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				 leggi e repressione 
                  
                Il diritto penale del nemico 
                  
                di Enrico Torriano 
                    
                Dai migranti ai tossicodipendenti e ai “terroristi” No-Tav: come una serie di norme servano in Italia a rafforzare il quadro repressivo ereditato dal fascismo e tuttora in vigore. 
                 
                  Nel 1985, durante un convegno organizzato a Francoforte sul Meno, il filosofo del diritto tedesco Günther Jakobs teorizzò per la prima volta la necessità di introdurre all'interno degli ordinamenti giuridici occidentali quello che fu poi chiamato “diritto penale del nemico”. Perno di questa concettualizzazione era la sua contrapposizione ad un “diritto penale del cittadino”, contraddistinto da una serie di diritti e garanzie tipici degli stati democratici impossibili da applicare nel momento in cui l'autorità veniva a confliggere con soggetti che, non prestando una garanzia sufficientemente alta a cagione del loro comportamento pericoloso per la comunità, non potevano più essere trattati come “persone” e che anzi lo Stato doveva trattare come “non-persone” per non violare il diritto alla sicurezza della collettività. 
Nonostante la maggior parte degli studiosi abbia sfavorevolmente accolto questa nuova figura giuridica, principalmente per la sua potenziale attitudine a condurre verso un incontrollato autoritarismo, di essa non si è mai cessato di parlare, tanto più che nuovo impulso le è stato dato dai fatti dell'11 settembre e da tutto ciò che ne è seguito. Interessa in questa sede capire come e quanto questa teorizzazione si sia insinuata negli ordinamenti penali occidentali, in particolare quello italiano. 
                  Accademia o realtà? 
                Il diritto penale del nemico sorge come figura puramente astratta avente caratteristiche delineate solo sul piano teorico. Dunque è all'origine mero dibattito accademico, che purtuttavia recava con sé una constatazione di fondo: fin dalla sua nascita il diritto penale ha individuato dei nemici contro cui era pensato e applicato nella pratica. In cosa quindi questa concettualizzazione si differenziava dal vecchio diritto penale e fino a che punto ha negli anni successivi costituito un punto di riferimento, anche sfumato, nei nuovi interventi legislativi? 
Jakobs teorizza il diritto penale del nemico non come una violazione del diritto penale, ma come un binario parallelo e separato da esso, come una sua integrazione necessaria per intervenire in settori nei quali il diritto penale tradizionale non è in grado di essere efficace. Accanto ad un sistema penale delle garanzie (pensato per i cittadini) sono a suo parere da considerare legittimi altri e distinti sistemi penali contro coloro che non possono più essere considerati “persone”, ma nemici, in quanto socialmente pericolosi. E contro i nemici vale solo la logica della guerra, una logica che ha come unico scopo la loro neutralizzazione. Se nella contrapposizione tra diritto penale del nemico e diritto penale del cittadino sta la radice di questa teorizzazione, il primo si compone dunque di altri due elementi: rappresenta un diritto speciale per una parte della popolazione; e si giustifica sulla base di determinate caratteristiche di quella parte della popolazione per la quale dovrebbe valere. In ultima analisi, non si occupa di crimini diversi da altri crimini, ma di autori di crimini diversi da altri autori. 
                  La sua forza sta nel saper fare leva su di una problematica 
                  da sempre irrisolta: esiste un contesto sociale al quale potrebbero 
                  in astratto essere riconducibili soggetti il cui modo di vivere 
                  e di pensare appare inconciliabile con qualunque valore civile 
                  (e al giorno d'oggi il pensiero non può non andare ai 
                  militanti dell'Isis)? Di fronte a questo interrogativo, finiscono 
                  con le spalle al muro molti pensatori liberali e libertari, 
                  se si considera che persino un abolizionista come Louk Hulsman, 
                  per sua stessa ammissione significativamente influenzato dal 
                  pensiero anarchico, ipotizza in caso di abolizione del diritto 
                  penale meccanismi sostitutivi da applicare ai terroristi che 
                  riprendano elementi tipici del diritto di guerra1. 
                  Il suo punto debole sta nell'indeterminatezza, o meglio nell'indeterminatezza 
                  dei suoi limiti. Affiancarlo al diritto penale delle garanzie 
                  significa porre accanto a quest'ultimo una creatura giuridica 
                  in grado di esercitare nei suoi confronti una notevole forza 
                  di erosione, o addirittura di contaminazione. È stato 
                  osservato che “tutelare gli interessi legati alla sicurezza 
                  pubblica attraverso un sottosistema definito in ragione della 
