Il Muos è abusivo: 
                  lo dice anche il TAR 
                 Dopo 110 giorni il Tribunale Amministrativo Regionale di Palermo 
                  si è pronunciato sui ricorsi presentati contro l'impianto 
                  Muos di Niscemi, affermando che il Muostro è illegittimo 
                  e pericoloso. Inoltre ha censurato il comportamento del governo 
                  Crocetta che precipitosamente, nel luglio del 2013, aveva ritirato 
                  la revoca delle autorizzazioni alla costruzione del mega sistema 
                  satellitare. 
                  Adesso il governo italiano e la marina militare statunitense 
                  si affretteranno ad impugnare la sentenza del TAR, che per la 
                  seconda volta ribadisce che il Muos non poteva essere costruito. 
                  Ma la Federazione Anarchica Siciliana ritiene che questo risultato 
                  non sia il semplice pronunciamento di un tribunale, perché 
                  indica, a tutte le persone che hanno allentato la guardia dopo 
                  la fine dei lavori alla base NRTF, a quanti hanno provato un 
                  senso d'impotenza davanti all'arroganza degli invasori americani 
                  e di tutti i loro complici, da che parte è sempre stata 
                  la ragione: dalla parte di chi si è opposto con ogni 
                  mezzo alla costruzione del Mostro, subendo denunce, repressione, 
                  ingiurie e denigrazioni. 
                  Gli attivisti NO MUOS, e noi anarchici con loro, hanno sempre 
                  sostenuto che quella base non si doveva costruire, che la Sughereta 
                  di Niscemi andava liberata dalla servitù militare; che 
                  uno strumento di morte e di guerra, già di per sé 
                  nocivo per la salute delle persone e dell'ambiente, non poteva 
                  essere accettato. 
                  Oggi, con più forza di prima, la ragione di chi lotta 
                  deve imporsi sulla vigliaccheria e la forza dei signori della 
                  guerra, invasori, abusivi, indesiderati. Il TAR ha fatto la 
                  sua parte, adesso sta agli attivisti, ai comitati, al movimento, 
                  alla popolazione, esigere con la mobilitazione, che il Muos 
                  venga smantellato e il territorio niscemese definitivamente 
                  liberato dalla presenza militare. 
                  Nessuna base di morte – Nessuna guerra – Fuori i 
                  militari dalla nostra terra! 
                 Federazione Anarchica Siciliana 
                  federazioneanarchicasiciliana@inventati.org 
                 
                 
                  Carmelo Bene 
                  e il futbol 
                Non saranno in molti a ricordare L'extra-ordinario del calcio, 
                  appuntamento settimanale andato in onda su Tele + sul finire 
                  degli anni novanta in cui un compassato Carmelo Bene (1937 Campi 
                  Salentina - 2002 Roma) vestiva i panni di commentatore e, in 
                  poco meno di cinque minuti, licenziava degli atipici editoriali 
                  in materia. Filosofeggiando o, spesso, abbandonandosi a dei 
                  lucidi deliri, il geniale Carmelo leggeva e interpretava il 
                  futbol sulla scorta di una personale predilezione per 
                  i tecnicamente dotati e baciati dalla dea eupalla. E 
                  faceva una netta distinzione tra un fantasista e un giocatore, 
                  tra un estroso che toccava la palla da brasileiro e tutti 
                  gli altri, cioè i calciatori che considerava “manovali 
                  della sfera, condannati al ludibrio perpetuo della mutanda”. 
                  Per il novanta per cento della loro durata, secondo Bene, le 
                  partite sono sempre spettacoli mediocri e noiosi, solo di tanto 
                  in tanto, come avviene in teatro, possono animarsi dal colpo 
                  di genio del campione che, con la sfera tra i piedi, trascende 
                  i limiti stessi dei gesti consueti. Al dissacratore numero uno 
                  del nostro teatro - che darà un'altra convincente prova 
                  di esperto pallonaro in Discorso su due piedi (il 
                  calcio) (Bompiani, 1998), trascrizione di una conversazione 
                  avuta con il critico cinematografico Enrico Ghezzi - non sono 
                  mai interessati gli schemi o le tattiche, la routine di una 
                  gara o le marcature, il gioco duro o la zona, i gol o il risultato, 
                  lui era solo e semplicemente attratto dagli atti, dai gesti 
                  straordinari dei solisti, dei funambolici che hanno esistenza 
                  a parte nel campo e possono risolvere le partite in qualsiasi 
                  istante. “Nel calcio amo l'atto non l'azione - dichiarava 
                  - perché l'atto è disintenzionato, è staccato 
                  dalla volontà, è manifestazione dell'infinito”. 
                
