  
                
  
                 Botta.../Ma 
                  lo Stato che cosa farà? 
                   
                  Il mio amico Andrea Papi propone (Anarchismo 
                  in divenire, in “A” 394, dicembre 2014/gennaio 
                  2015) un percorso di liberazione sociale che superi la concezione 
                  della lotta contro un nemico identificabile, sconfitto 
                  il quale il mondo sarà più   vivibile. 
                  Al posto di una donchisciottesca guerra permanente e suicida 
                  contro falsi bersagli, Andrea indica un nuovo anarchismo costruttivo 
                  e sperimentale. Direi che la sua formula si può sintetizzare 
                  così: non aspettiamo un'impossibile palingenesi universale 
                  frutto della fata rivoluzione: facciamo, qui e ora, quanta più 
                  anarchia possibile: democrazia diretta, rifiuto di gerarchia, 
                  solidarietà, ecc. 
                  Andrea invita al dibattito, ed io vi partecipo, con una domanda. 
                  Premetto che concordo pienamente con Andrea quando scrive che 
                  non è più tempo di nemici facili: se una volta, 
                  nelle pagine dei gloriosi giornali anarchici, si poteva fare 
                  la caricatura del potere (il grasso banchiere, il prete osceno, 
                  il generale con lo sciabolone), oggi che faccia ha il potere? 
                  Oggi il potere - quello vero, che conta, che decide - è 
                  invisibile come i nugoli di elettroni che guidano e regolano 
                  tutta la vita delle nazioni “tecnologicamente avanzate”. 
                  Allora, evitiamo una lotta fallimentare contro questo fantasma, 
                  questo idolo e viviamo come se non esistesse. Creiamo strutture 
                  sociali, partendo dal rapporto tra individui che si conoscono 
                  per nome e si riconoscono reciprocamente dignità e valore; 
                  creiamo isole di libertà in un oceano di servitù. 
                  Creiamo esempi e ricette di una vita alternativa, migliore, 
                  libera. 
                  Bellissimo. Giusto. Ora la domanda: ma quando questo arcipelago 
                  sarà abbastanza esteso (come Andrea auspica, ed io con 
                  lui), cosa farà il potere? 
                  Ora il progetto può anche funzionare, perché coinvolge 
                  relativamente poca gente; non se ne parla, se non nell'ambito 
                  libertario. Tutto è sotto osservazione e controllo dei 
                  poteri costituiti. 
                  Ma se la cosa continua, arriverà inevitabilmente un momento 
                  in cui la società sperimentale dovrà misurarsi 
                  con il potere, con la legge, con l'autorità, insomma 
                  con lo stato. 
                  Quando la costellazione di esperienze sociali autogestite raggiungerà 
                  quello che lo stato riterrà un livello critico (cioè 
                  una minaccia alla sua integrità, al suo dominio, alla 
                  sua legislazione), cosa accadrà? Lo stato cosa farà? 
                  Accetterà serenamente la propria estinzione? Muterà 
                  senza convulsioni violente? Rispetterà la libera decisione 
                  della gente non più minuscola minoranza? Rispetterà, 
                  cioè, l'istanza che tende alla sua eliminazione? O forse 
                  Andrea prevede che si creeranno due corsie sociali? Due società? 
                  Una libera e una statale? Prevede la creazione di libere comuni, 
                  tipo ashram? E sarà lo stato a garantire/consentire/regolamentare 
                  l'esistenza delle comunità anti-statali? 
                  Probabilmente, Andrea indica la necessità del radicale 
                  mutamento dei codici culturali che può avvenire solo 
                  con la pratica. Concordo del tutto. 
                  Ma ritengo - e ammetto che sono molto pessimista - che tale 
                  diffuso mutamento sia lungo, difficile, doloroso. E che sia, 
                  questo mutamento, il nemico mortale del potere, qualunque esso 
                  sia, e che non risparmierà nessuna vita, non eviterà 
                  nessuna atrocità pur di impedirlo. 
                 Paolo Cortesi 
                  Forlì 
				   
				 
                    
