede, l'asciugamano gettato su Franco, il sangue per terra, l'assoluta mancanza di alimentazione, l'immobilità della morte. È tutto vergognoso e terribile in quel video”.
Rileggendo quell'intervista della Pozzi si percepisce tutto l'interesse della professionista per la risoluzione dell'antico conflitto tra psichiatria e diritti umani, interesse diffusosi negli ultimi cinque anni nello spazio pubblico, nella ricerca storica e scientifica. Le riflessioni e i dibattiti promossi dal “Comitato per Mastrogiovanni” in tutta Italia hanno contribuito a nutrire anche la giustizia, spostando sul piano reale, concreto e temporale il dibattito finalizzato non solo a giudicare individui concreti per crimini concreti, ma anche noi stessi e la nostra azione politica e civile tesa ad introdurre nel codice penale il reato di tortura e mettere sotto accusa la contenzione quale pratica medioevale.

Il caso Massimiliano Malzone

Dopo aver visto il film della Quatriglio, le cui musiche sono di Marco Messina, Sacha Ricci, 99 Posse, molti penseranno a quanti pazienti sono scomparsi negli ospedali, civili e meno civili del nostro Paese, dei quali nessuno ne ha saputo nulla perché non in tutti i reparti funzionano le telecamere di videosorveglianza o le apparecchiature telemetriche.
Tra questi sfortunati pazienti, ricordiamo il recente caso di Massimiliano Malzone, anch'egli cilentano, di Agnone Cilento (SA), di anni 39, ricoverato il 28 maggio 2015 in regime di TSO presso la struttura di Sant'Arsenio di Polla e deceduto, l'8 giugno c.a., per arresto cardiaco. Tante sono le analogie tra questo caso e quello di Mastrogiovanni e tante anche le “stranezze”, come le definiscono i familiari. Di certo sappiamo che due dei medici che operano a Sant'Arsenio e che avevano in cura Malzone si chiamano Michele Della Pepa e Raffaele Basso e sono stati condannati, in prima istanza, nel processo per la morte di Mastrogiovanni, rispettivamente a due e quattro anni.
L'altra analogia, come racconta la sorella della vittima Adele Malzone, al Giornale del Cilento (3 settembre 2015), è che anche in questo caso, come accadde alla nipote di Mastrogiovanni Grazia Serra ed al suo fidanzato, non è stato permesso ai familiari di visitare il loro congiunto ricoverato.
Nella stessa intervista la sig.ra Adele racconta che il Dott. Basso, nel colloquio avuto con lei, ha affermato che al fratello “gli era stata somministrata una terapia da cavallo, un qualcosa che veniva normalmente distribuita in tre mesi”. Difatti, il Dott. Adamo Maiese, lo stesso anatomopatologo che eseguì l'autopsia sul corpo appartenuto a Franco Mastrogiovanni ha affermato, nella perizia consegnata il mese scorso alla Procura della Repubblica di Lagonegro, che: “il decesso non è da porre in correlazione causale con il trattamento sanitario”, ma che ci sarebbe una correlazione tra il decesso e i neurolettici assunti da Massimiliano Malzone. Dai microfoni di Radio Radicale, emittente che segue da cinque anni tutte le udienze del processo Mastrogiovanni, sono in tanti a chiedere l'introduzione del reato di tortura nel codice penale e lo svolgimento di una ricerca, seria e accurata, che appuri quanti TSO vengono emanati in Italia, le loro modalità di esecuzione e il decorso post-ricovero per capire in quanti riescono a ritornare a casa con le proprie gambe.

Angelo Pagliaro
angelopagliaro@hotmail.com




A proposito della “Buona Scuola”/
L'opinione di CUB e USI-AIT

Dopo i primi mesi di attuazione, pubblichiamo la posizione sul decreto di riforma della scuola di due organizzazioni del sindacalismo libertario.