                   
                      | 
                   
                   
                    |   Carmelo Bene  | 
                   
                 
                 Non teneva per una maglia in particolare l'attore pugliese, 
                  non riusciva a tifare per una squadra, ma si schierava per “chi 
                  gioca meglio” e “lascia accadere in campo qualcosa”. 
                  Amava e delirava in particolare per due fuoriclasse: l'olandese 
                  Marco Van Basten quotato da lui “come uno dei tre attaccanti 
                  più grandi di tutti i tempi” e il brasiliano Romario 
                  “capace di stare con le braccia conserte o a penzoloni 
                  per tutta la partita come se fosse avulso, ma al tempo stesso 
                  capace di imprevedibili invenzioni che gli permettono poi di 
                  realizzare carrettate di gol”. 
                  A Carmelo Bene stavano sulle scatole quegli allenatori elucubratori 
                  di tattiche che mettono il bavaglio all'estro, “infestano 
                  le panchine e sono strapagati per umiliare il calcio”. 
                  Per questi tecnici, sentenziava, “mai nessuno che ne invochi 
                  l'interdizione psichiatrica. Si limitano a licenziarli. Troppo 
                  poco. Troppo facile”. La sua acida e sarcastica favella 
                  non si accaniva solo sui tecnici, detestava certi commentatori 
                  (in un Processo del lunedì di Biscardi fece a 
                  pezzi il logorroico Maurizio Mosca) e si scagliava contro il 
                  tifo “trasformato in rissa fra giovanotti”. 
                  Forti ed insistenti erano, inoltre, le critiche che rivolgeva 
                  alla nazionale italiana, un sentimento di repulsione verso gli 
                  azzurri opposto a quello che esprimeva per la seleção 
                  verdeoro. “L'ultima volta che ho visto giocare al calcio 
                  - scrisse in un articolo - era il Brasile del 1982, il più 
                  grande di ogni tempo, quello di Falcao, Cerezo, Socrates”. 
                  Sarà stata pure forte la nazionale di Zico, Socrates, 
                  Falcao, ma ci permettiamo di non convenire col divino Carmelo. 
                  Molto altro era stato il Brasile del trio Didì-Vavà-Pelè 
                  e tantissimo superiore fu lo squadrone costruito per i mondiali 
                  del 1970 in Messico da quel maestro senza rivali di Joao Saldhana. 
                 Mimmo Mastrangelo 
                 