                  sua applicabilità a tipologie normative d'autore e connotato 
                  da una tendenziale inosservanza di fondamentali garanzie realizza 
                  una contraddizione in termini: invocare la rottura delle regole 
                  del gioco a tutela delle regole medesime”2. 
La cultura penale garantista, dominante nella dottrina occidentale, non ha mai riconosciuto il diritto penale del nemico come diritto penale, considerandolo come un non-diritto, cioè come potere punitivo tout court. Secondo Jakobs, invece, riconoscerlo come diritto penale è necessario affinché lo si possa limitare e quindi preservare anche il diritto penale delle garanzie. Questo dibattito sarebbe una sterile discussione accademica se non ci fosse il rischio di veder entrare a far parte dell'ordinamento giuridico di uno stato normative volte all'accoglimento dei principi fondamentali del diritto penale del nemico: di vedere cioè l'accademia farsi realtà. 
                  Una deriva repressiva all'orizzonte 
                È interessante notare che proprio negli anni in cui 
                  Jakobs teorizzava la nascita del diritto penale del nemico, 
                  un giovane studioso italiano, Massimo Pavarini, segnalava i 
                  rischi di un'analoga deriva repressiva del diritto penale e 
                  in particolare del diritto penitenziario. Pavarini partiva dall'assunto 
                  per cui la sostituzione della pena capitale e delle pene corporali 
                  con la pena detentiva (e il ruolo progressivamente centrale 
                  di essa) accompagna l'affermazione dello stato borghese non 
                  tanto perché le nuove idee illuministiche rendono le 
                  prime intollerabili, ma perché il carcere, nello svolgere 
                  una funzione essenzialmente disciplinare e nel riconfermare 
                  l'ordine sociale (con la sua netta distinzione tra l'universo 
                  dei proprietari e l'universo dei non proprietari) “deve 
                  educare (o rieducare) il criminale (non proprietario) ad essere 
                  proletario socialmente non pericoloso, cioè essere non 
                  proprietario senza minacciare la proprietà”3. 
                  La pena da distruzione diventa reintegrazione sociale del reo. 
                  La sua radice diventa il contratto: il trasgressore, visto come 
                  contraente inadempiente, risarcisce il danno pagando con il 
                  proprio tempo salariato e nel contempo si assoggetta alla disciplina 
                  che lo reintegrerà come soggetto docile. Ma - ammonisce 
                  Pavarini: “questo vale per il trasgressore, per chi viola 
                  le norme del contratto sociale. Per chi attenta al patto, per 
                  chi contesta in toto la sua validità, per chi 
                  si rende reo di crimen lesae maiestatis, per chi dichiara 
                  la propria inadempienza negando la causa stessa del rapporto, 
                  la disciplina del vincolo sinallagmatico impone la conseguenza: 
                  per questo vale la risoluzione del contratto. Il principe torna 
                  libero, il suo potere non è più vincolato al parametro 
                  contrattuale; per chi è “fuori”, per chi 
                  è “contro”, torna a valere il principio della 
                  difesa come distruzione del nemico. La mannaia e la forca”4. 
                  Strumenti di prevenzione e controllo 
                Nel periodo in cui venivano scritte queste parole, l'apparente 
                  equilibrio che il Welfare State sembrava aver assicurato 
                  stava rapidamente sgretolandosi. Mentre da un lato la crisi 
                  economica erodeva le conquiste sociali degli anni Sessanta, 
                  dall'altro la crescente politicizzazione della protesta cagionava 
                  una radicale reazione da parte delle agenzie di controllo. Il 
                  vecchio diritto penale perde gradatamente la capacità 
                  di far credere di essere in grado di risolvere determinati problemi: 
                  da qui la richiesta non di una sua sostituzione, ma del suo 
                  affiancamento con un nuovo diritto penale. È stato acutamente 
                  scritto: “come l'economia confina i suoi problemi difficilmente 
                  risolvibili in una ”bad bank”, così 
                  il legislatore penale confina le situazioni di minaccia difficilmente 
                  controllabili in un diritto penale del nemico; così le 
                  banche e il diritto penale vengono messi in condizione di funzionare 
                  nonostante la crisi”5. 
