|   Racconti 
                         
                        di Giuseppe Ciarallo, Diego Giachetti, Cinzia 
                        Piantoni 
                         
                        Da leggere sotto l'ombrellone o dove preferite. 
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                  Racconto/1 
                   
                  Cinque minuti 
                   
                  di Cinzia Piantoni
  
Agata 
                    “Aveva gli occhi dell'amore, verdi, come due lacrime 
                  d'amore, grandi...” 
                  C'è chi ripete poesie a memoria. Chi recita preghiere. 
                  Agata invece fa così, si canticchia una canzone nella 
                  testa, e il più delle volte è questa vecchia melodia 
                  che le ha insegnato la nonna. 
                  Il caldo le ha appiccicato addosso la camicetta elegante, e 
                  lo chignon nel quale ha raccolto i capelli inizia già 
                  a somigliare a un soufflé sgonfio. Le calze di lycra 
                  poi, le danno una fastidiosa sensazione di prurito. Ha una voglia 
                  matta di grattarsi le gambe, ma resiste. 
                  Mentre procede nella fila verso i controlli di sicurezza si 
                  fissa la punta delle scarpe, un po' per non dare nell'occhio, 
                  e un po' per rispetto dei pensieri altrui, che già nel 
                  raggio di un centinaio di metri dalla Sede Centrale iniziano 
                  ad apparire sopra le teste di tutti. 
                   
                  Era cominciato tutto molti anni prima che lei nascesse. In una 
                  storica conferenza stampa il primo ministro dell'epoca, con 
                  sorriso smagliante e aria trionfale, aveva presentato il mindchip. 
                  «Signori, questo è il futuro della nostra sicurezza», 
                  aveva detto orgoglioso, «il prodotto di una nanotecnologia 
                  certificata, un circuito grande come la punta di uno spillo, 
                  che sarà impiantato del tutto gratuitamente e in maniera 
                  indolore nel cervello di ogni cittadino.» 
                  A quella frase, dopo un boato di stupore, la mano di ogni giornalista 
                  nella stanza era scattata impaziente verso l'alto. Il capo del 
                  governo, da consumato uomo di spettacolo qual era, invece di 
                  rispondere li aveva lasciati crogiolare nella curiosità 
                  mentre si avviava a un palchetto affiancato da un monitor. Lì, 
                  col supporto di un filmato in 3D ricco di effetti speciali, 
                  aveva iniziato a spiegare nel dettaglio le rivoluzionarie proprietà 
                  del mindchip. Il circuito avrebbe captato i pensieri 
                  del portatore, per poi proiettarli grazie a un sistema olografico 
                  direttamente sopra la sua testa. 
                  «Il mindchip», aveva assicurato, «non invaderà 
                  mai e poi mai la vita privata dei miei amati concittadini, ma 
                  si attiverà solo in luoghi a rischio terrorismo quali 
                  aeroporti, grandi eventi, uffici pubblici, e comunque in tutti 
                  gli obiettivi sensibili. Sono certo che, solo ed esclusivamente 
                  in quei casi, saremo tutti contenti di sacrificare un po' di 
                  privacy in nome della sicurezza.» 
                  Il capo del governo specificò che i mindchip sarebbero 
                  stati impiantati e resi operativi in ogni cittadino del continente 
                  entro la fine del mese, e che nessuno sprovvisto del circuito 
                  sarebbe potuto entrare in Europa, quindi nemmeno in Italia. 
                  Nessun anonimo, nessun probabile terrorista con pensieri omicidi 
                  sarebbe più passato inosservato. Nessuno straniero. 
                  Questo aveva convinto più o meno tutti, persino l'elettorato 
                  dell'opposizione, anche se comunque non ce ne sarebbe stato 
                  alcun bisogno, visto che il mindchip era tutto fuorché 
                  facoltativo. Anche ai nuovi nati sarebbe stato impiantato il 
                  circuito, persino prima di dargli un nome, ma questo il primo 
                  ministro aveva evitato di dirlo per non impressionare le sue 
                  elettrici in dolce attesa. 
                  Ben presto, proprio come sperava chi l'aveva ideato, il mindchip 
                  smise di essere la novità: venne digerito dalla gente 
                  e nessuno sembrò farci più caso. Ormai era diventato 
                  normale che il tizio di fronte a te in metropolitana potesse 
                  sapere che stavi tradendo tuo marito o che al supermercato avevi 
                  dimenticato di comprare i cereali. 
                  Per Agata e quelli come lei il mindchip invece era un 
                  nemico da fregare. Il modo per riuscirci esisteva, ed era così 
                  banale da non essere stato nemmeno considerato dai suoi creatori. 
                  Bastava semplicemente occupare la testa con qualcos'altro, proprio 
                  come cercava di fare lei in quel momento. Non importava cosa 
                  fosse, una canzone, una filastrocca, andava bene qualsiasi cosa 
                  purché coprisse temporaneamente tutto il resto. 
                  «Basta», sibilò sottovoce rivolta a se stessa. 
                  Se avesse continuato a far vagare la mente qua e là si 
                  sarebbe fregata da sola. 
                  Ricominciò a cantare, provando a non concentrarsi davvero 
                  su niente. 
                   
                  Hiro 
                   
                  Un raggio di sole filtra tra le sbarre elettrificate, illuminando 
                  il pulviscolo nell'aria. 
                  Socchiudo gli occhi e lo osservo in silenzio. 
                  Quanto tempo è passato da quando sono qui? I giorni, 
                  le ore, gli anni e i secondi, qui dentro tutto si confonde. 
                  Ogni attimo rotola via da me, uguale ma diverso da quello precedente, 
                  come impalpabili fiocchi di neve che si sciolgono e svaniscono 
                  subito dopo essere caduti. 
                  Passo le mie giornate così, osservando il vuoto, annusando 
                  questa morte imminente dall'odore di disinfettante, ascoltando 
                  le voci dei miei compagni nelle altre celle che piano piano 
                  si spengono. 
                  Ci hanno imprigionati con l'inganno. La mia memoria ormai è 
                  andata, ma questo lo ricordo ancora perfettamente. 
                  Sono sempre stati così bravi, a far credere alle persone 
                  di agire per il loro bene! Ed è andata così anche 
                  per noi. Gli è bastato inventarsi un virus, una malattia 
                  che potevamo trasmettere solo toccandoci. Non ne ho mai capito 
                  bene il motivo, forse qualche stupida analisi di mercato diceva 
                  che non era più conveniente mantenerci, che pesavamo 
                  troppo sulle tasche degli italiani. Forse semplicemente si erano 
                  stufati di averci qui in mezzo a loro. Così dissero che 
                  eravamo sporchi e portavamo malattie... davvero originale. È 
                  quasi divertente notare come tutte le loro mosse si riconducano 
                  a stupidi luoghi comuni. 
                  Non ci hanno uccisi, ma chiusi qui e in altre prigioni come 
                  questa sparse per il paese. Ufficialmente per curarci, in realtà 
                  per lasciarci morire. 
                   