                 
                  Ricordando Roy Bhaskar/ 
                  Filosofo della scienza e rivoluzionario 
                Roy Bhaskar (15 maggio 1944 - 19 novembre 2014), deceduto a 
                  settant'anni per un attacco di cuore, si era dedicato alla filosofia 
                  solo dopo avere ricevuto un incarico da ricercatore in economia 
                  all'università di Oxford, alla fine degli anni sessanta. 
                  Riflettendo sul fatto che la scienza economica non aveva concretamente 
                  niente da dire sulle questioni del mondo reale attinenti alla 
                  ricchezza e alla povertà, si era impegnato in una ricerca 
                  che portò alla fondazione della scuola filosofica che 
                  ora si chiama realismo critico. 
                  Il corso di studi umanistici di Oxford definito dalla sigla 
                  PPE (philosophy, politics, economy) offriva la formazione 
                  ad aspiranti politici e funzionari pubblici, e con molte probabilità 
                  avrebbe nella migliore delle ipotesi limitato se non accentuato 
                  i problemi sociali, invece di risolverli. Roy decise di offrire 
                  strumenti per una comprensione più profonda e strutturata 
                  delle problematiche sociali e per dare modo di correggerne le 
                  storture. 
                  In breve tempo si era reso conto della difficoltà del 
                  problema: la scienza e la teoria sociale in Occidente si basavano 
                  su una serie di errori logici che producevano false dicotomie, 
                  quali quelle tra individualismo e collettivismo e tra analisi 
                  scientifica e critica morale. L'errore più grave, da 
                  lui definito “fallacia epistemica”, nasceva dallo 
                  studio convenzionale delle forme di conoscenza, cioè 
                  dell'epistemologia. I filosofi hanno quasi invariabilmente posto 
                  nello stesso modo due interrogativi diversi: “Esiste il 
                  mondo?” e “Possiamo provare l'esistenza del mondo?”. 
                  Ma è perfettamente plausibile che il mondo esista e che 
                  noi non siamo in grado di provarlo, per non parlare della possibilità 
                  di arrivare a una conoscenza assoluta di qualsiasi oggetto presente 
                  nel mondo. 
                  In questo modo, argomentava Roy, i due campi nei quali si è 
                  divisa la sinistra, quello positivista, il quale presuppone 
                  che, data l'esistenza del mondo, si potrebbe un giorno averne 
                  una conoscenza esatta e predittiva, e quello postmoderno, il 
                  quale crede che, poiché tale conoscenza non sarebbe possibile, 
                  non ci è per nulla consentito di parlare di “realtà”, 
                  non fanno che ripetere diverse versioni dello stesso fondamentale 
                  errore. Infatti gli oggetti reali sono proprio quelli le cui 
                  proprietà non saranno mai esaurite da qualsiasi descrizione 
                  noi siamo in grado di farne. Possiamo avere una conoscenza completa 
                  degli oggetti che possiamo costruire. 
                
                   
                     | 
                   
                   
                    |   Roy Bhaskar (Londra, Regno Unito, 1944-Leeds, Regno Unito, 
                  2014)  | 
                   