1. CUB Scuola Università Ricerca

Una valutazione di quanto è avvenuto nella scuola nei primi mesi di quest'anno scolastico non può prescindere da come si è chiuso quello precedente.
I punti fermi da cui prendere le mosse possono essere così ricapitolati:

  1. La cosiddetta buona scuola e, più propriamente, la legge 107, è passata nonostante una massiccia mobilitazione in senso contrario della grande maggioranza dei lavoratori della scuola, l'opposizione di tutti i sindacati, le grandi manifestazioni che hanno visto assieme studenti e lavoratori della scuola.
  2. Nel sentire comune, e in particolare in quello dei lavoratori della scuola, il governo ha vinto e c'è poco da fare. Naturalmente, dal punto di vista razionale, si può facilmente dimostrare che la mobilitazione del passato anno scolastico non è poi stata questa lotta straordinaria e che la partita è assolutamente aperta ma sappiamo sin troppo bene che i luoghi comuni tutto hanno tranne che una rigorosa fondazione empirica e ciò nonostante funzionano perfettamente nel senso che orientano l'azione individuale e collettiva.
  3. Il cuore della legge 107 è lo straordinario accrescimento dei potere dei dirigenti scolastici attraverso la possibilità di erogare una significativa quota di salario a propria scelta, un potere discrezionale nella selezione del personale neo assunto, la possibilità di scegliere i nuovi insegnanti per la propria scuola, l'introduzione, nonostante le promesse in senso contrario, in particolare del ministro Marianna Madia, del Jobs act nel pubblico impiego e quindi della possibilità di licenziare i neo assunti anche se su questo particolare punto il governo sembra intenzionato a fare un passo indietro.
  4. Una massiccia immissione in ruolo di personale precario secondo modalità in parte nuove in senso peggiorativo, immissione che è stata presentata come ricaduta positiva della legge 107, quando è evidente che si tratta essenzialmente di un modo per chiudere un contenzioso legale che si trascina da anni e che vede di norma soccombente l'amministrazione con gravissimi costi.
Le valutazioni precedenti permettono di comprendere, almeno a mio parere, le ragioni della sostanziale passività dei lavoratori della scuola nei primi quattro mesi dell'anno scolastico.
I precari, segmento della categoria normalmente più vivace della media, erano in attesa di immissione in ruolo che, con tutte le critiche che possiamo e dobbiamo fare al modo in cui è stata realizzata, non è certo questione di poco conto visto che comporta miglioramenti innegabili dal punto di vista normativo e retributivo e, soprattutto, una situazione di maggior sicurezza rispetto ad anni di instabilità.
Le principali critiche all'operato del governo per quanto concerne le immissioni in ruolo, si sono rivolte alla scelta di imporre ai precari interessati all'assunzione, di dare la propria disponibilità su tutte le province con l'effetto di provocare un congruo numero di trasferimenti forzati. Il governo però ha disinnescato la protesta degli insegnanti sottoposti a provvedimento coatto, permettendo, a chi aveva una supplenza annuale, di rinviarlo, appunto, di un anno.