                  Agata 
                   
                  È arrivato il suo turno. Agata cerca di non farsi distrarre 
                  dal sottofondo di musica da camera proveniente dall'interno, 
                  né dall'invitante refolo di aria condizionata che lo 
                  accompagna. 
                  Si toglie la giacca del tailleur, solleva la manica destra della 
                  camicia azzurra e porge l'avambraccio alla guardia sorridente. 
                  È poco più che un ragazzo, potrebbe avere l'età 
                  di suo fratello Yuri. Agata a quel punto gli sorride di rimando, 
                  mentre in testa ripete le parole della solita canzone. Non può 
                  assolutamente permettersi di pensare a suo fratello, non adesso, 
                  o manderà all'aria l'intero piano. 
                  La guardia, che dal tesserino risulta chiamarsi Alessandro, 
                  le scansiona il codice identificativo, lo stesso gesto che avrà 
                  già fatto almeno altre mille volte solo oggi. Il lettore 
                  fa un bip strano, segno che qualcosa non va. Il ragazzo lo osserva 
                  con espressione stupita, probabilmente non gli è mai 
                  successo prima. 
                  «Tutto bene, agente?» Chiede Agata. 
                  «Niente di grave. Non è colpa sua signorina, è 
                  che lo scanner non riesce a leggere il codice per colpa di quel 
                  taglio», risponde lui facendo un cenno verso il braccio 
                  di Agata. 
                  Una linea rossa attraversa di netto il complicato sistema di 
                  punti e linee che costituiscono il quadrato tatuato sulla sua 
                  pelle. 
                  «Oddio, mi dispiace», esclama lei fingendo di cadere 
                  dalle nuvole, «è che ieri ho voluto cucinare come 
                  si faceva una volta, sa con pentole, coltelli e roba simile, 
                  e questo è il risultato.» 
                  Doveva ammettere che la trovata del taglio era stata geniale. 
                  Ling, uno dei suoi compagni della Serra 58, aveva proposto di 
                  modificare il codice tatuandovi delle linee in più che 
                  avrebbero portato a una pagina d'identità falsa. Anche 
                  quella era una buona idea, ma sarebbe stato un procedimento 
                  troppo lungo, e la cosa fondamentale adesso era agire in fretta. 
                  «Ora risolviamo subito, non si preoccupi. Ha con sé 
                  il suo documento di riserva, immagino.» 
                  «Certo, dovrebbe essere qui da qualche parte», dice 
                  Agata fingendo di cercarlo dappertutto nella borsa. Dopo quasi 
                  trenta secondi lo estrae esultante come avesse trovato il Sacro 
                  Graal. 
                  «Eccolo qua», esclama porgendo alla guardia un tesserino 
                  che ha tutta l'aria di essere usato e autentico. 
                  «Bene, signorina Sara», risponde la guardia dopo 
                  l'allegro suono di conferma del lettore, «le auguro una 
                  buona giornata, e benvenuta alla Sede Centrale!» 
                   
                  Hiro 
                   
                  Tutto quello che riesco a vedere attorno a me è di un 
                  pallore asettico quasi accecante. Il neon sul soffitto, acceso 
                  giorno e notte, è così forte che sembra mandare 
                  piccoli lampi di luce ogni volta che lo guardo. Persino le sbarre 
                  sono bianche, credo le abbiano volute di questo colore per trarci 
                  in inganno e indurci a pensare che fossero innocue, che non 
                  ci sarebbe successo nulla di male se le avessimo toccate. E 
                  noi ci siamo cascati tutti, almeno una volta per uno. 
                  Non sono in grado di vedere nessuno dei miei compagni di prigionia, 
                  non posso nemmeno sporgere la testa fuori dalla mia cella o 
                  sarei stordito dalle scosse. Eppure sono riuscito lo stesso 
                  a comunicare con loro, perché per fortuna abbiamo ancora 
                  le nostre voci e le nostre orecchie. Sempre che non decidano 
                  di toglierci anche quelle. 
                   
                  Dopo un po' di tempo mi sono fatto un'idea abbastanza precisa 
                  di dove siamo. 
                  Il corridoio di marmo lucido di fronte alle piccole celle, sempre 
                  perfettamente pulito anche se nessuno ci passa più (merito 
                  di un macchinario automatico che lo percorre ogni giorno, lasciando 
                  dietro di sé un fastidioso odore di detergente al limone), 
                  ha due porte alle estremità e tre grandi finestre che 
                  danno su un parco trasandato. 
                  Non è un passaggio dritto, ma ha una forma sinuosa. L'ho 
                  scoperto perché se mi metto in un punto preciso della 
                  mia cella, la prima della fila vicino all'entrata, riesco a 
                  distinguerne il finale. 
                  La porta in fondo non è mai stata aperta, mai una volta, 
                  nemmeno quando ancora qualcuno veniva a visitarci, perciò 
                  ho capito che è l'uscita verso il mondo fuori, e visto 
                  che quel parco me lo ricordo so che siamo nella zona più 
                  a Sud dell'edificio. 
                  E pensare che quando ero libero mi sembravano dei giardinetti 
                  da quattro soldi, ora darei tutto quello che ho per poterci 
                  fare una passeggiata. 
                  Il problema, però, è che non ho più niente. 
                   
                  Agata 
                   
                  Dall'esterno la Sede Centrale somiglia a un enorme cappello 
                  dalla foggia strana. Attorno a un'alta cupola, composta dai 
                  quindici piani dedicati agli uffici Affari Riservati, si dipanano 
                  i dieci cerchi concentrici del piano terra, ognuno ulteriormente 
                  diviso in quattro sezioni. 
                  Agata cerca di confondersi tra la folla mentre percorre i corridoi 
                  luccicanti del settore 10 Nord guardandosi intorno. Da entrambi 
                  i lati si susseguono in ordine sparso: uffici di design dalle 
                  pareti trasparenti con impiegati dalle facce entusiaste, micro 
                  ristoranti esclusivi da massimo dieci coperti, negozi di vestiti 
                  all'ultima moda, hotel in versione compatta, fast food, asili 
                  per i figli dei dipendenti pubblici, e tante altre di quelle 
                  cose che quasi le gira la testa. 
                  L'interno dell'edificio dà la sensazione di essere enorme, 
                  sembra persino più grande di come lo si vede in TV. Più 
                  che una sede governativa le ricorda un centro commerciale, in 
                  una versione super lusso che nella sua vita di tutti i giorni 
                  le sarebbe a dir poco inaccessibile. C'è persino un sottofondo 
                  di musica classica, interrotto solo ogni tanto dagli annunci 
                  promozionali del governo attuale. 
                  Quando incrocia un uomo della sicurezza si gira dall'altra parte, 
                  fingendosi molto interessata a una vetrina. D'istinto pensa 
                  a una canzone, poi si dà della scema da sola. Qui il 
                  mindchip non è attivo, visto che in teoria chi 
                  è entrato ha già passato sufficienti controlli. 
                  Al di là del vetro una decina di giganteschi schermi 
                  TV trasmette in contemporanea il nuovo spot della stazione Nova, 
                  satellite extra lusso dove i ricchi del pianeta sono già 
                  emigrati da anni. Ora anche ai cittadini comuni è stata 
                  data la possibilità di viverci, basterà solo arrivare 
                  a raccogliere cento punti sulla scheda fedeltà. Un punto 
                  ogni sei mesi senza commettere reati. Così se va bene 
                  tra cinquant'anni si ritroveranno tutti lassù, a fare 
                  le stesse cose che fanno qui ma a sentirsi molto più 
                  cool. Ovviamente questa scheda è fornita solo ai dipendenti 
                  del governo, non certo ai cittadini di serie B che, come lei, 
                  lavorano nelle serre o nelle fabbriche. Comunque non è 
                  lo spot ad attirare l'attenzione di Agata, bensì l'orario 
                  che mostrano i display nell'angolo in basso a destra. Sono le 
                  tredici e trenta, ha solo quindici minuti prima del passaggio 
                  tra generatori, ed è ancora lontana dal pannello di controllo. 
                  Deve fare in fretta, e soprattutto non deve dare nell'occhio, 
                  o sarà la fine. 
                  Libera dall'ansia del mindchip si ripassa nella testa 
                  le fasi del piano e la mappa del settore 10. Ora è nella 
                  sezione Est, se ne accorge perché come previsto i negozi 
                  e gli uffici iniziano a diradarsi, per poi addirittura scomparire 
                  verso la fine. In pochi minuti si ritrova a camminare da sola, 
                  l'unico suono i suoi tacchi frettolosi sul pavimento di marmo. 
                  Rabbrividisce, l'aria condizionata qui è davvero troppo 
                  alta, le sembra di essere rimasta intrappolata in un freezer. 
                  Si ritrova quasi a rimpiangere il caldo torrido della città 
                  fuori di lì. 
                  Stando alle informazioni dei loro infiltrati, dovrebbe esserci 
                  quasi. 
                  «Oh dannazione, non ce la faccio più!» Sussurra 
                  tra sé, poi finalmente si decide e si sfila quelle scarpe 
                  assassine. Tanto da qui in poi non dovrebbe vederla più 
                  nessuno, e se disgraziatamente dovesse succedere il contrario 
                  nessuno si curerebbe di cosa indossa ai piedi. 
                  È arrivata. Eccolo lì, il pannello di controllo 
                  della sezione Sud. È nascosto dietro una porta, piccola 
                  e nello stesso colore della parete, così anonima che 
                  potrebbe essere scambiata per un qualsiasi magazzino degli addetti 
                  alle pulizie uguale ad altri disseminati per la sede. Non c'è 
                  nemmeno una serratura magnetica, ma una semplice maniglia. 
                  Appoggia a terra le scarpe, si guarda intorno, ed entra. 
                   
