  
                
 
  
                L'osteria dei soprannomi 
				 
                 Per 
                  passare attraverso questo libro e arrivare alla fine non ci 
                  si può accontentare di una lettura superficiale. Neanche 
                  questa volta: i libri di Marco Sommariva, già lo sapevo, 
                  non sono roba da portarsi in borsa in spiaggia, né buoni 
                  per passare un'ora buca al caffè. Serve un certo impegno. 
                  È come se tra le righe che raccontano le storie fossero 
                  scritte altre storie, un po' nascoste, un po' che vengono a 
                  galla. Serve una certa attenzione. Serve un certo rispetto, 
                  se vogliamo. Questo è un po' un caso a parte: certo l'autore 
                  è lo stesso, riconoscibilissimo con quel modo tutto suo 
                  di parlarti. Eppure questo libro è un mondo completamente 
                  a parte rispetto al mucchio di cose che di Marco ho già 
                  letto. È quello più sofferto e difficile. È 
                  quello più meditato, come non accorgersi del grande lavoro 
                  di scavo e rifinitura. Ed è quello che somiglia decisamente 
                  meno al resto. Per dirne una, è molto meno racconto e 
                  molto più trascrizioni di dialoghi, che durano pagine 
                  e pagine lasciando poco posto alle fantasie personali di chi 
                  legge. È più facile farsi entrare in testa questa 
                  storia non tanto figurandosela come possa accadere giusto qui 
                  fuori di casa nel mondo reale, quanto in uno spazio teatrale 
                  o come fosse un film, o un qualchecosa che viene più 
                  facile immaginare dentro un televisore. Altra differenza, secondo 
                  me importante, è che qui dentro non sono stato capace 
                  di trovare della musica. Quella musica che, pur se in forme 
                  diverse, ha sempre caratterizzato fortemente tutte le storie 
                  di Marco che ho letto finora. Qua no. “L'osteria dei soprannomi” 
                  (ed. Chinaski, 15 euro) è per buona parte fatto di silenzi, 
                  e attraverso questi silenzi trasuda una parte importante della 
                  storia, quella “vera”, quella che dà il nome 
                  al libro. Silenzio in forma di episodi brevi che a un certo 
                  punto finiscono e lasciano mezza pagina vuota, per ricominciare 
                  daccapo appena a una ditata di distanza. Silenzio in forma di 
                  pagine scritte poco, giusto due righe, una citazione, una manciata 
                  di parole prese da altre bocche, messe lì in alto a guardare 
                  giù tutto il resto del foglio rimasto in bianco. Silenzio, 
                  soprattutto, in forma di puntini di sospensione messi tra una 
                  frase e l'altra, come se la storia si interrompesse un attimo 
                  a guardarsi intorno e cercare parole in testa, o a cercare respiro, 
                  a cercare un po' ossigeno in mezzo all'aria avvelenata. Silenzi 
                  come aggiustamenti del ritmo, oppure come indecisioni, come 
                  disorientamento. 
                  Le persone dentro a questa storia -mai così reali, così 
                  concrete, sembra di riconoscerle tutte- sono travestite da “personaggi”: 
                  ognuna ha per maschera un nome finto, un soprannome appunto. 
                  Una maschera a volte così improbabile e bizzarra che, 
                  come nella vita vera, nasconde per iperbole una verità 
                  troppo evidente. La storia si perde, riaffiora, gira l'angolo 
                  camminando veloce, giusto un momento prima che tu riesca a guardarla 
                  bene in faccia. Si arriva frastornati a pagina 228, e si appoggia 
                  il libro lì, a prendere polvere. Ma no, ecco che ritorna 
                  in mente... ma cosa si sono detti? Aspetta. E ti ritrovi poco 
                  dopo a riassaggiare il libro una briciola alla volta. A cercare 
                  un pezzetto di te dentro ogni pagina, disordinatamente. A rileggere 
                  i nomi dei capitoli, che sembrano titoli di canzoni, o nomi 
                  di poesie. 
                  Pino Masi 
                  Vacanze in Salento, quest'anno. Su QuiSalento (acquisto obbligatorio 
                  per chiunque non intenda trascorrere le serate chiuso in casa) 
                  scrivono che in un paese non distantissimo da dove siamo c'è 
                  un concerto di Pino Masi. Quello della ballata del Pinelli. 
                  Quello di “Quella notte davanti alla Bussola”. Quello 
                  di “Compagno sembra ieri”. Quello lì, insomma. 
                  Primo pensiero: ostrega, non ne ho più sentito parlare 
                  da trent'anni (attaccata come una coda a questa frase c'era 
                  una considerazione davvero sconveniente, che non trascrivo). 
                  Secondo pensiero: andiamoci, dai. Il posto è un circolo 
                  dell'Arci, piccolo ma tenuto bene, a Collepasso, circa a metà 
                  strada tra Maglie e Gallipoli. Mi resta impresso anche adesso 
                  il sorriso sorpreso con cui ci hanno accolto all'ingresso: in 
                  fin dei conti Lucia ed io eravamo solo due turisti ficcanaso 
                  capitati lì a chiedere informazioni di pomeriggio, mentre 
                  stavano pulendo il locale. Sì, è qui, è 
                  stasera. Quando ritorniamo c'è gente, la sala si riempie 
                  tutta poco dopo. 
                  Prima di Pino Masi c'è Giuseppe Santagada, un ragazzo 
                  salentino che canta (e pure bene, va detto) le canzoni di “Storia 
                  di un impiegato” accompagnandosi alla chitarra e con la 
                  collaborazione di un flautista. Sono rimasto favorevolmente 
                  impressionato da come, spesso nel corso della sua esibizione, 
                  Giuseppe si sia staccato da quella che poteva essere comunque 
                  un'onesta riproposizione, per metterci dentro un po' meno di 
                  De André e un po' più di se stesso, tirando fuori 
                  quella sua voce così piacevole, adattando le frasi e 
                  i respiri alla propria personalità. Penso sarebbe bello 
                  sentire anche canzoni scritte di suo pugno. Chissà. 
                