                  ...e risposta/La maniera giusta di non essere sopraffatti 
                   
                  Carissimo Paolo, grazie di essere intervenuto e d'incalzarmi 
                  con domande che hanno l'intento di aiutare a definire meglio 
                  le questioni. 
                  Le domande che poni me le sono poste anch'io tutte le volte 
                  che ho pensato e scritto ciò di cui stiamo ragionando. 
                  Ma siccome sono tutte rivolte a ciò che sarà, 
                  anzi che supponiamo dovrà essere, a un certo punto ho 
                  smesso sia di pormele sia di tentare di rispondere, perché 
                  sono giunto alla conclusione che è praticamente inutile 
                  muoversi su supposizioni riferite a un futuro che si deve ancora 
                  definire in toto o quasi. A cosa serve? 
                  Siccome però l'esercizio immaginario, pur essendo totalmente 
                  suppositivo, può invero aiutare a prefigurare, quindi 
                  a trovare, i modi più consoni per muoversi, allora ti 
                  dirò in breve come secondo me è probabile che 
                  il potere si muoverà nel caso che... ecc. ecc. 
                  Innanzitutto una precisazione che chiarifica meglio il senso. 
                  Ciò a cui bisognerebbe tendere non sono tanto isole, 
                  che la parola indica luoghi delimitati separati, isolati appunto, 
                  da qualsiasi contesto. No! Io intendo proprio una società 
                  dentro la società esistente, che si muove al suo interno 
                  facendone parte con intenti e qualità d'azione capaci 
                  di modificarla profondamente proprio nel tessuto delle relazioni. 
                  Non quindi una cosa o più cose a parte, facilmente identificabili 
                  e isolabili, ma un bubbone che si espande e contamina, che contagia 
                  a poco a poco i gangli vitali dell'esistente oppressore fino 
                  a renderli inefficienti e repellenti. 
                  Ma, è la tua domanda, il dominio esistente si lascerà 
                  corrodere e annichilire più o meno lentamente? Certamente 
                  no, ti rispondo sapendo di essere facile profeta. E lo farà 
                  in vari modi, reprimendo, calunniando, infiltrandosi e sabotando, 
                  mistificando, procurando molta infelicità e dolore. È 
                  quello che ha sempre fatto, che sa fare meglio e che gli funziona 
                  praticamente sempre, esclusa qualche rarissima eccezione. 
                  Dal modo in cui hai posto le domande penso che siamo d'accordo. 
                  Adesso ti chiedo io: e allora? Anche se sarà così, 
                  come indubitabilmente penso che sarà, ragion per cui 
                  dovremmo prepararci ad affrontare gli eventi che ci attenderanno, 
                  può incidere questa terribile repressione sulle nostre 
                  scelte e la loro ragionevolezza? Il fatto che il potere tenterà 
                  d'impedire con ogni mezzo ciò che presumibilmente lo 
                  metterà seriamente in discussione può servire 
                  a modificare i nostri tentativi di emanciparsi? Credo proprio 
                  di no. Se la paura di essere repressi fosse una ragione sufficientemente 
                  sufficiente per astenersi dal muoversi saremmo ancora ai supplizi 
                  del medioevo nelle pubbliche piazze, vissuti interiormente come 
                  monito a non essere irregolari rispetto ai feudatari. Il fatto 
                  che il potere ci reprimerà, come del resto ha sempre 
                  fatto, deve solo diventare un monito per trovare la maniera 
                  giusta di non essere sopraffatti, come è quasi sempre 
                  successo, per proseguire il cammino verso la liberazione e la 
                  libertà autogestita, fino a quando non riusciremo a raggiungerla. 
                 Andrea Papi 
                  Forlimpopoli (Fc) 
				   
				 
                    