                  Hiro 
                   
                  Da ieri Rufus non mi risponde più. 
                  Ci hanno portati qui insieme, e l'hanno rinchiuso nella cella 
                  accanto alla mia. L'ho guardato negli occhi solo il primo giorno... 
                  Me la ricordo ancora la sua espressione scura e triste, così 
                  diversa dalla mia. Io venivo da una bella casa in campagna, 
                  stavo bene, coi miei fratelli e mia madre. Lui invece aveva 
                  l'aria malconcia di chi vive per strada da troppo tempo. Forse 
                  pensava persino di trovare una vita migliore, qui dentro. Un'unica 
                  occhiata, poi la parete fra noi ci ha divisi senza nessun'altra 
                  possibilità di ricorso alla vista. La sola cosa che ci 
                  ha dato la forza di andare avanti in tutto questo tempo è 
                  stato poterci ascoltare. Quante notti ci siamo fatti compagnia, 
                  col semplice suono delle nostre voci. 
                  Stamattina appena sveglio l'ho chiamato, ma lui non ha risposto. 
                  Ho provato e riprovato, l'ho chiamato più forte, per 
                  la rabbia mi sono persino messo a graffiare questo stupido muro. 
                  Ma non è successo niente, accanto a me c'era solo il 
                  silenzio. 
                  Così, dopo essermi lamentato fino allo sfinimento, mi 
                  sono arreso. 
                  Non c'è niente nella mia cella, a parte un piccolo angolo 
                  con l'occorrente per i miei bisogni e un giaciglio costituito 
                  da un mucchio di coperte. Mi ci sono sdraiato sopra, immobile, 
                  e mentre aspetto che la mancanza di cibo faccia morire anche 
                  me, penso alla mia famiglia. 
                  Chissà dove sono. Se sono ancora vivi o se, come il vecchio 
                  Rufus, non ce l'hanno fatta. 
                  Di solito mi tormento temendo per loro i peggiori epiloghi. 
                  La mia povera mamma era molto anziana già anni fa, è 
                  anche cieca, potrebbe persino essere stata uccisa al momento 
                  della cattura. A volte mi ritrovo a sperare che la vecchiaia 
                  se la sia portata via prima che lo facessero le guardie. E i 
                  miei fratelli, così vivaci, così allegri, saranno 
                  riusciti a scappare, a nascondersi? 
                  O saranno in una prigione uguale a questa, a farsi le stesse 
                  mie domande? 
                  La cosa che mi fa stare male, che mi ha sempre fatto soffrire, 
                  è non sapere. 
                  Che ne è stato di loro? Che ne sarà di me? 
                   
                  Agata 
                   
                  Le dita scorrono veloci sulla tastiera. Tredici e quarantuno, 
                  solo quattro minuti prima del passaggio tra generatori. 
                  Davanti a lei una sfilza di piccoli monitor trasmette le immagini 
                  a circuito chiuso della sezione Sud. Per lo più si tratta 
                  di depositi merci e stanze mezze vuote, l'unica che importa 
                  ad Agata è la piccola inquadratura in basso a sinistra: 
                  la prigione. 
                  Non si è mai interessata di programmazione, di hackeraggio 
                  o roba simile, quello è sempre stato pane per i denti 
                  di suo fratello Yuri. Ma quando tra i residenti della Serra 
                  58 si era sparsa la voce del progetto, si era subito offerta 
                  volontaria per la fase finale. 
                  La memoria è il suo punto forte, perciò le sono 
                  bastati un po' d'impegno e di esercizio per imparare la precisa 
                  sequenza di codici per sbloccare le due porte della prigione, 
                  quella di entrata e quella di uscita. 
                  Ha immaginato così tante volte questo momento, e ora 
                  lo sta vivendo sul serio. È tutto così reale: 
                  il freddo del pavimento sotto i suoi piedi nudi, le calze che 
                  le prudono, la fame. 
                  Presto saranno tutti liberi, deve solo sbrigarsi a completare 
                  la sfilza di numeri e lettere. Per un attimo ha il terrore di 
                  avere sbagliato una cifra, poi vede il logo della prima porta 
                  lampeggiare. Rosso, verde, rosso, verde. E si ferma sul verde. 
                  È aperta! Ora tocca alla seconda. 
                  Un segnale acustico dagli altoparlanti annuncia che manca solo 
                  un minuto al passaggio, ma in realtà dovrebbero bastarle 
                  solo pochi secondi ormai. Si alza già in piedi per guadagnare 
                  tempo, mentre continua a digitare. 
                  «Dai! Sbrigati, idiota di un sistema!» 
                  Finalmente anche il secondo logo lampeggia. Prima rosso, poi 
                  verde, poi rosso... 
                  D'un tratto un rumore dietro di lei la fa sobbalzare. Agata 
                  si stacca dalla tastiera come avesse ricevuto la scossa. Nello 
                  stesso momento le luci si spengono, insieme a tutti i monitor, 
                  e ai generatori di aria condizionata. 
                  «Signorina Sara», esclama una voce familiare, «cosa 
                  ci fa lei qui?» 
                  Agata si gira verso la porta. La luce naturale che filtra dall'esterno 
                  illumina Alessandro, la guardia che stava all'ingresso. 
                  «E queste sono sue?» Aggiunge mostrandole le scarpe 
                  che deve avere raccolto lì fuori. 
                  In mancanza d'altro Agata decide di recitare di nuovo la parte 
                  della finta tonta, dopotutto ai controlli all'entrata aveva 
                  funzionato: «Oh mamma, devo essermi persa! Sa, lavoro 
                  qui da poco, e quando c'è questo cavolo di passaggio 
                  non ci capisco più niente. E quelle scarpe le ho tolte 
                  perché sono così strette che ho i piedi doloranti. 
                  Le sembro pazza, vero?» 
                  Trascorre una frazione di secondo in cui vede il dubbio passare 
                  sul viso del ragazzo, poi le sue labbra si allargano in un sorriso: 
                  «Non si preoccupi, le confesso che succedeva anche a me 
                  i primi giorni.» 
                  Poi arrossisce e aggiunge: «Intendo il perdermi, non la 
                  cosa delle scarpe... Venga, la accompagno nel suo settore.» 
                  Agata finge gratitudine mentre gli si affianca, procedendo nella 
                  direzione opposta rispetto a quella della prigione. In realtà 
                  si sente il cuore martellare in gola. 
                  Già dalle previsioni aveva poco tempo per far tutto, 
                  visto che il passaggio da un generatore all'altro dura solo 
                  cinque minuti, almeno da quello che ha detto il loro infiltrato. 
                  Cinque striminziti minuti di mancanza totale di corrente su 
                  cui in pratica si appoggia tutto il piano d'azione. 
                  Adesso dovrà muoversi ancora più in fretta, ma 
                  prima di tutto sbarazzarsi di questo gentile e ingenuo addetto 
                  alla sicurezza. Questa proprio non ci voleva. 
                  Inoltre c'è la questione della seconda porta, l'uscita 
                  della prigione: anche se l'apertura era quasi completata, non 
                  ne ha avuto la conferma prima che il monitor si spegnesse. E 
                  se arrivasse fin lì per poi ritrovarsi bloccata a un 
                  passo dalla libertà? Non ci vuole pensare. 
                  «E così è nuova, eh?» 
                  «Come? Ah, sì sì... lavoro qui da una settimana.» 
                  «Sta negli uffici del cerchio dieci?» 
                  «Eh sì.» 
                  «E dove, di preciso? Non l'ho mai notata prima.» 
                  Anche se sembra una frase buttata lì per caso, i sensi 
                  di Agata all'improvviso sono all'erta. La guardia sarà 
                  anche giovane, ma di sicuro non è inesperta, e questa 
                  è una classica domanda a trabocchetto. Ripensa al percorso 
                  fatto poco fa, e ancora una volta deve ringraziare la sua memoria 
                  fotografica: «Sto al reparto multe, quello subito dopo 
                  il cinese.» 
                  Alessandro annuisce, a quanto pare se l'è bevuta. Il 
                  dettaglio del ristorante ha dato più credibilità 
                  alla sua affermazione. 
                  «Le hanno fornito il programma con tutti gli orari dei 
                  passaggi? È stata informata che i blackout durano solo 
                  pochi minuti, e non interessano mai più di un settore 
                  contemporaneamente, vero?» 
                  «Sì, me l'ha detto il mio capo. È colpa 
                  mia, sono così sbadata!» 
                  «Non c'è problema, ci mancherebbe. Ora la devo 
                  salutare, ma se prosegue in questa direzione arriverà 
                  presto al suo ufficio, giusto in tempo per il ritorno della 
                  corrente», le dice la guardia prima di sparire dietro 
                  una porta senza scritte. 
                  Appena Agata rimane da sola si toglie di nuovo le scarpe e corre 
                  dalla parte opposta, verso la prigione. 
                   