 
                   
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                    |   Pino Masi  | 
                   
                 
                
                  Pino Masi è una bestia strana: i suoi occhi hanno guardato 
                  da vicino quasi settant'anni di storia, li tiene spesso socchiusi 
                  ma quando ti guarda in faccia è come se ti passasse sul 
                  viso due punte da trapano. Quei quasi settant'anni di storia 
                  glieli ritrovi tutti in gola: una voce inaspettata e senza tempo, 
                  solida come un quattromila alpino (lui che è siciliano 
                  e cresciuto a Pisa, vai a dire) che contrasta con la carta geografica 
                  accidentata e ruvida che porta in faccia. 
                  Sono i contrasti, le sorprese, gli spiazzamenti che caratterizzano 
                  la serata. Non è un vero e proprio concerto, nel senso 
                  di ripetizione multipla della sequenza introduzione-canzone-applausi, 
                  quanto una specie di spettacolo di saltimbanchi, approssimativo 
                  e gioioso, davanti al quale si fa fatica a restare seduti (si 
                  starebbe meglio per strada). Sono davvero poche, due o tre forse, 
                  le canzoni eseguite per intero: Masi si interrompe, racconta, 
                  riprende la canzone dall'inizio o da una qualsiasi altra parte, 
                  si interrompe ancora, ci pensa sopra, racconta meglio. Immagino 
                  gli sia impossibile essere anche oggi un cantautore normale. 
                  Non lo è mai stato, un cantautore normale: lo direi piuttosto 
                  un sognatore a voce alta, un utopista irriducibile, uno che 
                  non ha mai smesso di avere voglia di provare a cambiare il mondo. 
                  Non me lo vedo né come monumento vivente alla Coerenza, 
                  né come personificazione della Memoria Storica, men che 
                  meno come jukebox del Bel Tempo Che Fu. 
                  Se Pino Masi fosse una cosa sarebbe un albero centenario con 
                  le radici affondate nel terreno e aggrappate ai sassi, alto 
                  coi rami forti che non hanno paura alcuna di vento pioggia o 
                  grandine dove trovano casa tutti gli uccelli canori del cielo. 
                  A fine serata resta a scambiare parole e strette di mano con 
                  tutti. È a un metro da te a sistemare la chitarra nella 
                  custodia con gli stessi gesti di un guerrigliero che ripone 
                  il fucile, mentre con la testa è già là 
                  dove sarà a cantare domani, o dopodomani. 
                 Marco Pandin 
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