L'assunzione all'interno dell'ordinamento penale dei tratti distintivi del diritto penale del nemico porta a conseguenze che difficilmente si materializzano in riforme di ampio respiro. Si notano piuttosto la riduzione degli spazi dell'agire penalmente consentito, l'inasprimento delle condizioni carcerarie, il rafforzamento degli strumenti di indagine, il dominio dei paradigmi della sicurezza e della prevenzione sui concetti di libertà e di diritti individuali della persona, l'utilizzo in chiave “punitiva” del processo penale, la perdita delle finalità di recupero (sostituite da sanzioni escludenti), l'introduzione di normative che conferiscono agli operatori strumenti di lotta anziché di giustizia, l'abuso di strumenti parapenali di prevenzione e di controllo, oltre che di detenzioni amministrative. Sotto il profilo processuale, poi, si chiede al giudice di farsi carico delle tesi dell'accusa. 
                  Gli strumenti del garantismo, validi per i cittadini rispettosi 
                  del contratto sociale, vengono interpretati come solidarietà 
                  con il nemico e la terzietà del giudice diventa a rischio6. 
                  I destinatari di queste nuove norme perdono lo status 
                  di cittadini e vengono trattati come mere fonti di pericolo, 
                  da neutralizzare a tutti i costi7. 
                  Ma nei confronti di quali soggetti, principalmente, i nuovi 
                  postulati del diritto penale del nemico vengono a concretizzarsi 
                  dell'esperienza giuridica italiana? 
                  Non passa lo straniero 
                Le due categorie di soggetti nei cui confronti si sono incentrate 
                  le nuove politiche di annientamento sono state quella dei tossicodipendenti 
                  e quella degli immigrati. Ma mentre per la prima la nuova disciplina 
                  contenuta nel DPR 309 del 1990 ha affiancato all'inasprimento 
                  delle pene una serie di misure alternative alla detenzione volte, 
                  almeno in teoria, a non escludere completamente i consumatori 
                  di stupefacenti dal consesso sociale, l'ascesa al potere di 
                  forze xenofobe e populiste e l'oggettiva difficoltà ad 
                  inserire persone provenienti da paesi lontani in un contesto 
                  rigido e provinciale come quello italiano ha portato all'introduzione 
                  di norme dagli effetti potenzialmente devastanti. È la 
                  famigerata Bossi-Fini, in realtà una legge innestata 
                  nel corpo della preesistente normativa in materia di immigrazione. 
                  Accanto alla nuova disciplina amministrativa concernente la 
                  concessione dei permessi di soggiorno, le misure aventi natura 
                  penale si affermano nella prassi in modo marcato, svincolandosi 
                  dal riferimento a condotte connotate dall'ordinamento in termini 
                  di disvalore per legarsi ad una condizione individuale: quella 
                  di migrante8. 
                  La norma più pesantemente connotata dai tratti del diritto 
                  penale del nemico è quella che inserisce la nuova circostanza 
                  aggravante comune di cui all'art. 61, n. 11 bis, c.p.: l'avere 
                  il colpevole commesso il fatto mentre si trovava illegalmente 
                  sul territorio nazionale. Improvvisamente, tutti i reati, anche 
                  bagatellari, se commessi da stranieri presenti illegalmente 
                  sul territorio, vengono sanzionati con una pena aumentata di 
                  un terzo. Per loro nasce un diritto sanzionatorio a sé 
                  stante: e l'aggravante, svincolata com'è da qualunque 
                  collegamento specifico tra il trovarsi in Italia e il fatto, 
                  da un qualche dolo o colpa che si innesti sulla permanenza illegale 
                  secondo un nesso eziologico, costituisce di fatto una forma 
                  di responsabilità oggettiva, non più ricondotta 
                  al fatto, bensì al suo autore9. 
                  Ma non solo: per chi viene condannato per un reato connotato 
                  da questa aggravante non può essere disposta la sospensione 
                  dell'ordine di esecuzione prevista dall'art. 656 c.p.p., in 
                  forza del quale al condannato viene concesso un termine di trenta 
                  giorni per presentare un'istanza di concessione di una misura 
                  alternativa alla detenzione. I clandestini diventano carne da 
                  galera, uomini contro i quali il carcere e solo il carcere può 
                  servire come difesa sociale. 