L'assieme di operazioni volte a garantire ai dirigenti scolastici i nuovi poteri previsti dalla legge 107 si è appena messo in moto e quindi non c'è un impatto immediato del preside nuovo modello. In concreto i Collegi Docenti sono chiamati a scegliere i membri per la componente, appunto, docenti dei Comitati di Valutazione, organismi che comprenderanno docenti, genitori, funzionari dell'amministrazione, nelle scuole superiori studenti e, va da sé, il Dirigente Scolastico.
I Comitati di Valutazione valuteranno, d'altronde si chiamano così perché valutano, i docenti neoassunti alla fine dell'anno di prova e, per sovrammercato, definiranno i criteri sulla cui base i dirigenti scolastici attribuiranno una quota di salario come premio ai docenti meritevoli.
Due considerazioni sono evidenti:
  • i “criteri” saranno interpretati dai dirigenti come vorranno;
  • soprattutto, a fronte di risorse miserevoli per il contratto di categoria, i premi saranno la quota di gran lunga più importante dei possibili incrementi della retribuzione.
È sin scontato che un dirigente che seleziona i docenti che chiedono di trasferirsi da una scuola all'altra, visto che il trasferimento avverrà su non ben definiti ambiti territoriali all'interno del quale ognuno tratterà con i dirigenti delle scuole che gli interessano, che dirige un Comitato di Valutazione nel quale la componente degli insegnanti è minoranza, che decide chi premiare e chi no, assumerà una funzione e un potere affatto diversi dall'attuale.
Contro questa deriva, l'opposizione è difficile perché si gioca scuola per scuola. La posizione radicale, quella sostenuta dalla CUB Scuola Università Ricerca per fare un esempio, e cioè il rifiuto di nominare i docenti nel comitato di valutazione o, in subordine, il vincolarli alla richiesta di redistribuire il premio fra tutti i docenti, è, a mio avviso, politicamente giusta ma si scontra con il “realismo” subalterno di ampi settori della categoria degli insegnanti che, visto che la legge 107 è passata ritengono che se ne debba favorire l'applicazione meno traumatica possibile.
Soprattutto, e questa è la questione centrale, il cartello dei sindacati istituzionali, CGIL CISL Gilda SNALS UIL, che vede uniti sindacati confederali e sindacati autonomi, che a maggio/giugno ha “coperto” la mobilitazione per non perderne il controllo, ha virato verso una posizione “ragionevole” proponendo di consegnare la gestione del salario al merito alla contrattazione fra dirigente e rappresentanza sindacale di istituto. Nei fatti, il tentativo è quello di reintrodurre la concertazione, che il governo ha messo in crisi a livello nazionale, nelle singole scuole e quindi di recuperare uno spazio di manovra per il sindacalismo, appunto, concertativo.
Situazione di stallo dunque, situazione nella quale i soggetti in campo stanno valutando il loro riposizionamento.
A mio avviso i possibili punti di crisi sono due:
  • una mobilitazione unitaria docenti-studenti sulla base di una critica forte, esplicita, radicale della scuola delle dirigenza;
  • un'iniziativa più sindacale della categoria dei lavoratori della scuola sulla base della rivendicazione di forti aumenti salariali e cioè dello spostamento di tutte le risorse che è possibile spostare sul salario base, quello sottratto alla valutazione discrezionale del dirigente e, di conseguenza, sull'eliminazione o, quantomeno, sulla riduzione al minimo possibile, dei premi al merito e del salario accessorio.
Su questa partita si giocherà la prossima fase, come si suol dire, il futuro riposa sulle ginocchia degli dei.