                  Forza del pacifismo, debolezza della violenza 
                   
                  Le seguenti riflessioni muovono dai contributi di Andrea Staid 
                  e Stefano Boni (Per 
                  una diversità delle pratiche) e di Rosellina 
                  “Rosy” Escalar (Metodi 
                  adeguati allo scopo) pubblicati entrambi in “A” 
                  392 (ottobre 2014) nell'ambito del dibattito “Movimenti 
                  e Potere”. 
                  Nel primo si legge: “Un movimento anarchico assolutamente 
                  pacifista ci suona contraddittorio e inefficace: rivendicare 
                  un cambiamento radicale dell'ordine costituito (con relativo 
                  abbattimento delle strutture istituzionali, finanziarie, repressive 
                  ed economiche che lo sorreggono) è difficilmente pensabile 
                  senza una dose di utilizzo della forza” e “pensiamo 
                  che l'azione diretta e non solo la pubblicistica e i convegni, 
                  siano ingredienti imprescindibili per immaginare la trasformazione” 
                  mentre nel n° 13 (Rosellina “Rosy” Escalar) “pratiche 
                  o azioni rivolte contro cose, simboli, strutture, merci, ecc. 
                  rientrano perfettamente nella metodologia non violenta (lo stesso 
                  Gandhi propagandava il sabotaggio)”. 
                  Ho scelto questi momenti del dibattito perché a mio avviso 
                  tendenti all'approccio ideologico davanti a problemi d'ordine 
                  squisitamente politico. Nessuno può pensare alla esclusione 
                  a priori del ricorso alla forza nel corso di un momento rivoluzionario, 
                  ma è indiscutibile che la violenza non è più 
                  quello strumento ritenuto per lungo tempo decisivo per il suo 
                  successo visti i risultati controproducenti ottenuti dal suo 
                  impiego. Come ha ampiamente evidenziato il corso recente della 
                  storia. 
                  Inoltre non si può parlare genericamente di violenza 
                  e potere (e di pacifismo) senza considerare che esse sono, concretamente, 
                  espressioni di un momento politico che una società vive 
                  in un determinato momento storico e quindi devono essere, di 
                  volta in volta, ridefiniti partendo dalla loro contingente realtà 
                  per essere tempestivamente affrontati con iniziative (politiche) 
                  specifiche inscritte in una strategia che non sarà mai, 
                  alla luce dell'attuale situazione, un “immaginare la trasformazione” 
                  (attraverso l'azione diretta) sopra proposta perché il 
                  potere oggi è forte soprattutto per aver assunto una 
                  dimensione mondiale immateriale e conseguentemente aspetti difficilmente 
                  decifrabili e difficilmente identificabili per cui la violenza 
                  propugnata sarebbe (è) rivolta solo ad alcuni suoi aspetti 
                  secondari. Il suo impiego - oltretutto - attualmente fornisce 
                  ai mass media (strumenti decisivi che il potere ampiamente controlla) 
                  l'opportunità di “legalizzare” sia la repressione 
                  sui compagni arrestati, sia per gettare ombre negative sui movimenti 
                  alternativi. A questo proposito basta vedere come giornali e 
                  TV si gettino famelici su tutte quelle notizie cavalcando le 
                  quali tendono ad attualizzare gli “anni di piombo” 
                  dimenticando che l'altra faccia della medaglia che celebra quel 
                  periodo vede incisi gli “anni della dinamite” dei 
                  servizi segreti collegati con le destre fasciste che dettero 
                  vita alle stragi di stato che oggi nessuno più ricorda. 
                  Queste precisazioni vanno unicamente intese a beneficio della 