Se l'art. 61, n. 11 bis, introdotto nel 2008 e sopravvissuto fino al 2010, quando è stato dichiarato incostituzionale, contiene in sé i germi più letali del diritto penale del nemico, è la nuova fattispecie incriminatrice della permanenza nel territorio dello Stato in violazione dell'ordine di espulsione (diventata nota come “articolo 14”) ad avere assunto la maggiore visibilità. Inizialmente era concepita come un reato contravvenzionale, per il quale era previsto l'arresto obbligatorio e il rito direttissimo; ma non potendo il giudice applicare per le contravvenzioni nessuna misura cautelare, di fatto la sua applicazione conduceva a risultati paradossali e illogici. Si celebravano a quei tempi surreali processi, nei quali gli arrestati venivano immediatamente posti in libertà, salvo poi procedere al giudizio vero e proprio che si concludeva con una condanna solo teorica. Magistrati, poliziotti, cancellieri, interpreti, difensori d'ufficio, tutti incastrati per mattinate intere al fine di irrogare sanzioni che non sarebbero mai state eseguite. Mai si era vista la macchina della giustizia girare così a vuoto. 
                  L'incongruenza di una normativa che obbligava ad arrestare persone 
                  che non potevano essere trattenute era evidente: investita della 
                  questione, la Corte Costituzionale ne dichiarò l'illegittimità. 
                  Il legislatore però non se ne diede per inteso e reagì 
                  trasformando il reato in un delitto ed innalzando la pena edittale. 
                  Le conseguenze non furono trascurabili: i giudici quando poterono 
                  ricorsero ancora alla sospensione condizionale, ma non pochi 
                  arrestati finirono dietro le sbarre, anche perché nel 
                  frattempo si era creata una moltitudine di recidivi che non 
                  potevano o non volevano lasciare il paese. La loro carcerazione 
                  non era dovuta a null'altro che al loro essere sé stessi. 
                  E il paradosso era, come è stato scritto, che lo Stato 
                  “riconosce l'inadeguatezza della pena di fronte all'espulsione; 
                  ammette che la pena non può tendere alla risocializzazione 
                  o alla rieducazione, ma è già in partenza la premessa 
                  di una successiva espulsione. L'extracomunitario irregolare 
                  è pertanto da escludere, un “nemico”, nel 
                  senso che si usa contro di lui lo strumento penalistico solo 
                  per escluderlo: non valgono o sono pretestuosi i principi della 
                  pena “meritata”, i criteri ordinari dell'offesa 
                  e della colpevolezza, della proporzione retributiva e delle 
                  finalità di recupero. L'uomo qui è solo un alien, 
                  che va respinto al mittente”10. 
                  Un comportamento irrazionale 
                Alla fine è stato il contrasto tra l'intera disciplina delle espulsioni e le direttive europee a far cadere questo stato di cose: Crono ha divorato i suoi figli. E però il reato non è, come molti pensano, scomparso: sopravvive, miniaturizzato in una fattispecie punita esclusivamente con una sanzione pecuniaria, di competenza del giudice di pace. Ancora oggi lo Stato spende denaro pubblico affinché i cosiddetti clandestini vengano identificati (si fa per dire, spesso trattasi di persone prive di documenti), denunciati a piede libero e poi processati, ovviamente senza essere avvisati, e condannati a multe che non pagheranno mai. Un comportamento tanto irrazionale si può giustificare solo con un motivo: la necessità di mantenere in vita la figura di un “nemico” contro cui volgersi, utilizzando politicamente la coercizione penale da un lato per dare sfogo a pulsioni xenofobe e canalizzare ansie identitarie e dall'altro tenere sotto controllo movimenti di estrema destra che altrimenti potrebbero incunearsi nel vuoto normativo e coagulare intorno a loro consensi che alla lunga potrebbero diventare davvero molto pericolosi. 
                  È comunque, a parte la vergogna dei CPT, ora (meno ipocritamente, 
                  questo dobbiamo riconoscerlo) CIE, l'intero intreccio tra istituti 
                  amministrativistici e istituti penalistici ad attribuire al 
                  diritto penale dell'immigrazione la fisionomia di un vero e 
                  proprio sottosistema, dotato di una sua logica interna in forza 
                  della quale i principi e gli scopi dell'ordinamento penale e 
                  della procedura penale vengono asserviti all'attività 
                  amministrativa preordinata all'allontanamento e all'esclusione 
                  dello straniero11. Eppure i migranti 
                  non sono nemici in senso jakobsiano, ovvero nel senso di una 
                  persona pericolosa nei confronti della quale lo Stato si autolegittima 
                  all'espulsione dal sistema di tutele giuridiche: essi infatti 
                  non diventano nemici in forza di una scelta autonoma, non è 
                  loro la scelta dell'irregolarità giuridica. La legislazione 
                  dell'immigrazione in Italia ha creato una nuova figura giuridica, 
                  quella della persona illegale, fuori legge e dunque priva di 
                  diritti solo perché giuridicamente invisibile12. 
                  Un nemico “fai da te” 
                Nell'esperienza italiana, come dimostra l'eclatante esempio 
                  della legislazione in tema di migranti, si è ricorso 