Cosimo Scarinzi
Coordinatore Nazionale CUB Scuola Università Ricerca



2. USI-AIT Settore Educazione

Decisione, fermezza, velocità. Sono state queste alcune delle strategie messe in atto dal governo per approvare e rendere legge al più presto la riforma chiamata “Buona Scuola”. Tuttavia, in un regime dove le parole cambiano rapidamente di significato, è opportuno decodificare qualche termine.
Autoritarismo, ottusità, approssimazione, ecco in realtà ciò che ha caratterizzato l'iter della legge 107/2015 definita “buona scuola”e ciò che a tutt'oggi la circonda: demansionamento dei docenti, deportazione dei precari, minacce, punizioni per gli studenti che hanno boicottato le prove invalsi, susseguirsi di note e aggiustamenti del ministero in corso d'opera, palese fallimento del progetto governativo già dai primi passi. In sostanza un progetto educativo inesistente, a scomputo di un piano di ingegneria sociale da costruire. La Riforma scolastica Renzi/Giannini fa della valutazione la sua colonna portante. Ebbene la continua valutazione a cui si vorrebbe educare gli studenti e assoggettare i lavoratori, altro non è che uno strumento di controllo, di ricatto, che viene messo in piedi tramite istituti specifici, affinché sia eliminato preventivamente ogni conflitto, ogni dissenso.
Chi governa ha bisogno di “impiegati” silenti e studenti obbedienti.
La riforma scolastica del governo Renzi non è esclusivamente una formula autoritaria che ricade su studenti e docenti, bensì una disegno più complesso che mira a porre le basi per un modello di società specifico. Un progetto che si incarna perfettamente nelle maglie del “Jobs Act” e che vuole portare all'accettazione incondizionata di nuove e strumentali concezioni del “lavoro”. Nel DDL “Buona Scuola” compaiono, infatti, progetti di alternanza scuola/lavoro; esaltazione del merito e della competitività. Dotarsi di reti, strutture ed istituzioni per valutare rimette lo Stato al centro di alcuni processi sociali; garantisce la gestione di fondi e la possibilità di assegnare posti di lavoro; rigenera, inoltre, un meccanismo, quello statale appunto, che si è svuotato di altri significati che non siano meramente tecnici o repressivi.
Rifiutarsi di valutare e di essere valutati significa sabotare alla base le funzioni sociali di esclusiva trasmissione di dati o di ordini cui si è relegati. Significa riaffermare l'essenza delle identità che si sentono proprie e non quelle di cui veniamo vestiti.
Proviamo ad immaginare una scuola senza valutazione, ad esempio. Ciò non eliminerebbe l'apprendimento, la crescita e l'emancipazione individuale, anzi restituirebbe spessore e qualità alla sperimentazione e al miglioramento cosciente di se stessi, elementi che dovrebbero essere alla base di processi educativi liberi e consapevoli. Invece, la valutazione è la parola d'ordine di questa riforma; è la parola d'ordine di un nuovo assetto sociale. Attaccare direttamente i suoi criteri, autorganizzarsi per sabotarne i meccanismi dovrebbe essere l'orizzonte delle nuove forme di lotta contro il capitale e in favore di una scuola “pubblica” e non statale. Si è dimostrato attraverso il boicottaggio delle invalsi che la prosecuzione della lotta contro la “buona scuola” è possibile in modo autorganizzato, cosciente, collettivo e determinato. Individuare strategie di continuità su questo percorso, anche a lungo termine, potrebbe costituire uno strumento organizzativo efficace non solo contro il nuovo modello di scuola che si va delineando, ma anche contro il conseguente modello di società che ne scaturirebbe.
Ciò non significherebbe non svolgere il proprio lavoro di insegnante, in quanto l'elaborato verrebbe ugualmente corretto, condiviso e spiegato nelle sue eventuali imperfezioni. Si obietterebbe soltanto a quei criteri di assoggettamento su cui tutta la riforma si basa. Da questo punto di vista la prima lezione ce l'hanno data gli studenti, sta ora a chi è tenuto ad accompagnarli nella crescita cogliere l'importanza e l'originalità del loro messaggio.
Ad oggi, però, la lotta contro la “buona scuola” sta attraversando un momento delicato non solo perché la 107 è stata approvata la scorsa estate ma, soprattutto, a causa del fatto che numerosi comitati nati dal basso, di studenti e lavoratori, per gli strani meccanismi di disciplinamento cui si è sottoposti fin dall'infanzia che fanno credere che l'unione con tutti e tutte faccia la forza, si stanno apertamente legando a chi usa la lotta solo in maniera strumentale onde poter attrarre a sé un maggior numero di voti, sia di chi ha per mestiere quello di pompiere sociale.
L'Unione Sindacale Italiana sezione educazione è convinta che affidare la lotta a forze partitiche e a forze sindacali padronali, sia un grande errore. Si comprende la delusione che ha comportato l'approvazione della legge, si comprende lo sfinimento per lotte lunghe ed apparentemente prive di risultati concreti, tuttavia pensiamo che la sola strada da perseguire, quella realmente incisiva, sia l'autorganizzazione, sia il rifiuto della delega, sia cioè la ricerca di nuove forme di lotta che hanno in sé una carica innovativa non solo sul piano della rivendicazione sindacale, ma rappresentano un passo in avanti verso l'emancipazione e liberazione dalla prigione sociale in cui questo come tutti i governi, vogliono rinchiuderci.