                 
                 L'approccio di Roy utilizzava una versione del metodo trascendentale 
                  kantiano, che si chiede: “Che possibilità ci sono 
                  che ciò che sappiamo sia vero?” Per la scienza, 
                  è necessario porre due domande fondamentali: in primo 
                  luogo, perché gli esperimenti scientifici sono possibili, 
                  e in secondo, perché sono necessari, al fine di 
                  arrivare a una conoscenza verificabile di quelle che gli scienziati 
                  chiamano leggi naturali. Come mai è possibile escogitare 
                  una situazione in cui si possa prevedere esattamente che cosa 
                  succederà, quando, per esempio, l'acqua viene riscaldata 
                  a una certa temperatura in un ambiente controllato, e invece 
                  non si possono mai fare previsioni simili in un ambiente naturale? 
                  Per quanto vaste siano le nostre conoscenze scientifiche, per 
                  esempio, non siamo ancora in grado di fare previsioni meteorologiche 
                  precise. Perché, in altre parole, ci vuole tanto lavoro 
                  per creare una situazione in cui si sa esattamente che cosa 
                  accadrà? 
                  Roy giunge alla conclusione che il mondo deve essere costituito 
                  da strutture e meccanismi che esistono indipendentemente, che 
                  sono perfettamente reali, ma che devono anche essere “stratificati”, 
                  secondo il termine da lui utilizzato. La realtà è 
                  fatta di “livelli emergenti”: la chimica emerge 
                  dalla fisica, per il fatto che le leggi della chimica comprendono 
                  quelle fisiche, ma non sono riducibili a quelle; la biologia 
                  emerge dalla chimica e così via. A ciascun livello c'è 
                  un qualcosa di più, una sorta di salto verso un nuovo 
                  livello di complessità e anche, sostiene Roy, di libertà. 
                  Un albero è più libero di un sasso, proprio come 
                  un essere umano è più libero di un albero. Quello 
                  che si fa in un esperimento scientifico, pertanto, è 
                  l'eliminazione di tutto tranne un meccanismo a un livello emergente 
                  di realtà. Il che richiede un lavoro enorme. Ma nelle 
                  situazioni del mondo reale, per esempio nella meteorologia, 
                  sono sempre presenti meccanismi di ogni genere a vari livelli 
                  emergenti, che operano insieme, e il modo in cui interagiscono 
                  sarà sempre intrinsecamente imprevedibile. 
                  I libri che illustrano le sue tesi, A Realist Theory of Science 
                  (1975) e The Possibility of Naturalism (1979 – 
                  trad. it. Le possibilità del naturalismo, Marietti 
                  2010), hanno fatto di Roy una delle voci più influenti 
                  nel campo della filosofia della scienza. 
                  In seguito applicò il suo metodo alla critica del new 
                  realism di Tony Blair, che veniva fatto passare come un 
                  tardo adeguamento ai fatti della vita politica. Roy sostenne 
                  che il new realism non riconosceva le strutture sottese 
                  e i meccanismi che l'originavano, come la proprietà e 
                  lo sfruttamento della manodopera, i quali producevano fenomeni 
                  ed eventi osservabili: bassi salari e condizioni di lavoro intollerabili. 
                  In altri termini, il New Labour si basava su un realismo del 
                  tipo più superficiale. Roy illustrò queste e altre 
                  implicazioni politiche al Gruppo di lavoro filosofico delle 
                  conferenze socialiste di Chesterfield, che alla fine degli anni 
                  ottanta erano legate alle figure di Tony Benn e a Ralph Miliband. 
                  Il suo studio uscì poi in forma di libro dal titolo Reclaiming 
                  Reality (2011). 
                  Roy fu un rivoluzionario in politica. L'obiettivo unificante 
                  della sua opera era quello di stabilire come il perseguimento 
                  del sapere filosofico comportasse necessariamente la trasformazione 