                  a caratteri tipici del diritto penale del nemico non tanto come 
                  strumento di difesa contro persone refrattarie a qualsiasi regola 
                  di convivenza civile, quanto per creare una tipologia di soggetti 
                  nei cui confronti disapplicare le garanzie e le tutele solitamente 
                  riconosciute agli altri individui. Il rapporto causa-effetto 
                  che la teorizzazione jakobsiana postula viene così a 
                  rovesciarsi, laddove il sistema della giustizia penale, trasformatosi 
                  in diritto penale della neutralizzazione selettiva, nel suo 
                  effettivo operare tratta, recluta e punisce come nemici solo 
                  o prevalentemente coloro che in quanto così selezionati, 
                  trattati e puniti sono costruiti socialmente come nemici13. 
                  In quest'ottica, i fatti e soprattutto gli autori sono considerati 
                  come oggetto di stigmatizzazione ed esclusione sociale e l'obiettivo 
                  di tutela degli imputati, che il diritto penale e soprattutto 
                  quello processuale dovrebbe avere la funzione di perseguire, 
                  si trasforma in violazione o compressione dei diritti14. 
                  Come ha osservato la già citata Giulia Fabini, il diritto 
                  penale del nemico fornisce alle misure giuridiche previste nei 
                  confronti dei soggetti così selezionati una nuova copertura 
                  giuridica, similmente a ciò che aveva fatto la scuola 
                  positiva per il fascismo15. 
La conseguenza di questo approccio è una latente soggettivazione del diritto penale: per nuovi tipi d'autore vengono introdotte nuove norme. La ricerca di capri espiatori su cui scaricare le tensioni sociali viene ovviamente effettuata nella marginalità: accanto a quella del migrante, è la figura del tossicodipendente a soffrirne maggiormente, come prova l'aumento esponenziale tra la popolazione carceraria di consumatori di stupefacenti nel biennio che va tra il 1990 e il 1992. Ma sarà l'intervento legislativo del 2006 (la c.d. Fini-Giovanardi), con la sua equiparazione tra droghe leggere e droghe pesanti e l'introduzione di sanzioni parapenali, a contribuite in maniera sostanziale alla tipizzazione del tossicodipendente: si assiste ad un proliferare di norme pensate apposta per lui, che vanno dall'auspicio moralistico alla repressione pura e semplice. Risultano invece assenti interventi sul sociale e sulle cause che conducono alla marginalità. 
                  Le norme si piegano al fine 
                Un altro soggetto sulla pelle del quale viene alimentata l'isteria 
                  securitaria è il recidivo. Nei suoi confronti si restringono 
                  gli spazi per accedere alle misure alternative, diventano obbligatori 
                  gli aumenti di pena, si interdice il bilanciamento con le circostanze 
                  attenuanti, si aumenta il termine di prescrizione del reato. 
                  Quest'ultimo aspetto è forse il più significativo: 
                  una causa di estinzione del reato di carattere fortemente oggettivo, 
                  legata com'è a parametri empirici quali il decorso del 
                  tempo e la pena edittale, risente nella sua applicazione pratica 
                  di mutamenti a seconda dell'autore del fatto. Un reato può 
                  prescriversi nei confronti dell'incensurato ma non nei confronti 
                  del suo correo recidivo; di fatto, un sistema differenziato, 
                  fondato sull'appartenenza dell'autore ad una categoria selettiva. 
                  All'intervento penale viene così impressa una vera e 
                  propria impronta identitaria16. 
                  Si obietterà che in un sistema penale come il nostro, 
                  ancora basato sull'impianto codicistico fascista, una simile 
                  tendenza è sempre esistita, soprattutto nel campo dei 
                  cosiddetti reati politici. È abbastanza vero, ma con 
                  una differenza fondamentale: in via di massima, l'elemento su 
                  cui imperniare i giudizi di condanna rimaneva sempre il fatto 
                  in sé, rilevando la figura dell'autore nella sua soggettività 
                  individuale, mai per appartenenza ad un gruppo astratto e predeterminato, 
                  ed essenzialmente per graduare la pena alla sua figura secondo 
                  i canoni previsti dall'art. 133 c.p. È paradigmatica 
                  una risalente sentenza della Corte di Cassazione, che nel condannare 
                  per istigazione a disobbedire alle leggi cinque anarchici che 
                  avevano tenuto comizi nei quali propugnavano l'astensione dal 
                  voto per le elezioni politiche del 1963, precisa: “Non 
                  può contestarsi il diritto di esistenza tra i partiti 