Le compagne e i compagni
di U.S.I.-A.I.T. Settore Educazione




Puglia/
Mobilitazione per due medici “censurati”

Censura scritta per Francesca Mangiatordi e contestazione di addebiti a Francesco Papappicco per aver divulgato notizie non autorizzate alla stampa circa i soccorsi della strage di mafia del 5 marzo 2015 ad Altamura. Siamo in provincia di Bari, sei feriti gravi il risultato dello scoppio di un potente ordigno esplosivo alle 00.10 piazzato davanti ad una sala giochi.
Francesco Papappicco, medico del 118 di stanza a Gravina in Puglia interviene sul paziente più grave, il ventiseienne Domi Martimucci, giovane promessa del calcio nazionale. Domi riporta ferite gravissime alla testa e dopo perigliosi percorsi clinici muore in agosto. Francesco tenta di trasportarlo al Policlinico di Bari dopo aver chiesto la disponibilità di un elicottero ma quella bomba ha già innescato altri meccanismi delicati della Sanità pubblica barese. L'elicottero non arriverà mai e Francesco è costretto a trasportare il ragazzo in un ospedale di provincia non attrezzato per neurotraumi.
Francesca lavora nel pronto soccorso di quell'ospedale sulla Murgia e si sta già occupando dei primi feriti giunti al nosocomio. Squadre del 118 e operatori sanitari ospedalieri si dannano l'anima per salvare quelle vite umane. Le professionalità ci sono ma i mezzi a disposizione risultano proprio in quei momenti decisamente carenti. Francesco e Francesca sono anche due sindacalisti e da mesi hanno segnalato carenze ai loro dirigenti e proposto miglioramenti del sistema di emergenza nei rispettivi comparti di lavoro. Quella maledetta notte guarda caso tutto viene a galla e si manifesta nella sua drammaticità.
Le segnalazioni rimaste senza risposta da parte di qualche boiardo si ripercuotono sulla pelle di quei feriti e dei sanitari in servizio. Dopo cinque mesi i due medici scomodi ricevono tre procedimenti disciplinari. Quello di Francesca esita nella sanzione della censura scritta. Per Francesco, cui non riescono a trovare un appiglio per poterlo sanzionare, si è ancora in attesa di sentenza dopo quattro mesi dalla notifica del primo procedimento. I due medici decidono così di non sottostare al bavaglio e, catene al cinto, il 3 agosto si legano ai cancelli della loro ASL. Inizia una lunga protesta a colpi di batti e ribatti su giornali di controinformazione e udienze con i vertici aziendali. Volano stracci e la vicenda viene raccontata su un hashtag FB chiamato #noiduecimettiamolafaccia che riesce a vincere le resistenze oscurantiste della stampa di regime e ad arrivare al cuore della gente.

Altamura (Bari), 8 novembre 2015 - Momento di agorà
durante la manifestazione popolare di protesta

Due settimane di sciopero della fame a novembre costringono la ASL a ritirare il secondo procedimento avviato contro Francesco che viene “assolto” dal Direttore Generale in persona e inducono il Governatore della Regione Michele Emiliano ad “attenzionare” il caso rispondendo con un silenzio imbarazzato quanto assordante.
Qualcuno tenta di infangare i due medici-libertari quasi tacciandoli di erostratismo mentre colleghi e firme illustri del giornalismo scotomizzano il caso. Il velo oscurantista viene squarciato da Antonio Loconte direttore del “Quotidiano Italiano-Bari” online e da altri giornalisti di testate locali. Loconte racconta passo dopo passo ogni episodio della scabrosa vicenda che ha messo in difficoltà i vertici amministrativi e politici locali. La rete social e il “Quotodiano Italiano” online di Loconte riescono a sfondare il muro di omertà delle istituzioni e raggiungono il cuore della gente che prende consapevolezza degli attacchi persecutori nei confronti dei due medici validi e stimati.
Loconte, sagace giornalista d'inchiesta è già noto per aver ficcato il naso negli scandali della sanità barese tanto da esser diventato bersaglio di ignoti che gli hanno recapitato minacce di morte in merito a dossier sul 118. Prende a cuore la vicenda dei due medici e ne sviscera complotti e retroscena ai loro danni. Emerge così la costruzione certosina di un castello accusatorio kafkiano che si smonta da solo. Il caso “medici incatenati” arriva tramite la rete in tutta Italia e a questo punto non riguarda più due persone ma riesce a trasformare in argomento di lotta l'angoscia e gli interrogativi di quella parte della popolazione che si sente irrisa e quasi messa sotto accusa per essersi schierata dalla parte degli “indisciplinati”.
Una marea montante di consensi fa da contraltare a pseudo-analisi e attacchi personali a tratti feroci. Giustapposizione di due modi di vedere la vita - asservita o critica e ribelle.
L'8 novembre l'apoteosi per le strade di Altamura: una sollevazione popolare spontanea senza precedenti per l'arditezza dei toni e la partecipazione di giovani, bambini e famiglie. Il tema della mala gestione delle risorse in sanità e dei procedimenti disciplinari passa quasi in secondo piano rispetto agli slogan di protesta che campeggiano sugli striscioni che fanno da prologo e non già da epilogo alla manifestazione.
Catene e sciopero della fame considerati quasi un'oscenità dalla casta dei medici e dalle istituzioni da una parte, diventano sorprendentemente un'impresa ardita per la gente dall'altra che mette da parte un certo gusto dell'impotenza cui il palazzo l'ha assuefatta per iniziare a ribellarsi.