                  della società; la lotta per la libertà e la ricerca 
                  del sapere in ultima analisi coincidevano. 
                  Il suo impegno nel mondo era fatto di attenzione, di allegria, 
                  di scarso senso pratico, in continua evoluzione e teso a imparare. 
                  Non cessava mai di annunciare nuove rivoluzioni. Negli anni 
                  novanta affermò che la dialettica hegeliana (tesi-antitesi-sintesi) 
                  altro non fosse che una versione originale e precipua del principio 
                  universale che stava alla base di ogni pensiero e sapere umano. 
                  Si avviava così la seconda fase del suo pensiero, che 
                  culminò con la pubblicazione di un libro dall'ambizioso 
                  titolo Plato Etc: The Problems of Philosophy and Their Resolution 
                  (1994), ispirato dalla celebre frase di Alfred North Whitehead, 
                  “tutta la filosofia è solo una nota a margine su 
                  Platone”. 
                  Roy si era reso conto che Whitehead si riferiva solo alla filosofia 
                  occidentale; il rispetto per tutte le manifestazioni del pensiero 
                  umano imponeva un impegno anche verso la filosofia orientale. 
                  Il che doveva comportare una seria riflessione sulle idee spirituali, 
                  un ambito dell'esperienza umana che la sinistra aveva abbandonato 
                  nelle mani della destra fondamentalista. In una serie di libri, 
                  soprattutto in The Philosophy of MetaReality: Creativity, 
                  Love and Freedom (2012), Roy sostenne la necessità 
                  di considerare le esperienze spirituali quali caratteristiche 
                  costanti della vita quotidiana: ogni atto positivo di comunicazione 
                  è in effetti un esempio del principio spirituale del 
                  non dualismo, ove le due parti diventano momentaneamente una 
                  stessa persona. 
                  Questa evoluzione del suo pensiero produsse accese dispute tra 
                  i sostenitori del realismo critico, ma Roy non smarrì 
                  mai la sua sorridente generosità di spirito, svolgendo 
                  un ruolo attivo nel Centre for Critical Realism e nell'International 
                  Centre for Critical Realism, mai cessando di avanzare progetti, 
                  visioni e idee. 
                  Era nato a Teddington, un quartiere a ovest di Londra, suo padre, 
                  Raju Nath Bhaskar, era un operatore sanitario di origine indiana, 
                  sua madre Kumla Marjoorie Skills era inglese. Roy aveva studiato 
                  alla St Paul's School di Londra, si era laureato nel 1966 in 
                  scienze umane al Balliol College di Oxford. Lì conobbe 
                  Hilary Wainwright, che come lui era critica nei confronti del 
                  piano di studi PPE ed era impegnata nel movimento studentesco: 
                  nel 1971 si sposarono e continuaro a collaborare intellettualmente 
                  e politicamente fino alla morte di Roy. 
                  Roy si batté per tutta la vita contro le convenzioni 
                  del pensiero filosofico accademico. Dopo aver lavorato come 
                  ricercatore in economia al Pembroke College di Oxford, ebbe 
                  incarichi al Linacre College di Oxford, all'Università 
                  di Edimburgo, al Collegio di Studi Avanzati in Scienze Sociali 
                  di Uppsala e all'Università di Tromso in Norvegia. 
                  Nel 2008 gli fu amputato un piede a causa della malattia di 
                  Charcot, era finito su una sedia a rotelle e campava grazie 
                  a uno stipendio ridotto come studioso presso l'Institute of 
                  Education di Londra. Ciò nonostante restò una 
                  persona di insuperabile energia e inventiva, di una gentilezza 
                  quasi sovrannaturale, senza mai perdere il buon umore. 
                  Lascia la sua seconda moglie e assistente Rebecca Long, la prima 
                  moglie Hilary e suo fratello Krish. 
                 David Graeber 
                  traduzione dall'inglese di Guido Lagomarsino 
                  Originariamente apparso su The Guardian il 4 dicembre 
                  2014 
                 