                  politici anche di quello anarchico, e ciò in base al 
                  metodo democratico a cui è informata la nostra Costituzione”17. 
                  A parte quel riferimento al “partito anarchico”, 
                  che può far sorridere, trapela dalla motivazione della 
                  sentenza lo sforzo di specificare che gli imputati non vengono 
                  condannati in quanto anarchici, che anzi è loro diritto, 
                  addirittura costituzionalmente garantito, esserlo, ma per il 
                  fatto che hanno posto in essere. Un ragionamento che potrà 
                  apparire ipocrita. Ma si provi a confrontarlo con l'impostazione 
                  accusatoria riferita in un'intervista da uno dei magistrati 
                  della Procura della Repubblica di Torino che hanno proceduto 
                  contro Erri De Luca per il simile reato di istigazione a delinquere: 
                  “Al barbiere di Bussoleno possiamo perdonare se dice di 
                  tagliare le reti, a un poeta, a un intellettuale come lui, no”18. 
                  Nel primo caso, l'autore è da punire nonostante sia lui; 
                  nel secondo, l'autore è da punire proprio perché 
                  è lui. La norma si piega ad un fine, dev'essere adattata 
                  ad un tipo d'autore predeterminato: non è la norma ad 
                  essere diversa, è diverso il trasgressore: in quanto 
                  tale, va selezionato, trasformato in criminale, elevato a soggetto 
                  pericoloso; diventa un nemico. 
Nel contesto della repressione del movimento No Tav si è assistito al più straordinario caso di implementazione del diritto penale del nemico all'interno dell'ordinamento italiano. Nel novembre 2011, nell'ambito della legge di stabilità, veniva approvata una norma che statuiva che le aree e i siti del Comune di Chiomonte individuati per i lavori di realizzazione della galleria geognostica della linea ferroviaria Torino-Lione costituiscono aree di interesse strategico nazionale e che chiunque vi si introduca abusivamente o impedisca od ostacoli l'accesso autorizzato è punito “a norma dell'art. 682 c.p.” (l'ingresso arbitrario in luoghi ove l'accesso è vietato nell'interesse militare). La particolarità di questa norma è che non assimila i cantieri ai luoghi di interesse militare, riconducendo l'ipotesi al reato-madre: essa infatti prescinde dalla presenza dell'esercito nei siti (peraltro un dato di fatto) e, prevedendo che il reato è punito “a norma dell'art. 682 c.p.”, introduce una fattispecie autonoma di reato, avente destinatari predeterminati e suscettibile di essere commesso solo in un luogo precisamente individuato (ne restano escluse, per esempio, le azioni a margine dei lavori per il Terzo Valico in Valle Scrivia). 
                  La repressione della protesta No Tav ha i tratti tipici del 
                  diritto penale del nemico, con un impiego di mezzi e uomini 
                  grandemente sovradimensionato rispetto alle reali necessità 
                  (il che sottintende un confronto giocato anche sul piano “numerico”); 
                  un evidente squilibrio nel trattamento dei reati commessi dagli 
                  attivisti rispetto a quelli commessi dalle forze dell'ordine 
                  e soprattutto rispetto alle esigenze di tutela dell'ambiente; 
                  una sovraesposizione mediatica delle tesi accusatorie con la 
                  conseguente difficoltà a conservare il principio di terzietà 
                  del giudice; la costruzione della figura dell'avvocato difensore 
                  come sostanziale complice dell'imputato; l'estensione dell'istituto 
                  del concorso di persone a scapito del principio costituzionale 
                  di responsabilità personale; e, in via generale, la concezione 
                  di una magistratura di lotta più che di giustizia. Il 
                  quadro che ne discende è quello di una contrapposizione 
                  dura all'interno della quale le garanzie individuali sono continuamente 
                  messe in pericolo19. 
                  Garanzie individuali in pericolo 
                Tuttavia, lo specifico reato introdotto nel 2011, peraltro 
                  contravvenzionale e oblazionabile, ha avuto conseguenze non 
                  particolarmente marcate: chiave di volta, piuttosto, è 
                  stato il ricorso da parte della Procura all'ambiguo e inquietante 
                  concetto di terrorismo, facendo leva su una serie di norme introdotte 
                  nell'ordinamento italiano nel 2005. Riguardo la figura del terrorista, 
                  è interessante rifarsi ancora al risalente e già 
                  citato scritto di Pavarini, che identificava questo soggetto 
                  come quello nei cui confronti si sarebbe coagulato il consenso 
                  di fondo degli agenti di un controllo sociale che, per altro 