                  Hiro 
                   
                  Ho così tanta sete! 
                  A volte mi sveglio di soprassalto perché mi sembra di 
                  aver sentito una goccia d'acqua cadere dal rubinetto. Così 
                  mi avvicino e lo lecco, senza paura di umiliarmi, che tanto 
                  la mia dignità l'ho persa, dimenticata fuori da queste 
                  sbarre. Ma il rubinetto è sempre asciutto, e a me pare 
                  d'impazzire. 
                  È da molto ormai che non ci danno da mangiare, ma almeno 
                  fino a pochi giorni fa continuava ad arrivarci da bere. Ora 
                  dal sistema automatico di distribuzione di viveri non esce più 
                  nulla, né di solido né di liquido. Siamo giunti 
                  alla fine. 
                  Nonostante tutte le privazioni però, non riesco a lasciarmi 
                  morire. L'istinto alla sopravvivenza è una cosa che sento 
                  ancora troppo forte dentro di me. 
                   
                  Il solito breve rumore si diffonde nell'aria, e dopo poco finalmente 
                  tutte le luci si spengono. Rimane solo il bagliore lattiginoso 
                  del sole a filtrare da là fuori. 
                  È il momento che preferisco della giornata, pochi attimi 
                  senza il fastidioso neon ronzante sul soffitto, senza il rumore 
                  di tutte queste maledette cose automatiche, che non hanno occhi 
                  né anima. 
                  Mi metto a pancia all'aria e allungo lo sguardo alle sbarre 
                  della cella, stendendomi quasi fino a toccarle. Tempo fa, durante 
                  un momento come questo, per sbaglio mi ci sono aggrappato mentre 
                  cadevo, ma non ho sentito il solito dolore delle scosse. Da 
                  allora ogni volta che la luce se ne va vorrei provare a toccarle 
                  di nuovo, per vedere che succede. Ma poi mi manca il coraggio, 
                  e penso che probabilmente mi sono immaginato tutto, o magari 
                  l'ho solo sognato. 
                  Sbadiglio e mi giro a pancia in giù. Questo silenzio 
                  tra poco finirà, perciò cerco di godermelo il 
                  più possibile. 
                  All'improvviso sento dei tonfi veloci farsi sempre più 
                  vicini. No, non può essere. 
                  Stare qui dentro deve avermi scombussolato le percezioni, è 
                  impossibile che qualcuno stia arrivando. Siamo solo un deposito 
                  di quasi morti, nessuno fa più caso a noi. 
                  E invece sento il rumore inconfondibile della porta che si spalanca, 
                  poi il suono di piccoli piedi nudi sul pavimento, che ora hanno 
                  rallentato il passo. 
                  È qui, proprio davanti a me. 
                  Deboli raggi di luce disegnano il vago contorno della sua figura, 
                  ma io riesco a vederla alla perfezione. 
                  È una ragazza, e sta aprendo la porta della mia cella. 
                   
                  Agata 
                   
                  Non ha il coraggio di chiedersi quanti minuti le siano rimasti, 
                  ormai non farebbe differenza. Spera soltanto che la corsa a 
                  perdifiato le abbia fatto recuperare l'incidente di percorso 
                  dovuto alla guardia. 
                  Di solito le sbarre sono elettrificate, a esclusione di questi 
                  blackout da cinque minuti l'uno. Probabilmente è per 
                  questo che non ci sono lucchetti, o chiusure a chiave, ma semplici 
                  chiavistelli. Sapere tutto questo però non le impedisce 
                  di avere paura. 
                  Si avvicina alla cella numero uno e fa un respiro profondo. 
                  Bene, si è aperta, e lei è ancora tutta intera. 
                  «Forza, ci siamo quasi», sussurra facendo segno 
                  al primo di uscire. Non sa se lui la stia capendo, per ora si 
                  limita a fissarla con gli occhi spalancati. Poi timidamente 
                  si affaccia sul corridoio e la segue, mentre Agata continua 
                  il percorso liberando man mano tutti gli altri. 
                  Ha le mani che tremano, nell'aprire le ultime porte. 
                  La cosa che la sconvolge è il silenzio. Pensava che il 
                  suo arrivo avrebbe provocato un sacco di rumore, di confusione, 
                  e invece la guardano tutti senza emettere alcun suono. Alcuni 
                  sono spaventati, altri curiosi, altri diffidenti. Ognuno di 
                  loro porta gli inconfondibili segni della fame e della sofferenza. 
                  «Venite con me, vi porto fuori. Ce la faremo.» 
                  Ha aperto l'ultima cella, ora tocca all'uscita, quella che dà 
                  sul parchetto dove suo fratello la starà aspettando con 
                  il furgone. 
                  Agata non è religiosa, non crede in nessun dio, eppure 
                  in questo momento si trova a pregare che la procedura sul pannello 
                  di controllo si sia completata correttamente, e che la porta 
                  si apra senza problemi. 
                  Percepisce un rivolo di sudore ghiacciato scolare tra le scapole, 
                  mentre appoggia la mano e prova a girare la maniglia. 
                  È chiusa. 
                  Prova di nuovo, ma niente da fare. All'improvviso le sembra 
                  di non riuscire più a respirare, le gira la testa. Riprova, 
                  quasi sradica la maniglia a forza di tirare, ma non succede 
                  niente. 
                  È finita. Non ci sono scappatoie, nessuna via di fuga. 
                  Come se non bastasse, le luci si riaccendono in quel preciso 
                  momento. Il rumore della porta dietro di lei, quella dalla quale 
                  è entrata, le gela il sangue. L'hanno scoperta. 
                  Quando si gira e vede Alessandro, la guardia giovane e imbranata 
                  di poco fa, quasi le viene da ridere. Uccisa da un novellino 
                  dopo mesi passati a studiare il piano in ogni dettaglio, che 
                  cosa ironica! 
                  Lo vede avanzare verso di lei, il suo sguardo fino a pochi minuti 
                  prima amichevole e aperto trasformato in una smorfia di seria 
                  concentrazione. Si avvicina a grandi falcate e nel frattempo 
                  si infila la mano nel giubbotto. Agata capisce che questa è 
                  la fine, ma stranamente non vede la sua vita passarle davanti 
                  agli occhi come dicono nei vecchi film. Sente solo un enorme 
                  terrore che le paralizza ogni singolo muscolo. 
                  «Spostati, veloce», le dice la guardia spingendola 
                  bruscamente a lato. 
                  «E la pistola?» 
                  «Ma quale pistola?», risponde Alessandro estraendo 
                  dalla tasca interna la sua chiave magnetica. 
                  Con un rapido gesto le sblocca la serratura, poi tiene l'uscita 
                  spalancata per lasciar passare lei e i prigionieri. 
                  «Sbrigati, o avrò fatto tutto per niente. Dai, 
                  andate! Se ne accorgeranno solo stasera, nel frattempo vi copro 
                  io.» 
                  Agata non sa cosa dire, poi d'impeto gli prende il viso tra 
                  le mani e gli stampa un bacio sulle labbra. 
                  «Grazie», sussurra con un sorriso smagliante, «e 
                  comunque mi chiamo Agata, non Sara.» 
                  Poi corre a infilarsi nel furgone di Yuri, fermo ad aspettarla 
                  a pochi metri coi portelli spalancati. 
                  Dietro di lei, tutti i gatti e i cani finalmente liberi. 
                   