                  precisione storica, quanto lontane da ogni accenno giustificazionista. 
                  Una volta intrapresa la strada della non violenza essa non rinuncerà 
                  - se ritenuto necessario - al sabotaggio contro cose, simboli, 
                  strutture, merci, ecc. come giustamente propagandava Gandhi, 
                  sabotaggio da considerare però solo come eventuale strumento 
                  aggiuntivo di una strategia pacifista in atto portata avanti 
                  da una massa di persone fisiche, da un popolo in lotta; niente 
                  a che vedere - dal punto di vista della valenza politica - con 
                  quelle affermazioni di principio cui sopra abbiamo fatto riferimento. 
                  La concezione anarchica pacifista, come strategia per inverare 
                  un processo rivoluzionario nasce dalla consapevolezza dei reali, 
                  attuali rapporti di forza materiali, da ragioni d'ordine morale 
                  e di coerenza con i principi anarchici libertari e trova la 
                  sua forza nella inattaccabilità di un atteggiamento pacifista 
                  di massa che sfugge alla logica di un potere che storicamente 
                  ha nella violenza, in tutte le sue accezioni, la sua arma a 
                  tutt'oggi vincente. Inoltre, alla fine del secolo scorso, a 
                  partire da Seattle, una nuova coscienza sta attraversando i 
                  popoli di tutto il mondo. È una coscienza che varca monti 
                  e oceani e, seppure in maniera instabile, magmatica, carsica 
                  investe nazioni diverse e lontane tra loro, riempie le piazze 
                  di milioni di uomini, donne, giovani senza distinzione di cultura, 
                  credo religioso o altro uniti solo dall'aspirazione a un mondo 
                  nuovo, giusto, migliore. 
                  L'elenco dei paesi attraversati da massicce mobilitazioni è 
                  molto lungo, Turchia, Brasile, Egitto, Spagna, Grecia, Tunisia, 
                  Bulgaria, India, Cile, Stati Uniti, Romania e vede impegnati 
                  anche paesi in crescita economica come Brasile e India. È 
                  un mondo che vuole togliere di mano alle vecchie lobby, alle 
                  caste e consorterie varie il potere sulla società per 
                  porre al centro di essa l'Uomo con la sua umanità e con 
                  la libertà (e responsabilità) per ciascuno di 
                  contribuire in prima persona alla definizione di un comune futuro! 
                  È un mondo che si caratterizza per essere “disarmato” 
                  in quanto armato solo della propria determinazione, che non 
                  persegue conquiste violente (anche perché la storia qualcosa 
                  ha insegnato); è un mondo che sa - o forse solo intuisce 
                  - che la sua rivoluzione sarà vincente solo se rivoluzionari 
                  saranno le sue finalità e le sue modalità. 
                  Esso ci dice che il pacifismo, non la violenza, è il 
                  valore irrinunciabile per una umanità sulla strada della 
                  sua completa/definitiva (?) umanizzazione che è la stessa 
                  strada sulla quale marcia chi lotta per realizzare una società 
                  anarchica libertaria. Io ritengo che queste conclusioni rappresentino 
                  un fatto molto positivo ma è ancora niente se a quanto 
                  prospettato mancano quelle gambe che solo un grande e vasto 
                  sforzo politico-organizzativo può sperare di realizzare; 
                  uno sforzo che vada oltre l'attuale frammentazione del nostro 
                  movimento. Problema questo cui il documento della Federazione 
                  Anarchica Empolese Anarchismo 
                  e XXI secolo (“A” 391, estate 2014) prospetta 
                  una soluzione. 
                  