                  verso, andava (così lui prevedeva allora, in realtà 
                  le cose si sono poi svolte diversamente) in direzione di una 
                  sempre più accentuata decarcerizzazione. Nei confronti 
                  del terrorista, in sintesi, si sarebbe cementato un progetto 
                  di difesa sociale comune a tutte le forze politiche, nel tentativo 
                  di dare origine a un nuovo “patto sociale” che sarebbe 
                  subentrato a quello, ormai logoro, che univa i proprietari all'affermarsi 
                  della nuova società borghese20. 
                  Pavarini tuttavia non si pone una domanda: e se il terrorista 
                  non ci fosse? Eppure la risposta è molto semplice: bisognerebbe 
                  inventarlo. Ed è esattamente ciò che fa il novello 
                  art. 270 sexies c.p., che pretendendo di definire le condotte 
                  con finalità di terrorismo soffre di un grave deficit 
                  di tassatività laddove considera tali anche quelle che 
                  sono compiute allo scopo di costringere i poteri pubblici a 
                  compiere o ad astenersi dal compiere un qualsiasi atto. Con 
                  una definizione residuale di questo genere, in un contesto di 
                  assenza del requisito di natura violenta delle condotte, non 
                  c'è da stupirsi del suo utilizzo contro il movimento 
                  No Tav. 
                  È evidente come la definizione contenuta nell'art. 270 
                  sexies non riesce a colmare con sufficiente chiarezza e coerenza 
                  sistematica quel deficit di determinatezza che ne ha motivato 
                  l'introduzione21. La norma è 
                  vaga e imprecisa, rimette alla prassi interpretativa la definizione 
                  su cui voleva far luce e di fatto viola le esigenze di certezza 
                  poste a garanzia dell'individuo sia dal punto di vista processuale 
                  sia da quello sostanziale, svelando come la rottura del principio 
                  di tassatività/determinatezza, centrale nel rapporto 
                  tra autorità e individuo, porti ad un netto affievolimento 
                  della considerazione che la prima ha per le libertà individuali22. 
                  Uno strumento contro il dissenso 
                L'aggravante della finalità di terrorismo, nello specifico 
                  caso dei quattro No Tav, non ha retto né al vaglio della 
                  Cassazione in sede cautelare né nel merito. Ma non è 
                  ancora il caso di cantar vittoria, sia perché la sentenza 
                  non è ancora passata in giudicato, sia perché 
                  la norma continua a prestarsi ai più svariati usi proprio 
                  a cagione della sua indeterminatezza. Considerare terrorismo 
                  ogni condotta compiuta in modo idoneo (e neppure con il connotato 
                  della violenza) a costringere i pubblici poteri a compiere o 
                  ad astenersi dal compiere un qualsiasi atto apre le porte alla 
                  possibilità di perseguire come terrorista chiunque tenti 
                  di interferire su scelte politiche che a questo punto lo Stato 
                  potrebbe legittimamente porre in essere, come l'entrata in guerra, 
                  la mancata adesione a convenzioni internazionali in materia 
                  di diritti umani o l'utilizzo di fondi pubblici per attività 
                  gravemente lesive per l'ambiente. 
                  Il rischio è allora che il diritto penale del nemico, 
                  nel suo allignare anche abbastanza oscuramente a fianco del 
                  diritto penale classico, diventi lo strumento da utilizzare 
                  tout court nei confronti del dissenso laddove questo 
                  diventi eccessivamente difficile da controllare tramite i mezzi 
                  tradizionale. Per dirla ancora con Pavarini, “il recupero 
                  dell'allarme sociale sembra essersi orientato verso l'utilizzazione 
                  politica dello “ordinamento democratico” contro 
                  i processi di destabilizzazione e i suoi autori”, sulla 
                  scorta di quel nuovo patto sociale a cui si accennava più 
                  indietro; “ma ogni patto ha i suoi esclusi, ha i suoi 
                  rei di crimen lesae maiestatis, ha i suoi soggetti nei 
                  cui confronti il potere diventa “libero”, svincolato 
                  da ogni rapporto, nei cui confronti può e deve valere 
                  una sola logica: l'annientamento”23. 
                  Sono parole dure, che dopo più di trent'anni non paiono 
                  aver perso la loro forza. Forse, ad onta delle numerose bocciature 
                  accademiche, il diritto penale del nemico è ancora tra 
                  noi. 
                 Enrico Torriano 
                 Note 
                 