                  *** 
                   
                  «Bravo fratellino, sono così scema che non avevo 
                  pensato al cibo», si complimenta Agata allungando un braccio 
                  a scompigliare i capelli ricci di Yuri. 
                  Sul retro del furgone i cani e gatti ex prigionieri si stanno 
                  gustando i croccantini e l'acqua che suo fratello ha preparato 
                  per loro. Finalmente sembrano anche aver ritrovato la voce, 
                  l'abitacolo è un concerto di latrati felici e miagolii 
                  in vari toni. 
                   
                  Ormai sono lontani abbastanza da poter considerare il pericolo 
                  scampato. 
                  Agata si è sciolta i capelli e ha allungato i piedi sul 
                  cruscotto. Di solito Yuri la rimprovera quando lo fa, ma oggi 
                  è talmente di buon umore che si limita a un affettuoso 
                  sguardo di ammonimento. 
                  Agata sta quasi per lasciarsi andare al sonno, ma un peso improvviso 
                  sulle gambe la fa sobbalzare. Quando spalanca gli occhi si ritrova 
                  con un gattone nero in braccio. Nonostante la prigionia ha ancora 
                  un bel pelo, anche se in alcuni punti è più rado 
                  e opaco. 
                  Agata rimane immobile, e il gatto fa lo stesso. La fissa con 
                  uno sguardo immensamente serio, per un momento che le sembra 
                  infinito. Poi si acciambella sulle sue gambe e lascia partire 
                  un brontolio basso. 
                  «Mi sta facendo le fusa!» Esclama rivolta a Yuri. 
                  «Eh sì, e direi proprio che te le sei meritate.» 
                  Agata sorride e accarezza il micio cercando di ricacciare indietro 
                  le lacrime, di commozione e di sollievo. Finalmente sente sciogliersi 
                  tutta la tensione. 
                  «Si chiama Hiro», dice sfilandogli il collare dove 
                  sono incisi i suoi dati e gettandolo nella borsa dei rifiuti. 
                  Al suono del suo nome il gatto alza la testa e la guarda di 
                  nuovo. Agata vede qualcosa che non riesce a definire, nascosto 
                  in quelle iridi dorate. Gli accarezza il manto morbido e chiude 
                  gli occhi. Ha ancora molto da fare, ma almeno per oggi pensa 
                  di meritarsi un po' di riposo. 
                  Appoggia la fronte al finestrino e si assopisce.
                  Cinzia Piantoni 
                   