                Ettore Pippi 
                  della Federazione Anarchica Empolese 
				   
                 
                  
                  Occhio alla proprietà privata del denaro 
                   
                  Parigi. Milioni di persone hanno manifestato per protestare 
                  contro un delitto esecrabile. Ma forse quella non era solo volontà 
                  di protesta. C'era la felicità  di realizzare qualcosa 
                  da cui da troppo tempo, i sospetti che il potere induce tra 
                  i cittadini, aveva tenuto lontani e separati gli uni dagli altri.  
                  Finalmente si era  tutti insieme, tutti anche quelli che 
                  materialmente quel giorno non erano a Parigi. 
                  Intanto  tronfi personaggi nelle e delle prime file sfilavano 
                  plaudendo a se stessi convinti che quella folla appartenesse 
                  loro, fosse il segno tangibile di quanto quegli uomini e quelle 
                  donne sentivano di poter contare su di loro. E tutta la stampa 
                  ad intonare peana agli illustri rappresentanti dei valori della 
                  democrazia e della unità europea. 
                  E allora: no! Gli slogan che assumono che i valori dell'occidente 
                  siano patrimonio comune degli europei, degli americani, ecc. 
                  sono falsi. È necessario che qualcuno lo ricordi. I fondamenti 
                  della democrazia non sono affatto unici in occidente. Max Weber 
                  in “L'etica protestante e lo spirito del capitalismo” 
                  precisò abbastanza puntualmente una differenza non minima. 
                  In estrema sintesi l'etica protestante e particolarmente calvinista, 
                  interpretava il successo economico, la ricchezza, come segnale 
                  dell'approvazione divina e degli austeri comportamenti terreni. 
                  Conseguentemente negativo era il vivere tra e per i debiti o 
                  aspettarsi assoluzioni o indulgenze divine e terrene tanto care 
                  (nel senso che effettivamente si pagavano fior di quattrini 
                  per ottenerle) alle gerarchie della Chiesa cattolica. Quando 
                  si stabilirono i patti europei, ci fu un tenue tentativo di 
                  mettere in risalto i valori del cattolicesimo, tentativo respinto 
                  con la scusa del laicismo, laicismo che ha permesso, comunque 
                  di inserire o ispirare norme orientate dal calvinismo. E la 
                  teoria calvinista e protestante la troviamo introdotta oggi 
                  in ogni decisione “democratica” dell'Europa che 
                  ha espunto i valori del 1789 pur da ciascuno ritenuti fondanti. 
                  La democrazia oggi da mezzo si è trasformato in fine 
                  attribuendo a se stessa il diritto autonomo di governare in 
                  base alla espressione della volontà politica della maggioranza 
                  contata però solo tra i voti espressi, rifiutandosi di 
                  considerare gli astenuti, le schede bianche o altro anch'esse 
                  espressione di volontà politica. 
                  La pretesa della maggioranza di governare fino a nuove elezioni, 
                  al di sopra del Parlamento, che ne dovrebbe valutare via via 
                  le decisioni, è comprovata dalla serie di leggi in cui 
                  il termine stabilità la fa da padrone, impedendo così 
                  la individuazione di nuovi problemi o aggiustamenti delle soluzioni 
                  già definite e senza alcuna partecipazione. 
                  Gli stessi, inoltre propongono ai cittadini di essere presenti 
                  sulla scena politica, presenza che sarebbe certamente auspicabile, 
                  ma che è dominata, invece, dall'ipocrisia dell'obbligo 
                  di accettare la possibilità del voto ogni 5 anni e l'accettazione 
                  acritica delle scelte dei candidati delle segreterie dei partiti. 
                  Ma avere gli stessi valori non comporta avere automaticamente 
                  gli stessi interessi. La dinamica della produzione e i suoi 
                  sviluppi industriali poneva e pone problemi strettamente legati 
                  alla evoluzione (o involuzione) degli stessi fattori della produzione: 
                  Terra, Capitale e Lavoro. Il capitale, che in principio consisteva 
                  nel possesso di beni materiali e finanziari, ben presto si è 
                  reso conto, a mio parere, di due fatti strettamente collegati: 
                  il primo che man mano che cresceva la produzione in progressione 
                  superiore cresceva la popolazione e i suoi desideri; secondo: 
                  promuovere o andar dietro a queste crescite, che in un primo 
                  tempo avevano aumentato i profitti,  a poco a poco finivano 
                  con rendere minimi i profitti stessi per via delle quote destinate 
                  a bonificare quanto veniva inquinato o distrutto, mentre l'aumento 
                  delle popolazioni la loro sindacalizzazione e l'aumento dell'istruzione, 
                  tendeva a rendere precario, per decisioni politiche, (rivoluzioni, 
                  colpi di stato ecc.), per eventi di mercato (crisi ecc.) per 
                  eventi naturali: terremoti, inquinamenti da loro stessi provocati, 
                  la proprietà privata di quei beni materiali che  
                  avevano loro  garantito il potere. Soluzione: relativo 
                  disinteresse verso il “Capitale beni reali privati” 
                  e massima attenzione al potenziamento del “Capitale bene 
                  finanziario”. 
                  Per mettere a posto le cose, il controllo dei valori monetari 
                  era la prima mossa da compiersi. Questo fu facile da realizzare 
                  promuovendo l'acquisto di beni e finanziandoli in termini così 