Francesco Papappicco




Argenta/
Una scuola media (e una città) per Giuseppe Pinelli

Si può parlare di Giuseppe Pinelli in una scuola media? Non sono troppo piccoli i ragazzi? No, non sono troppo piccoli. In prima media studiano Omero, in seconda media Dante: c'è qualcosa di più difficile di Omero e Dante? No. Quindi possiamo parlare (e diffusamente) anche di Giuseppe Pinelli.
La scuola media di Argenta (Ferrara) non si è limitata ad affrontare l'argomento Pinelli in classe con i ragazzi – colmando una piccola lacuna perché nei libri di testo delle medie Pinelli non sempre c'è.
La scuola ha invitato Claudia Pinelli, la figlia: inoltre questo incontro è stato inserito in una rassegna sulla storia contemporanea.
In questo modo abbiamo proposto alla città e agli studenti diversi incontri su alcuni momenti importanti degli ultimi decenni: dopo il primo appuntamento con Claudia Pinelli abbiamo parlato di stragismo con Francesco Barilli e Matteo Fenoglio (che hanno dedicato a piazza Fontana e piazza della Loggia due graphic novel); quindi abbiamo discusso del 1977 bolognese con Franca Menneas (autrice di uno studio sulla morte di Pierfrancesco Lorusso); del g8 di Genova con Haidi Giuliani; di Federico Aldrovandi con Patrizia Moretti.
Tre incontri la sera, due incontri la mattina (con le classi della scuola).
Per ognuno di questi argomenti stiamo allestendo all'interno della scuola degli spazi espositivi con materiali di diverso tipo (le foto per il G8, pannelli sulle diverse vicende processuali – da piazza Fontana a Federico Aldrovandi, schede storiche, i disegni di Matteo Fenoglio sullo stragismo, i disegni degli studenti che si ispirano alle tavole di Fenoglio ecc.).
Per il momento lo spazio più curato è “l'area Pinelli”: 4 pannelli riassuntivi relativi al contesto storico; la riproduzione dell'opera di Enrico Baj; i disegni di Franco Fortini del funerale di Pinelli; la scheda riassuntiva dell'iter processuale di piazza Fontana. Ma metteremo ancora altri documenti.
Noi ci siamo divertiti parecchio: non solo con i ragazzi (che hanno svolto un laboratorio nel corso di arte sui disegni di Fenoglio). È stato un vero e proprio corso di aggiornamento e ha avuto un impatto molto forte. I due incontri alla mattina - pensati principalmente per i ragazzi - sono stati quello su Bologna e quello sul G8, con Haidi. Haidi ha parlato per due ore (due ore) con i ragazzi: ha risposto alle domande (alcune anche molto ingenue – ma lei era lì per questo) e ha toccato molti argomenti – il concetto di legalità, l'uso della violenza, la Diaz, Bolzaneto e naturalmente ha parlato anche di Carlo. Al di là dei nostri percorsi biografici (alcuni di noi erano a Genova) tutti gli insegnanti coinvolti nella mattinata sono rimasti colpiti dalla tranquilla determinazione di Haidi.
L'incontro con Claudia invece l'abbiamo tenuto alla sera: in platea c'era molta gente e anche un gruppetto di ragazzi. Claudia è stata molto brava, come sempre. In giugno l'avevamo già sentita a Massenzatico, alla festa della rivista: nei due incontri c'era una platea diversa ma ciononostante anche ad Argenta è stata dura, tagliente e diretta. E non ha risparmiato le critiche. Ci è piaciuta molto.