                  dedicato alla gatta Emma 
                   
                 
                Racconto/2 
                   
                  Estate extraparlamentare 
                   
                  di Diego Giachetti 
 
Ancora oggi non sa dire di preciso dove l'avesse imparato. Non certo dai libri 
                  che vennero dopo a parlargli di inchiesta, di conricerca, di 
                  lavoro di porta davanti ai cancelli delle fabbriche. Forse aveva 
                  colto qualche suggestione nelle sporadiche riunioni studentesche 
                  alle quali aveva partecipato nella vicina cittadina. Forse era 
                  lì che aveva sentito parlare di intervento davanti alle 
                  fabbriche. Forse era stata la lettura di qualche articolo di 
                  un quindicinale che fin dal titolo era tutto un programma: Lotta 
                  Continua. Per l'appunto: lotta continua che, tradotto nel 
                  suo giovane linguaggio, voleva dire fare qualcosa, non perder 
                  tempo, agitarsi, muoversi. 
                  Fatto sta che quell'estate, a scuole chiuse e quindi inattivo, 
                  con altri due come lui decisero che non era il caso di stare 
                  dormienti in attesa del nuovo anno scolastico. A pochi chilometri 
                  da dove vivevano c'era un fabbrica nella quale lavorava una 
                  forza lavoro composita, proveniente dai paesi vicini. Visto 
                  e considerato si passò subito al fare. Inizialmente presero 
                  contatto con un piccolo gruppo di giovanissime operaie che lavoravano 
                  in quella fabbrica. Appresero dai loro racconti veloci della 
                  fatica che riscontravano, del senso di oppressione che veniva 
                  dalle otto-nove ore che dovevano trascorrere nel reparto. Scrissero 
                  un manifesto murale in tre-quattro copie che riportava quanto 
                  loro detto e lo affissero nelle piazze dei paesi di provenienza 
                  delle giovani lavoratrici. Decisero poi di allargare l'area 
                  di questi timidi contatti recandosi davanti ai cancelli della 
                  fabbrica nell'ora della pausa pranzo dei lavoratori per parlare 
                  con loro e con loro denunciare quelle che sembravano essere 
                  (ed erano) condizioni di sfruttamento. 
                  Per due giorni di seguito si recarono al cancello. Pochi avevano 
                  voglia di parlare con loro. I più li ignoravano. Qualcuno 
                  li apostrofò anche pesantemente: «andate via!», 
                  «che volete?», «da chi siete pagati?», 
                  «fannulloni, andate a lavorare!». Tre-quattro li 
                  stavano a sentire in silenzio, intimoriti dalla reazione negativa 
                  degli altri lavoratori. Erano ragazzi e ragazze al primo impiego, 
                  disorientati, frastornati, succubi di quell'ambiente e di quei 
                  loro compagni di lavoro appena un po' più vecchi che 
                  manifestavano tutta la loro impermeabilità e chiusura. 
                  Altro che la classe operaia della Fiat di Torino e l'incontro 
                  col movimento studentesco di cui avevano letto le gesta epiche 
                  sul giornale. Lì era dura. La realtà veniva loro 
                  incontro per travolgerli. 
                  Discussero di cosa fare e di come fare. Esporsi direttamente 
                  al cancello era controproducente, rischiava di bruciare i pochi 
                  contatti che avevano col gruppo ristretto di giovani operaie, 
                  timorosissime di esporsi pubblicamente. Si decise per un ultimo 
                  tentativo davanti al cancello, fatto con maggior determinazione, 
                  tesi al confronto anche aspro, con la parte più retriva 
                  dei lavoratori, quelli che li osteggiavano al limite dell'insulto. 
                  Ciò nella convinzione che se si fosse incrinato quel 
                  muro di ostilità, si poteva aprire un discorso con gli 
                  altri, quelli che, senza andarsene, assistevano muti al confronto-scontro 
                  tra gli studenti e quegli operai. 
                  Fissato il giorno, all'ultimo momento, per sopraggiunte e improrogabili 
                  impegni, una delle tre avanguardie politiche non poté 
                  andare. Si recarono così al cancello solo in due a bordo 
                  di una Vespa 50. La giornata estiva, calda e limpida, aveva 
                  trascinato fuori dalla fabbrica, nel cortile un gruppo più 
                  numeroso del solito di lavoratori. Davanti al cancello furono 
                  subito coinvolti in un aspro battibecco col solito gruppo diffidente 
                  e critico, composto da operai più anziani. Una discussione 
                  inutile e sterile, così sembrò loro, che impediva 
                  solo il contatto con gli altri che stavano dentro il cortile 
                  della fabbrica. Dopo uno scambio di battute salaci li lasciarono 
                  e si diressero verso il gruppo più folto e numeroso che 
                  sostava seduto all'ombra. 
                  Si avvicinarono e iniziarono una serie di dialoghi sporadici, 
                  ma meno tesi e avversi dei precedenti. Anche il piccolo gruppo 
                  di lavoratori che li aveva apostrofati prima entrò nel 
                  cortile e si frappose tra loro e gli altri lavoratori. Uno di 
                  loro, più esagitato, che si qualificò come membro 
                  della Commissione Interna, cercò di prendere in mano 
                  la situazione con battute volgari e dileggi. Ne nacque un battibecco 
                  salace: 
                  - Ma tu rappresenti i lavoratori o il padrone? 
                  - Che ne sai tu di padroni e lavoratori 
                  - Senti, chi ti ha eletto a rappresentare il lavoratori? Lo 
                  ha deciso il tuo sindacato? 
                  - Qui non c'è sindacato e non si fa politica 
                  - Allora ti ha nominato il padrone, non c'è altra spiegazione. 
                  Poi entrambi, rivolgendosi agli altri che ascoltavano ammutoliti 
                  e un po' divertiti, dissero: 
                  - Dovete decidere voi chi vi rappresenta. Fate un'assemblea, 
                  confrontatevi sulle vostre condizioni di lavoro, stabilite quali 
                  sono le vostre richieste, poi eleggete i vostri delegati, solo 
                  quelli saranno i vostri rappresentanti. Si chiama Consiglio 
                  di fabbrica, è previsto dallo Statuto dei Lavoratori 
                  appena approvato dal Parlamento. 
                  - Ma sentili i professorini, gli studenti perditempo, ciancionava 
                  incazzato quello della Commissione Interna. 
                  Poi si diresse verso un ufficio. Lo videro telefonare, poi sorridere 
                  soddisfatto. Si rivolse loro e disse: «adesso vedrete!». 
                  Passati pochi minuti un'auto grigio-argento entrò nel 
                  cortile. La portiera si aprì e scese un signore alto, 
                  ben vestito, giacca, cravatta, grosso e panciuto, coi capelli 
                  rossastri, la faccia rubizza. 
                  «Chi siete? Che volete?», disse subito e proseguì 
                  con tono abituato al comando: «venite con me». Si 
                  diresse verso l'ufficio vicino alla portineria. In quell'attimo 
                  capirono chi era quel signore, era il padrone. Finalmente! Non 
                  più un concetto astratto. Ora l'avevano davanti, una 
                  persona in carne e ossa. Non ci pensarono, lo seguirono. D'altronde 
                  non potevano, davanti ai lavoratori intimoriti da quell'arrivo 
                  improvviso, abbandonare il campo, andarsene, ritornare sui propri 
                  passi, riprendersi la moto e dirigersi magari verso il lago 
                  che era lì a pochi chilometri, a cazzeggiare - come facevano 
                  volentieri - con altri giovani. 
                  L'avessero fatto! E invece no. Il padrone entrò scazzato 
                  nel suo ufficio. Si sedette pesantemente sulla sedia girevole, 
                  distese le gambe. Senza guardarli negli occhi chiese cosa volessero 
                  nella sua fabbrica. Senza dare tempo di rispondere proseguì. 
                  «questa è una proprietà privata, voi l'avete 
                  violata entrando. Ora chiamo i carabinieri». Detto fatto, 
                  prese il telefono, compose il numero, spiegò al piantone 
                  cosa voleva e chiese di intervenire subito. 
                  La stazione dei carabinieri era vicina, neanche un chilometro. 
                  Il furgoncino dei caramba arrivò immediatamente. Dopo 
                  essersi presentato, rigido nella sua divisa, l'appuntato invitò 
                  i due a seguirlo e ad accomodarsi sui sedili posteriori dell'autoveicolo. 
                  Sbigottiti, stralunati, sorpresi non ebbero neanche tempo di 
                  rendersi bene conto di quanto stava accadendo che il furgoncino 
                  era già nel cortile della caserma. 
                  - Scendete, disse l'appuntato 
                  - Falli accomodare nella stanza, disse a un altro carabiniere. 
                  Furono condotti in una stanzetta, guardati a vista. Si sedettero. 
                  Passarono pochi minuti. Ricomparve l'appuntato e disse a uno 
                  dei due, quello più giovane, «mi segua nell'ufficio 
                  del Maresciallo». Dopo una ventina di minuti fece ritorno 
                  nella stanza. Toccò all'altro. Il Maresciallo impettito 
                  e burbero lo ricevette e dopo averlo fatto sedere cominciò: 
                  -«generalità, dove abita, cosa fa, quanti anni 
                  ha?». Espletata la procedura proseguì. 
                  - Chi vi ha mandato davanti alla fabbrica? 
                  - Nessuno. È stata una nostra decisione. 
                  - Non è possibile. Qualcuno vi ha pagato per farlo? 
                  - No, nessuno ci paga. 
                  - Siete iscritti a qualche partito? 
                  - No. 
                  - Frequentate riunioni di partito? 
                  - No. 
                  Irritato da tanta verità che non voleva forse sentire 
                  cambiò all'improvviso tono facendosi minaccioso: «Attento, 
                  non fare lo strafottente, io ti posso sbattere in cella. Ti 
                  posso denunciare, finisci nelle grane». L'interrogato 
                  non rispose. Si guardava attorno. Nell'angolo l'appuntato era 
                  alla macchina da scrivere, indietro, ancora a battere sui tasti 
                  con due dita, nome, cognome, ecc. dell'interrogato. Tutto il 
                  resto era silenzio. La lampada della scrivania era accesa e 
                  illuminava poche carte sparse, qualche biro, un posacenere. 
                  Il Maresciallo si riposizionò sulla sedia, prese una 
                  sigaretta e l'accese. Poi disse: 
                  - Frequenti riunioni politiche? 
                  - Sì, faccio parte di un collettivo operai-studenti 
                  - Chi è il capo? Come si chiama? 
                  - Non ci sono capi, siamo un gruppo, un collettivo 
                  - Ho capito. È un po' strano però. Nessuno ti 
                  ha mai dato dei soldi per portare una bandiera rossa in una 
                  manifestazione? 
                  - No. 
                  - Fai attenzione, sei giovane, cominci male. Lascia stare la 
                  politica, dimmi chi ti ha insegnato o istigato a fare quello 
                  che hai fatto. 
                  - Che cosa ho fatto? 
                  - Le domande le faccio io. Perché andavate alla fabbrica? 
                  - Volevamo discutere e confrontarci con gli operai, i lavoratori, 
                  capire la loro condizione e, possibilmente, cambiarla tutti 
                  assieme. 
                  - Non sono cose per voi, è la politica, è il sindacato, 
                  statevene alla larga. Avete commesso un reato. 
                  - Quale? 
                  - Violazione della proprietà privata. 
                  - A sì! La proprietà privata è già 
                  di per sé stessa una violazione, un reato che spiega 
                  e anticipa tanti altri reati.... 
                  - Taci giovanotto. Qui non si fa propaganda. Ora ti sistemo 
                  per bene. Sentiamo il Magistrato. 
                  Alzò la cornetta, compose frettolosamente un numero. 
                  Stranamente subito si mise a parlare col Magistrato. Spiegò 
                  il caso succintamente: 
                  - No, non c'è denuncia, ripeté due volte 
                  - Sono giovanissimi, di un paese qui vicino, incensurati, studenti 
                  - Va bene, sì, allora niente... Buongiorno 
                  Raccolse le carte sparse sul tavolo. Spense la sigaretta, poi 
                  disse: «Può andare. Buongiorno». L'appuntato 
                  lo accompagnò, rivide il suo compare che lo aspettava. 
                  Scesero nel cortile, il portone si aprì. Camminarono 
                  veloci, era ormai pomeriggio inoltrato. Tornarono al cancello 
                  dove tutto aveva avuto inizio. La Vespa 50 c'era ancora. Partì 
                  al primo colpo. Tornarono da dove erano venuti.
                  Diego Giachetti 
                 
                 
                Racconto/3 
                   
                  Mom and Dad 
                   
                  di Giuseppe Ciarallo 
                   
                   Mama, Mama 
                  Someone said they made some noise 
                  The cops have shot some girls and boys 
                  You'll sit home and drink all night: 
                  They looked too weird 
                  It served them right 
                   
                  Mamma, Mamma / dicono che ci sono stati dei disordini / La 
                  polizia ha sparato a dei ragazzi e a della ragazze / Tu stai 
                  in casa a bere tutta la sera: / Sembravano degli sballati / 
                  Ben gli sta! / 
                   