                  convenienti che una società abituata all'indebitamento 
                  e al consumismo non ha esitato a buttarvisi allegramente a capofitto. 
                  Ma i debiti sono debiti ed i creditori sono lì a condizionare 
                  profondamente la società e la crisi che ne consegue. 
                  A questo punto si è quasi realizzata la proprietà 
                  privata della moneta. Ora non restava che unificare in un'unica 
                  moneta quelle di un territorio, con caratteristiche omologhe 
                  sia in termini di religione, di governi, di cultura e sindacalmente 
                  abituati o orientati a difendere salari piuttosto che diritti 
                  dei lavoratori. 
                  L'Europa sembrava fatta apposta. Aveva messo in comune alcune 
                  cose tra cui quelle più interessanti e cioè le 
                  forze militari strette in un alleanza che, comunque, facendo 
                  capo proprio al paese in cui le scuole di economia avevano messo 
                  a punto il piano stesso, fornivano la massima garanzia insieme 
                  alla pratica di corruzione che coinvolgeva quasi tutti i governi, 
                  le istituzioni se non addirittura i cittadini. Inoltre la proprietà 
                  privata del danaro comporta che un governo che volesse tentare 
                  di sfuggire alle crisi con progetti di sviluppo e di investimenti 
                  per realizzarli poteva  contare solo sul danaro “privato” 
                  che sarebbe stato reso disponibile solo alle condizioni di coloro 
                  che ne sono i proprietari. (Grecia insegna). 
                  E l'Italia? In Italia i proprietari della moneta si trovavano 
                  di fronte ad una popolazione che aveva si un grandissimo debito 
                  pubblico, cosa senz'altro da loro fondamentalmente apprezzata 
                  in quanto forniva sostanziali margini di ricatto verso i governi 
                  in carica (vedi ancora Grecia) ma possedeva un altrettanto consistente 
                  risparmio privato. L'Italia, dunque, doveva, al più presto, 
                  essere resa malleabile attraverso l'introduzione di vincoli 
                  destabilizzanti fondati su una austerità capace, in breve, 
                  di promuovere povertà, disoccupazione, fragilità 
                  assistenziale ecc. 
                  Niente è stato più iconograficamente descrittivo 
                  della volontà calvinista  dell'Europa dell'austero 
                  Prof. Monti, nominato Presidente del Consiglio Italiano ma  
                  presto non sopportato dal suo popolo abituato a leader più 
                  “espansivi”, “allegri” e con grande 
                  facilità di affabulazione. Un Capo dello stato, fedelissimo 
                  all'Europa, immaginò una sostituzione con un democristiano, 
                  Letta, che venne sbrigativamente messo da parte in favore del 
                  vero soggetto sponsorizzato dall'Europa che vedeva in lui il 
                  giovane rampante, capace di mostrarsi, a parole, come contrarissimo 
                  all'austerità nord europea,  ma di fatto deciso 
                  a non distaccarsi da tutto ciò che era stato messo felicemente 
                  in pratica e soprattutto di concludere ciò che era rimasto 
                  in sospeso. 
                  Che resta da fare? 
                  Accettare ciò che il potere ci permette di fare: chiedere 
                  lavoro, per lasciar loro, con prosopopea seria ed infame affermare 
                  che il lavoro dobbiamo crearcelo da noi (come se non ce ne fosse 
                  già tanto da fare?) 
                  Considerare giusti e disinteressati gli interventi diretti a 
                  ridurre il welfare? (Senza accorgerci che tanto i ricchi se 
                  ne fregano perchè hanno i loro ospedali e le loro scuole)? 
                  Sottoscrivere entusiasticamente l'abolizione di ogni diritto 
                  dei lavoratori in cambio di flessibilità (devastante 
                  pratica che  separa dal proprio  presente  dal 
                  proprio passato, dai propri valori e dai propri territori nonché 
                  dalla solidarietà delle persone che si e ci amano con 
                  relativa e devastante perdita di identità, oltre che 
                  spesso di parte dei salari? 
                  Goderci l'infinita giustizia che hanno realizzato sulle pensioni 
                  eliminando quelle legate agli ultimi salari e sostituendoli 
                  con  calcoli sui contributi versati, come se l'ammontare 
                  di questi dipendesse dal lavoratore e non dai padroni che fissano 
                  quando assumere, quanto essere pagato e soprattutto se e quando 
                  interrompere il tuo lavoro... 
                  Ma il passo decisivo dei proprietari privati del denaro è 
                  quello di avere individuato nella miseria e l'ignoranza, la 
                  risorsa per arricchirsi di più e capace, per se stessa, 
                  di scongiurare ogni possibilità di rovesciamento del 
                  potere. Sanno che le rivoluzioni possono essere realizzate, 
                  con speranza di successo, solo se hanno alle spalle una forte 
                  preparazione culturale e tecnica che deve, per prima cosa sostituire 
                  tutte le strutture di potere esistenti con proprie forme organizzative. 
                  Ogni altra rivoluzione se non è impregnata da questa 
                  volontà creativa, sarà costretta, nel tentativo 
                  di rafforzarsi, di sostituire i capi delle strutture istituzionali 
                  sperando di poterle orientare verso i propri fini. Ma così 
                  facendo è probabile si realizzi solo un colpo di stato. 
                 Angelo Tirrito 
                  Palermo 
				   