Per Giuseppe Pinelli la scuola si è mossa anche in un'altra direzione: il 16 dicembre nella sala del consiglio comunale di Argenta, alla presenza dei rappresentanti di 3 comuni (Argenta, Portomaggiore, Ostellato) ha organizzato una commemorazione, nell'anniversario della morte.
L'assessore alla cultura Giulia Cillani e la preside della scuola hanno presentato l'iniziativa, poi chi scrive ha raccontato in modo molto informale quello che è stato organizzato dalla scuola: nel discorso commemorativo abbiamo fatto semplicemente il punto sulle attività svolte nei mesi precedenti. Ma quel che conta, secondo noi, al di là della retorica (speriamo contenuta) è la valenza simbolica del luogo in cui eravamo (il consiglio comunale) e la presenza delle istituzioni con i rappresentanti di tre Comuni (Antonio Fiorentini, sindaco di Argenta; Elena Rossi, assessore alla cultura di Ostellato; Nicola Minarelli, sindaco di Portomaggiore).
Alla commemorazione erano presenti anche Claudio Mazzolani dell'Archivio storico Fai (Imola) e Domenico Gavella di Ravenna. A Domenico inoltre si deve un intervento (durante il dibattito) veramente notevole.
In questi mesi abbiamo portato la discussione anche “fuori” la scuola:
presso la biblioteca Bertoldi abbiamo allestito la mostra di 30 tavole di Matteo Fenoglio (sullo stragismo);
presso il Centro culturale Mercato abbiamo preparato una mostra di foto di Uliano Lucas e una esposizione di riviste e libri legati al periodo storico (tra le altre cose il numero di «Lotta continua» del 20 dicembre 1969, i vari libri di Stajano, Cederna, i libri sulle stragi, alcuni dischi in vinile, i libri sul g8 ecc.). Avremmo voluto anche organizzare la proiezione del documentario Sfiorando il muro di Silvia Giralucci ma per il momento questa iniziativa è stata sospesa. Vedremo in seguito.
Ma la vera commemorazione di Pinelli da parte della scuola forse è un'altra: la sezione di storia contemporanea della biblioteca della scuola media di Argenta verrà intitolata a lui.
I libri che abbiamo raccolto (una mole interessante, e per il numero e per la qualità) non li depositiamo fisicamente nella biblioteca della scuola. Metteremo il catalogo in rete: chi è interessato a qualche testo lo richiede, noi lo portiamo a scuola e lo diamo in prestito. Si tratta di una biblioteca virtuale ma attiva. I testi li abbiamo e sono di valore.
In conclusione abbiamo “occupato” diversi spazi della città: dalla biblioteca al Centro culturale Mercato, dalle aule dei liceo (dove ci hanno ospitato in tre classi per la presentazione dell'attività), alla stessa sala del Consiglio Comunale. Per non parlare delle classi della scuola media – dove abbiamo svolto diversi momenti di riflessione.
Per questo non ci pare eccessivo dire che non solo la scuola di Argenta ma anche la città di Argenta si è mossa concretamente in memoria di Pinelli. Una scuola e una città per Pinelli, potremmo dire dunque - aspettando il momento in cui gli verrà dedicata finalmente una strada o una piazza.

Pierpaolo Scaramuzza