                  Per l'ennesima volta lo schermo mandò in onda le drammatiche 
                  immagini degli scontri. Le fotografie scattate in sequenza scandivano 
                  con forza devastante la tragedia in atto. 
                  Un gruppo di giovani circonda una jeep delle forze dell'ordine 
                  rimasta misteriosamente isolata; nell'angolo in alto a sinistra 
                  del teleschermo due agenti poco distanti sembrano chiamare rinforzi. 
                  Dall'interno del mezzo, attraverso il finestrino posteriore 
                  in frantumi qualcuno scaglia verso l'esterno un estintore, che 
                  rimane lì, sospeso, come se galleggiasse a mezz'aria. 
                  I manifestanti assaltano la camionetta. Un ragazzo a petto nudo 
                  e col volto coperto, con un asse di legno cerca di sfondare 
                  il finestrino sul lato destro del veicolo. Un altro giovane 
                  in canottiera e sottocasco blu a coprirgli il viso, si china 
                  per raccogliere l'estintore poc'anzi scaraventato fuori dall'abitacolo. 
                  È a tre, quattro metri dalla camionetta. Dal finestrino 
                  posteriore infranto spunta una mano. La mano impugna una pistola. 
                  La pistola fa fuoco. Il ragazzo in canottiera e sottocasco blu 
                  si accascia al suolo colpito in pieno volto. 
                  Pozza di sangue. Confusione. Fuggi fuggi generale. La camionetta 
                  fa retromarcia per disincagliarsi da quella posizione di stallo 
                  divenuta a quel punto molto pericolosa, anzi, dopo il ferimento 
                  del manifestante addirittura esplosiva. Le gomme del pesante 
                  mezzo passano per ben due volte sul corpo esanime del ragazzo. 
                  Il gippone riesce a fuggire. Dalla sinistra dello schermo giungono 
                  decine e decine di agenti in tenuta antisommossa i quali, dirigendosi 
                  verso i dimostranti che vanno ricompattandosi ai lati della 
                  piazza, superano il cadavere del ragazzo, perché oramai 
                  è chiaro, inequivocabile, non può esserci più 
                  vita in quel corpo ch'è oramai tutt'uno con l'asfalto 
                  scarlatto. 
                   
                  Ever take a minute 
                  Just to show a real emotion 
                  In between the moisture cream 
                  And velvet facial lotion? 
                  Ever tell your kids 
                  You're glad that they can think? 
                  Ever say you loved 'em? 
                  Ever let 'em watch you drink? 
                  Ever wonder why 
                  You daughter looked so sad? 
                  It's such a drag to have to love 
                  A plastic Mom and Dad. 
                   
                  Hai mai trovato il tempo / per mostrare un'emozione sincera 
                  / sotto la crema detergente / ed il tonico astringente? / Hai 
                  mai detto ai tuoi figli / che sei contenta abbiano un cervello 
                  per pensare? / Hai mai detto / che gli vuoi bene? / Gli hai 
                  mai detto che bevi? / Ti sei mai chiesta perché / tua 
                  figlia è sempre così triste? / È una tale 
                  noia dover amare / una Mamma e un Papà di plastica / 
                   
                  Il padre, con una smorfia di disgusto disegnata sul viso, distolse 
                  lo sguardo dall'apparecchio televisivo, guardò il suo 
                  piccolo, seduto di fronte a lui, poi la moglie, alla sua destra. 
                  Lei teneva gli occhi fissi sul teleschermo anche se era facile 
                  indovinare quanto la sua mente stesse vagando lontano anni luce 
                  dalle immagini violente appena trasmesse. Lui le afferrò 
                  la mano e lei ricambiò la stretta, poi, come tornando 
                  improvvisamente in sé, girò la testa verso l'uomo 
                  e gli sorrise. Il posto alla sinistra del padre era vuoto e 
                  non apparecchiato. 
                  “Dov'è andata esattamente Valeria per questo weekend?” 
                  “In montagna con Barbara, la sua compagna di università. 
                  I suoi affittano per l'estate una casetta di quelle in legno, 
                  tipo baita.” 
                  Il figlio distolse lo sguardo. Temeva vi si potesse leggere 
                  che la sua sorellina era sì con Barbara, ma da tutt'altra 
                  parte. 
                  La madre sorseggiava nervosamente vino rosso da un bicchiere 
                  colmo fino all'orlo. Fece un cenno del capo verso la TV dove 
                  un cronista al limite della necrofilia continuava a mostrare, 
                  compiaciuto, le spoglie del ragazzo mimando le fasi concitate 
                  che avevano portato a quella morte assurda. 
                  “Be', non si può proprio dire che quel ragazzo 
                  non sia andata a cercarsela!” esclamò il padre. 
                  La donna non mosse un solo muscolo del viso. Il figlio alzò 
                  gli occhi che fino a quel momento aveva tenuto fissi nel piatto 
                  senza però avere il coraggio di dire quello che effettivamente 
                  aveva in animo. 
                  “Certo, dispiace vedere una giovane vita spezzarsi in 
                  quel modo. E poi perché? Per che cosa? Queste manifestazioni 
                  io le vieterei tutte e risolverei in questo modo il problema 
                  alla radice. Perché queste proteste non possono che sfociare 
                  nella violenza, in quanto dietro questi giovani, ingenui esaltati, 
                  si nascondono persone senza scrupoli, che restando nell'ombra 
                  li plagiano e dirigono come soldatini di piombo. Li illudono 
                  che si possa cambiare il mondo, che la giustizia possa essere 
                  affermata come diritto universale, che possa essere debellata 
                  la fame e la povertà nei paesi in via di sviluppo, che 
                  l'ultimo degli ultimi su questa terra debba e possa avere lo 
                  stesso peso e la stessa dignità di un potente. Balle! 
                  Solo balle! Ignobili e sporche bugie! Il mondo ha sempre girato 
                  in questo modo e sempre girerà così. Nella preistoria 
                  c'erano i ricchi e i poveri. C'erano i cacciatori e le schiappe, 
                  quelli che si impegnavano per procurarsi il cibo e gli scansafatiche. 
                  I primi sopravvivevano, gli altri soccombevano. Né più 
                  né meno che adesso. Questa è selezione naturale, 
                  cari miei. Nell'antica Roma c'erano i patrizi e i plebei, nel 
                  Medio Evo c'erano i feudatari e i servi della gleba, oggi ci 
                  sono borghesi e proletari e domani li chiameranno in qualche 
                  altro modo, ma sia ben chiaro che se non è zuppa è 
                  pan bagnato. Non cambierà mai niente!” 
                  L'uomo, visibilmente alterato parlava, anzi urlava come al cospetto 
                  di un'invisibile platea. 
                  La moglie, forse in un attimo brevissimo di coscienza, aveva 
                  pensato alla madre del ragazzo ucciso continuando a guardare 
                  inebetita lo schermo, infine aveva deciso di scacciare definitivamente 
                  i pensieri molesti che avrebbero potuto mettere in crisi la 
                  sua intera esistenza. Preferì concentrarsi su più 
                  piacevoli occupazioni quali la palestra, il solarium, il drink 
                  con le amiche, le partite di canasta. 
                  Il ragazzetto invece, arguto quindicenne cresciuto a libri, 
                  dischi e fumetti della sorella maggiore, fingendo il candore 
                  più disarmante chiese: “Ma scusa papà, stai 
                  dicendo che siccome la povertà esiste da sempre, sia 
                  giusto che milioni di persone, soprattutto bambini, muoiano 
                  di fame ogni anno?” 
                  Il padre, colto di sorpresa da quell'inaspettata sortita, per 
                  poco non si strozzò nel trangugiare una lunga sorsata 
                  di vino. 
                  “Non ho detto questo, perdìo!” urlò 
                  battendo rumorosamente la mano sul tavolo e rovesciando la bottiglia 
                  che era andata a inzuppare la tovaglia col suo rosso contenuto. 
                  Continuò cercando di riprendere il controllo di sé. 
                  “Non ho detto questo. Dico solo che guerreggiare con le 
                  forze dell'ordine non è il modo consono per affrontare 
                  questi problemi che comunque, questa è la mia opinione, 
                  io credo siano irrisolvibili. Vedi caro, la nostra civiltà 
                  ha permesso a un gran numero di persone di poter vivere una 
                  esistenza dignitosa, di poter avere accesso oltre che allo stretto 
                  necessario, anche ad alcune cose superflue che rendono la vita 
                  più piacevole. La mia auto, il motorino di tua sorella, 
                  il tuo computer. Tutte queste cose consumano energia, quindi 
                  per farle funzionare ci servono elettricità, petrolio 
                  eccetera. E il petrolio bisogna andare a prenderlo dove c'è, 
                  con le buone o con le cattive. Altrimenti la nostra società 
                  è destinata a regredire all'età della pietra.” 
                  Il ragazzo, che oramai ci aveva preso gusto a stuzzicare il 
                  padre, buttò un altro sassolino nello stagno. 
                  “Papà, cosa vuol dire con le buone o con le cattive?” 
                  disse. Guardò per un istante la madre che stava versando 
                  nel suo bicchiere le due gocce di vino che non erano finite 
                  a macchiare la tovaglia, quindi rivolse nuovamente tutta la 
                  sua attenzione al padre. 
                  “Vedi, figliolo, un altro cavallo di battaglia di questi 
                  grandi ipocriti è proprio la pace” nemmeno si accorse 
                  del prodigioso ossimoro or ora pronunciato. “Ma la pace 
                  non può essere un dogma. La pace, per non sfociare nel 
                  suo contrario, la guerra, deve camminare perennemente sul filo 
                  del rasoio, necessita di un continuo equilibrio che non sempre 
                  è possibile mantenere. L'ipocrisia dei comunisti, come 
                  appropriatamente ancora li chiama il nostro primo ministro, 
                  sta proprio nel fatto che nascondendosi dietro al paravento 
                  del pacifismo più becero, vogliono celare la guerra che 
                  il terrorismo internazionale ha dichiarato e sta già 
                  combattendo contro la nostra civiltà...” 
                  “Sì, papi...” lo interruppe il piccolo figlio 
                  di puttana “ma anche don Angelo, il nostro insegnante 
                  di religione dice che un vero cattolico non potrà mai 
                  essere a favore di una guerra, così come dovrebbe opporsi 
                  alla pena di morte per riaffermare in ogni istante la sacralità 
                  della vita. Allora anche il nostro sacerdote è un pericoloso 
                  comunista?” 
                  Il padre, cianotico, in bilico tra il cominciare a urlare come 
                  un invasato e il continuare a rispondere pazientemente a quelle 
                  che sembravano normali domande ingenuamente poste da un'anima 
                  candida, non seppe far altro che battere nuovamente il palmo 
                  della mano sul tavolo e nuovamente rovesciare la bottiglia del 
                  vino per fortuna oramai vuota. 
                  “Basta! Vai a letto! Questi sono discorsi da grandi. Buona 
                  notte!” 
                  Con l'anima sorridente di scherno contrapposta a un'espressione 
                  del viso insondabile, il ragazzetto si alzò e si diresse 
                  verso la sua camera da letto. Prima di chiudere la porta alle 
                  sue spalle esclamò tra i denti: “Borghese guerrafondaio 
                  del cazzo!” 
                  Senza troppa convinzione l'uomo continuò rivolgendosi 
                  alla moglie. Sembrava però che le parole uscissero dalla 
                  sua bocca per convincere sé stesso, più che gli 
                  altri, che lo stile di vita trasmessogli dai genitori, che aveva 
                  deciso di fare suo e di tramandare ai figli, fosse effettivamente 
                  quello giusto. Mormorò: “Il nostro dovere è 
                  quello di comportarci onestamente, di dare un'educazione ai 
                  nostri figli nel rispetto della parola di Dio, di impegnarci 
                  nel lavoro e...” 
                  “Vado a prepararmi per la notte” tagliò corto 
                  la moglie alzandosi di scatto, non prima di aver scolato d'un 
                  fiato il mezzo bicchiere di vino avanzato.  
                   