                 
                  
                  Cosenza/La Fucina anarchica compie un anno 
                   
                  Domenica 14 dicembre, in uno dei capannoni delle ex officine 
                  Calabro-Lucane di Cosenza, la Fucina anarchica ha festeggiato 
                  il primo anno di attività, di autogestione, lotte, antispecismo, 
                  anarcosindacalismo e pratiche libertarie. 
                  Questo complesso di edifici è situato quasi in centro, 
                  tra via Popilia e viale Parco, a pochi minuti da corso Mazzini, 
                  la strada pedonale nel cuore della città nuova. Le Calabro-Lucane 
                  un tempo erano le littorine e le corriere che, sulla rete ferrata 
                  e quella stradale, percorrevano le due regioni dell'estremo 
                  stivale italico. In questo complesso di capannoni si effettuavano 
                  le manutenzioni meccaniche fino a quando, negli anni Novanta, 
                  allorché in Italia avvenne la svolta neoliberista e delle 
                  privatizzazioni, le officine vennero dismesse e le strutture 
                  furono occupate in autogestione da diverse realtà di 
                  Cosenza, tutte fortemente impegnate nel discorso politico, culturale 
                  e sociale della città, ma squattrinate e senza santi 
                  in paradiso. L'intero complesso edilizio meriterebbe una riqualificazione, 
                  vista anche la posizione strategica che occupa nel nucleo urbano, 
                  ma le istituzioni non sono disposte a investirci un centesimo. 
                  Ovviamente, per gli interessi dei palazzinari, di tanto in tanto 
                  spunta la minaccia dello sgombero dell'area. Intanto, le diverse 
                  realtà presenti vanno avanti. 
                  La Fucina anarchica la si ritrova sistemata alla meno peggio, 
                  in un magazzino di circa cento metri quadri. In un angolo sono 
                  collocati i libri, le riviste e quant'altro per la propaganda 
                  anarchica; le copie di Umanità Nova risaltano in evidenza, 
                  con un grande salvadanaio per la campagna di sottoscrizione 
                  straordinaria necessaria a impedire la chiusura del giornale. 
                  Dalla parte opposta, in una stufa sistemata sopra la vecchia 
                  fucina dell'officina, bruciano ciocchi di legna. Tira bene la 
                  stufa e il fumo sale indisturbato verso l'alto, mentre il calore 
                  si propaga nell'ambiente lasciando dietro la grande porta in 
                  ferro il primo gelo portato dai monti della Sila. 
                  Il musicista Migliuzzo Manuzio suona qualche pezzo del suo repertorio 
                  Reggae&Roll e Pop. Gira del vino locale proveniente dalle 
                  generose uve di Donnici, le colline sopra Cosenza. Verso le 
                  18.30, come da programma, inizia la presentazione del libro 
                  Calabria ti odio di Francesco Cirillo. Breve saluto di 
                  Maria Fortino, che spiega anche il senso dell'agire politico 
                  e dell'iniziativa intercalata nel primo anniversario della Fucina 
                  anarchica. Subito dopo è Oreste Cozza che dialoga con 
                  l'autore sui contenuti del testo. Oreste è un po' l'anima 
                  della Fucina; dopo aver inserito qualche riflessione sulla ricorrenza 
                  della struttura, inizia a conversare e a porgli delle domande. 
                  Francesco Cirillo è una figura storica dell'antagonismo 
                  politico calabrese, ambientalista, scrittore e giornalista. 
                  Calabria ti odio, pubblicato per i tipi di Coessenza, 
                  è una raccolta di cinquanta storie che raccontano della 
                  Calabria, una terra di forti contraddizioni che riesce a farsi 
                  amare e, allo stesso tempo, odiare. È facile capire che 
                  il libro di Cirillo scatena l'indignazione, apre visuali d'osservazione 
                  nella Calabria violentata, saccheggiata, avvelenata da criminali 
                  rimasti impuniti, e dove tutto è controllato dalla politica 
                  e dalla massoneria. Allo stesso modo, con maggiore significato 
                  simbolico, si percepiscono figure forti e delicate, guerriglieri 
                  delle utopie, figure minori di un popolo mai domo. Questa dicotomia, 
                  questi frammenti contrastanti caratterizzano i contenuti di 
                  questo testo, consentendo al lettore di alternare differenti 
                  stati d'animo e forti riflessioni. 
                  Ai dubbi di Oreste sul “Che fare?”, Francesco Cirillo 
                  non vede altre soluzioni: cercare di integrare il movimento 
                  nel territorio, andando per le strade e tirare dentro gli artigiani, 
                  i giovani, il popolo in generale, per discutere sui problemi 
                  e sulle vertenze in corso, per creare delle zone cuscinetto, 
                  per creare dinamiche sociali. 
                  Al termine della presentazione è stato proiettato un 
                  video appositamente montato per raccontare dell'occupazione 
                  e dei lavori di ristrutturazione della Fucina. La serata è 
                  proseguita con la musica dei Cantori della Fucina e una cena 
                  rigorosamente vegana e a chilometri zero. 
                 Pino Fabiano 
                  Cotronei (Kr) 
                 
                   
                   
                   
                 
                 
                  
                     
                      |    I 
                          nostri fondi neri 
                             | 
                     
                     
                        