                   
                Il 
                  simbolo Mattarella 
                     
                 
                   
                 
                Ucraina e Crimea/ 
                  Alle radici del conflitto 
                Nel caso dell'Ucraina, la semplice sovrapposizione dei confini 
                  statali attuali ad una serie di carte politiche storiche (dal 
                  1200 ad oggi) e di carte linguistiche evidenzia quanto i confini 
                  di oggi siano “costruiti”. Cioè quanto siano 
                  il risultato (soprattutto nel XX secolo) di vicende belliche 
                  sempre più intrecciate al conflitto ideologico seguito 
                  alla rivoluzione russa del 1917 e alla costituzione dell'URSS. 
                  Si possono notare 3-4 «Ucraine» ciascuna dai confini 
                  incerti o sfumati, ad eccezione della Crimea che è una 
                  penisola ben definita. L'Ucraina occidentale, a lungo (250 anni) 
                  sotto il controllo Polacco-lituano, la cui parte più 
                  a ridosso dei Carpazi e intorno alla città di Leopoli 
                  è stata della Polonia tra 1920 e 1945 e prima dell'impero 
                  austroungarico. L'Ucraina orientale, dai contorni indefinibili, 
                  storicamente più legata all'Asia e alle ripetute invasioni 
                  mongole e tatare ed alla riconquista moscovita di questi territori. 
                  L'Ucraina centrale, di Kiev e a cavallo del fiume Dnepr fino 
                  ad Odessa e il mar Nero, corrispondente alla storica Rus di 
                  Kiev (IX-X secolo) che i russi («di Mosca») considerano 
                  culla della loro storia religiosa e linguistica. Infine la Crimea, 
                  con una storia (che coinvolge anche l'impero ottomano), una 
                  conformazione geografica peninsulare ed un clima che ne potrebbero 
                  fare una caso a sé. 
                  Le differenziazioni tra russo e ucraino (e bielorusso) possono 
                  provocare una guerra accademica tra linguisti e/o esperti di 
                  letteratura, ma solo strumentalmente per rivendicare appartenenze 
                  identitarie e affermazioni di diversità/separazione «da 
                  sempre», viste le frequenti «sovrapposizioni» 
                  storiche e gli intrecci culturali intercorsi. In concreto l'Ucraina 
                  coi confini attuali ha la distribuzione dei due maggiori gruppi 
                  linguistici parlati, con i russofoni maggioritari a est e gli 
                  ucrainofoni a ovest e la parte centrale di Kiev variamente sfumata 
                  nel passaggio linguistico tra le due parti dell'est e dell'ovest. 
                  La Crimea è maggioritariamente russofona (58%) con una 
                  significativa presenza tatara (12%). 
                  L'impero degli zar e soprattutto i settant'anni di Unione Sovietica 
                  hanno lasciato il segno omologante sia sulle strutture urbane 
                  che nelle abitudini di vita. Il processo di cambiamento e di 
                  differenziazione, anche socio-economica individuale, in Ucraina 
                  è iniziato solo dopo la fine dell'URSS (1991) ed è 
                  quindi un fatto molto recente che ha interessato più 
                  le aree a contatto con l'Unione Europea rispetto a quelle geograficamente 
                  più lontane dell'est, la cui economia è ancora 
                  strettamente legata a miniere, acciaierie e industrie del periodo 
                  sovietico e quindi alla Russia. Le aree linguistiche corrispondono 
                  quindi, a grandi linee, anche ad aree socio-economiche. 
                  Dal punto di vista religioso la maggioranza degli ucraini si 
                  dichiara non religioso; per il resto, pur nell'ambito di una 
                  generale diffusione largamente maggioritaria della religione 
                  cristiana ortodossa, ci sono divisioni interne sia con la chiesa 
                  di rito orientale, ma unita (da cui il termine «uniate») 
                  alla chiesa cattolica e più presente a ovest e nel centro, 
                  che con le due chiese/patriarcati «autocefali» che 
                  non riconoscono l'autorità del patriarcato di Mosca, 
                  con posizioni e argomenti simili al nazionalismo politico e 
                  con diffusione più forte nel centro (e ovest). 
                  La Crimea, luogo di vacanza dall'epoca imperiale e poi sovietica, 
                  con Sebastopoli base militare navale russa di primaria importanza 
                  da almeno un paio di secoli, può (e potrebbe) essere 
                  un mondo a sé. «Passata» all'Ucraina nel 
                  1954 per decisone squisitamente iconografico-politica (commemorare 
                  i 300 anni dall'unione politica di Kiev con Mosca) all'interno 
                  di un sistema di repubbliche (URSS) indifferenziate socio-economicamente 
                  e ideologicamente “sorelle”, i suoi cittadini russofoni 
                  considerano l'avvenuta (anche se non riconosciuta) reintegrazione 
                  nella Federazione Russa come un «ritorno a casa»; 