                  Mama! Mama! 
                  Your child was killed in the park today 
                  Shot by the cops as she quietly lay 
                  By the side of the creeps she knew... 
                  They killed her too*  
                   
                  Mamma! Mamma! / La tua bambina è stata uccisa oggi 
                  nel parco / le hanno sparato i poliziotti mentre era sdraiata 
                  tranquillamente / vicino agli sballati amici suoi... / Hanno 
                  ucciso anche lei. 
                   
                  Lo stanzone era buio e freddo. La fioca luce era data da una 
                  nuda lampadina che penzolava sinistramente dal soffitto come 
                  un impiccato. 
                  Il corpo steso sullo spoglio lettino era inerte, silenzioso, 
                  di un pallore spettrale; la testa era leggermente sollevata 
                  da un cuscino lurido. 
                  Entrando nello squallido locale la scena si presentava in una 
                  strana prospettiva che ricordava vagamente il Cristo morto del 
                  Mantegna, ma ancor più carica di angoscia e strazio, 
                  se possibile. 
                  Quella figura minuta pareva cera sciolta sul materasso, le manine 
                  delicate e le dita affusolate a sfiorare la tela ruvida del 
                  lercio lenzuolo. La faccia era deformata da colpi inferti visibilmente 
                  senza pietà e con una violenza inaudita, l'occhio sinistro 
                  era chiuso e cerchiato di un nero sporco; la fronte appariva 
                  gonfia e bluastra e sotto i capelli appiccicati al cranio si 
                  indovinavano bozzi dovuti a violente bastonate. Sul viso e sul 
                  labbro spaccato, rivoli di sangue rappreso e una ragnatela di 
                  graffi sembrava una macabra decorazione lungo braccia così 
                  magre da fare impressione. 
                  Sulla narice sinistra, la carne lacerata faceva pensare a un 
                  anellino strappato via con furia cieca. 
                  Quel macello era riassunto, tra i tanti, in un pacco di fogli 
                  compilati in tutta fretta senza badare troppo a forma e contenuto 
                  e soprattutto senza soffermarsi sul fatto che ogni burocratico 
                  verbale si riferiva a esseri umani in carne, martoriata, ed 
                  ossa, rotte. 
                  Il foglio di ricovero recitava freddamente: Ricoverata la sera 
                  del 21 luglio. Paziente femmina di circa vent'anni. Nessun segno 
                  particolare. Al momento del ricovero presentava politrauma grave 
                  e commozione cerebrale. Le lesioni sembrano essere state causate 
                  da ripetute percosse inferte con oggetto contundente. Prestate 
                  le prime cure al pronto soccorso di chirurgia. Attualmente in 
                  stato di coma, sottoposta a un periodo di osservazione. Alimentata 
                  per via endovenosa. Prognosi riservata. 
                   
                  Due poliziotti fecero il loro ingresso nella stanza e si fermarono 
                  davanti al corpo della ragazza. 
                  “Anche questa è una di quelle della scuola?” 
                  L'altro annuì continuando a fissare quello sfacelo. 
                  “Sappiamo come si chiama?” 
                  “Sì, Valeria nomiricordoché, anche se ufficialmente 
                  risulta non identificata. Abbiamo fatto sparire i documenti 
                  in modo da non dover dare comunicazioni alla famiglia... almeno 
                  per qualche giorno.” 
                  “Dici che se la caverà?” 
                  “Tu che ne pensi?” rispose l'altro con un sorriso 
                  simile a una smorfia sul volto. 
                  Il primo poliziotto scosse la testa. “Se ne fosse stata 
                  a casa sua a studiare, ora non si troverebbe in questa condizione. 
                  Se l'è andata proprio a cercare!” 
                  “Andiamocene, va'. E non stare lì a farti troppi 
                  scrupoli. Noi abbiamo fatto solo il nostro dovere.” 
                  Spensero la luce e il mondo intero piombò nel buio.  
                Giuseppe Ciarallo 
                   
                  *Frank Zappa, Mom & Dad, 1968 
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