					- L. Hulsman, Abolire il diritto penale?, in Studi 
                  di teoria della pena e del controllo sociale, Bologna, 1985, 
                  pag. 317.
                  
 - V. Masarone, Le condotte con finalità di terrorismo: 
                  un'emergenza indeterminata, in I diritti fondamentali 
                  della persona alla prova dell'emergenza, Edizioni Scientifiche 
                  Italiane, Napoli, 2009, pag.154.
                  
 - D. Melossi - M. Pavarini, Carcere e fabbrica, Il Mulino, 
                  Bologna, 1977, pag. 207.
                  
 - M. Pavarini, Appendice a G. Rusche - O. Kirkhheimer, Pena 
                  e struttura sociale, Il Mulino, Bologna, 1978, pag. 361.
                  
 - W. Hassener, Stiamo andando verso un diritto penale del 
                  nemico?, in Democrazia e autoritarismo nel diritto penale, 
                  Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2011, pag. 77.
                  
 - M. Donini, Lo status di terrorista tra il nemico e il criminale, 
                  in I diritti fondamentali della persona alla prova dell'emergenza, 
                  Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2009, pag. 96.
                  
 - E. D. Crespo, Il diritto penale del nemico darf nicht sein!, 
                  in Studi sulla questione criminale, 2007, 2, pag. 44.
                  
 - A. Caputo, Irregolari, criminali, nemici: note sul diritto 
                  speciale dei migranti, in Studi sulla questione criminale, 
                  2007, 1, pag. 60.
                  
 - V. Plantamura, La circostanza aggravante della presenza 
                  illegale sul territorio nazionale, in Le nuove norme 
                  sulla sicurezza pubblica, Cedam, Padova, 2008, pagg. 271 
                  e ss.; M. Donini, Il cittadino extracomunitario da oggetto 
                  materiale a tipo d'autore nel controllo penale dell'immigrazione, 
                  in Questione giustizia, 1, 2007, pag. 129.
                  
 - M. Donini, Il cittadino extracomunitario, cit., pag. 
                  131.
                  
 - A. Caputo, Irregolari, criminali, nemici, cit., pag. 
                  58.
                  
 - G. Fabini, Migranti e polizia. Tra diritto penale e regole 
                  del disordine, www.altrodiritto.unif.it/ricerche/migranti/fabini, 
                  cap. 4, par. 2.2.
                  
 - M. Pavarini, La giustizia penale ostile, in Studi 
                  sulla questione criminale, 2007, 2, pag. 11.
                  
 - M. Donini, Il diritto penale differenziato, in Il 
                  tramonto della modernità giuridica, Giappichelli, 
                  Torino, 2008, pag. 227.
                  
 - G. Fabini, Migranti e polizia, cit. cap. 4, par. 2.2.
                  
 - F. Palazzo, Contrasto al terrorismo, diritto penale del 
                  nemico e principi fondamentali, in Questione giustizia, 
                  2006, 4, pag. 666.
                  
 - Cass., Sez. I, 7 novembre 1967, n. 2011, in Cassazione 
                  Penale Massimario, 1968, pag. 1250.
                  
 - E. De Luca, La parola contraria, Feltrinelli, Milano, 
                  2015, pag. 33.
                  
 - Sull'argomento, più in generale, si veda L. Pepino, 
                  La Val Susa e il diritto penale del nemico, in Come 
                  si reprime un movimento: il caso No Tav, Intra Moenia, Napoli, 
                  2014.
                  
 - M. Pavarini, Appendice, cit., pag. 364.
                  
 - V. Masarone, Le condotte con finalità di terrorismo, 
                  cit., pag. 146.
                  
 - V. Masarone, Le condotte con finalità di terrorismo, 
                  cit., pag. 152; S. Moccia, La promessa non mantenuta, 
                  Napoli, 2001, pag. 17.
                  
 - M. Pavarini, Appendice, cit., pag. 364-365.
                  
  
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