                           Sottoscrizioni. Milena Morniroli (Clermont-Ferrand 
                            – Francia) in ricordo di Paolo Soldati, 100,00; 
                            Giuseppe Ideni (Forcoli – Pi) 10,00; Filippo 
                            Della Fazia (San Vito Chietino – Ch) 15,00; 
                            Vincenzo Argenio (San Nazzaro – Bn) 10,00; Paolo 
                            Facen (Feltre – Bl) 10,00; Danilo Vallauri (Dronero 
                            – Cn) 10,00; Marino Frau e Nicola Pisu (Serrenti) 
                            50,00; Benedetto Valdesalici (Villa Minozzo – 
                            Re) 10,00; Antonio Pedone (Perugia) 30,00; Diego Zandel 
                            (Roma) 10,00; Giuseppe Galzerano (Casalvelino Scalo 
                            – Sa) 40,00; Marco Castaldi (Colle Val d'Elsa 
                            – Fi) 60,00; Salvo Vaccaro (Palermo) 10,00; 
                            Gudo Bozak (Treviso) 260,00; Federico Zenoni (Milano) 
                            40,00; Marco Parente (Venezia Mestre) 25,00; Roberto 
                            Caselli (Parma) 10,00; Fausta Saglia (Ghiare di Berceto 
                            – Pr) 60,00; Fondazione Gaber (Milano) contributo 
                            per la collaborazione nell'organizzazione della serata 
                            “La fiaccola dell'anarchia” a Rosignano 
                            l'8 gennaio 2015, nel 150° anniversario della 
                            nascita di Pietro Gori, 1.250,00; Alessandro Sancamillo 
                            (Latina) 10,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando 
                            Franco Pasello e Paolo Soldati, 500,00; Giampaolo 
                            Pastore (Milano) 20,00; Silvio Gori (Bergamo) ricordando 
                            Egisto, Marina e Minos Gori, 80,00; Helga Bernardini 
                            (Milano) 20,00; Mauro Pappagallo (Torino) 10,00;  
                            Massimiliano Bonacci (Bologna) 15,00; Davide Giovine 
                            (Torre Pellice – To) 15,00; Renato Sacco (Alba 
                            – Cn) 25,00; Luigi Vivian (San Bonifacio – 
                            Vr) 10,00; Maria Teresa Giorgi Pierdiluca (Senigallia 
                            – An) 10,00; Fulvio Casara (Venasca – 
                            Cn) 10,00; Valerio Pignatta (Semproniano – Gr) 
                            10,00; Stefano Piovanelli (Vicchio – Fi) 20,00; 
                            Giovanni Maletta (Bergamo) 10,00; Rocco Tannoia (Settimo 
                            Milanese – Mi) 10,00; Mario Alberto Dotta (Aymavilles 
                            - Ao) 10,00; Franco Melandri e Rosanna Ambrogetti 
                            (Forlì) 25,00; Sergio Pozzo (Arignano) 10,00; 
                            Pietro Busalacchi (Napoli) 10,00; Daniele Ferro (Voghera 
                            – Pv) 6,00; Libreria San Benedetto (Genova) 
                            3,20. Totale € 2.849,20. 
                          Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti 
                            specificato, trattasi di euro 100,00). Antonio 
                            Orlando (Cittanova – Rc); Manuele Rampazzo (Padova); 
                            Nicola Farina (Lugo – Ra); Vittorio Golinelli 
                            (Bussero – Mi); Antonella Trifoglio (Alassio 
                            – Sv); Gudo Bozak (Treviso); Carlo Carrera e 
                            Yvonne Pastori (indirizzo non identificato: se leggete, 
                            fatecelo sapere!) 150,00; Davide e Selva (Lugano – 
                            Svizzera); Francesco Barba (Frankfurt a/M – 
                            Germania); Liana Borghi (Firenze); Maurizio Guastini 
                            (Carrara) 150,00; Fiorella Mastandrea e Amedeo Pedrini 
                            (Brindisi); Lucio Brunetti (Campobasso); Stefano Quinto 
                            (Maserada sul Piave – Tv); Luca Gini (Villa 
                            Guardia – Co); Tiziano Viganò (Casatenovo 
                            – Lc) ricordando Franco Pasello e Pierluigi 
                            Magni; Oreste Roseo (Savona) ricordando Giovanna Caleffi 
                            Berneri, Aurelio Chessa, Mario Mariani ed Elio Fiori, 
                            150,00; Massimo Locatelli (Inverigo – Co) 115,00; 
                            Giacomo Ajmone (Milano). Totale € 
                            2.065,00. 
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