                  e così i russi. Sul piano pratico e anche su quello iconografico 
                  questo cambiamento geopolitico ha tutte le caratteristiche per 
                  poter essere «indolore»; le questioni pratiche (es.: 
                  titolarità dei funzionari pubblici, pagamenti e tasse, 
                  monete di scambio, import-export, ecc.) possono essere risolti 
                  su un piano pratico funzionale. 
                  Purché non vengano poste le questioni della sovranità 
                  lesa e dell'integrità territoriale da non modificare. 
                  Nel caso Crimea la ben identificabile separazione fisica ha 
                  favorito una dinamica che non è stata cruenta; anche 
                  la presenza militare russa nella base di Sebastopoli, e non 
                  solo, ha certo contribuito a smorzare velleità di azioni 
                  di forza da parte del governo di Kiev, che era inoltre ancora 
                  in preda agli scompensi che un cambiamento rapido di regime 
                  e leader comporta. 
                  Più complicato il caso delle regioni ribelli dell'est 
                  Ucraina che pure hanno una situazione socio-economica simile 
                  alla Crimea, ma con due deficit rilevanti rispetto a quella: 
                  1) non erano già presenti le truppe russe (anche se ci 
                  sono oltreconfine); 2) manca una possibile delimitazione «naturale», 
                  fisica, cui trasferire iconograficamente il senso della richiesta 
                  di indipendenza; i confini sono quelli amministrativi decisi 
                  in periodo sovietico. Anche questa dinamica avrebbe potuto essere 
                  gestita sul piano funzionale (con una trattativa sul grado di 
                  autonomia da concedere) e senza arrivare alla secessione dei 
                  territori. Ma in questo caso i due fattori mancanti hanno dato 
                  più peso ai tabù politico-mentali e ai mantra 
                  mediatici della sovranità intaccata e dell'integrità 
                  territoriale da difendere «a qualunque costo» che 
                  hanno avuto il sopravvento; e quando da ambedue le parti si 
                  mobilità l'iconografia della patria e ci si considera 
                  reciprocamente terroristi le possibilità di negoziazione 
                  si riducono a quasi niente e non resta sul campo concreto che 
                  la vittoria del più forte (se c'è) o una strisciante 
                  conflittualità asimmetrica il cui prezzo viene pagato 
                  prevalentemente dai civili. In questo contesto anche «un 
                  grave fatto» come l'abbattimento di un aereo civile con 
                  quasi trecento passeggeri (luglio 2014), con il solito reciproco 
                  scambio di attribuzione di responsabilità, ha portato 
                  solo a degli accordi a inizio settembre 2014, ma mai efficaci 
                  ad interrompere la spirale di violazioni e ritorsioni sul terreno. 
                  E a livello dei decision makers e mediatico la forza 
                  simbolica di sovranità e integrità territoriale 
                  è ancora molto, molto forte. 
                  Nel caso Ucraina, l'Occidente si è schierato subito con 
                  il nuovo governo ucraino dopo la fuga del presidente Janukovic 
                  che, pur essendo stato eletto democraticamente nel 2010, a detta 
                  dei mass media occidentali avrebbe perso la propria legittimità 
                  per la repressione cruenta dei manifestanti di piazza (un centinaio 
                  di morti). Anche Bashar Assad, presidente siriano, avrebbe perso 
                  la propria legittimità, se mai l'Occidente gliel'ha mai 
                  concessa, perché ha bombardato i quartieri delle città 
                  occupati da gruppi armati ribelli (variamente finanziati da 
                  Qatar, Arabia Saudita, Turchia e… Occidente). Il generale 
                  egiziano Al Sisi, autore di un colpo di stato contro il presidente 
                  eletto democraticamente, che ha provocato nel giro di qualche 
                  mese più di mille morti tra i manifestanti di opposizione, 
                  la messa fuori legge del partito del vecchio presidente (incarcerato), 
                  con condanne a morte in blocco a centinaia di attivisti dei 
                  Fratelli Musulmani accusati di terrorismo, sembra non aver perso 
                  legittimità perché un Egitto di nuovo gestito 
                  dai militari è funzionale alla struttura egemonica cioè 
                  alla cosiddetta «stabilità», in particolare 
                  del Medio Oriente così come lo concepiscono le potenze 
                  egemoni. 
                  La logica della sovranità, dell'integrità territoriale 
                  indiscutibile nel quadro del doppio standard nel valutare le 
                  crisi non fanno altro che alimentarle invece che risolverle. 
                  E chi paga sono i civili. 
                 Fabrizio Eva 
                 
                   
                   
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