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				 alternative 
                  
                A che punto è l'autoeditoria? 
                  
                di Claudia Vio 
                    
                La differenza tra autopubblicazione e autoeditoria non è solo linguistica. Il settore del self-publishing è in aumento, ma eterodirezione e mancanza di autodeterminazione sono i suoi limiti. L'autoeditoria può incrementare libertà di espressione e creatività, ma le esperienze dei singoli autoproduttori vanno aggregate. Per evitare che si disperdano. 
                 
                  Dopo quasi un decennio di attività, occorre fare un bilancio. 
                  A partire da un autoesame. Nel primo libro pubblicato con Unica 
                  Edizioni, nata nel gennaio 2006, davo fiato alle trombe della 
                  mia personale autoeditoria. “Unica Edizioni – scrivevo 
                  in una nota – risponde alla volontà di costruire 
                  l'opera letteraria oltre la scrittura, inglobando la produzione 
                  del testo e le forme della sua circolazione”. 
                  Poche righe per esprimere un concetto che ho ripetuto in varie 
                  circostanze, ma che vale la pena ribadire perché costituisce 
                  la chiave dell'autoeditoria. Andare oltre la scrittura 
                  significa intromettersi in tutto ciò che, in genere, 
                  autori e autrici pensano che non li riguardino. Mi riferisco 
                  a ciò che precede e che segue la pubblicazione di un 
                  libro: lo scopo per il quale pubblicarlo, la scelta dei destinatari, 
                  il modo di relazionarsi con i lettori, la vendita del prodotto-libro 
                  (come la decisione di non venderlo). Sono tutti aspetti sostanziali 
                  dell'editoria e tutti hanno a che fare con il pubblico: pubblicare 
                  significa infatti, nella sua essenza, rendere pubblico. 
                  La stampa è solo un mezzo, grazie al quale un autore/un'autrice 
                  entra in contatto con il suo pubblico potenziale. 
                  Dunque “pubblicare” non è sinonimo di “stampare”. 
                  Mentre stampare è facile per chiunque - basta rivolgersi 
                  a una tipografia - pochi autori invece riescono a “pubblicare”, 
                  ovvero a collegarsi a un pubblico. Questo dipende dal fatto 
                  che il complesso delle operazioni che sono connesse al pubblicare 
                  sono monopolio dell'editoria. Contrariamente a quanto comunemente 
                  si crede, infatti, il compito principale di un editore non risiede 
                  tanto nel produrre libri, quanto nel gestire la loro circolazione. 
                  Gli editori detengono il controllo della relazione autore-pubblico. 
                  Nella grande maggioranza dei casi selezionano gli autori tenendo 
                  d'occhio il pubblico, nella sua accezione di acquirente. Con 
                  indagini di mercato intercettano le preferenze degli acquirenti 
                  e su di esse orientano le loro scelte. Investono capitali nella 
                  pubblicità, cioè nelle varie forme con le quali 
                  il pubblico viene persuaso ad acquistare un libro. Attraverso 
                  gli editori passano – o non passano – i contenuti 
                  culturali. Il loro obiettivo è ottenere il massimo delle 
                  vendite, i profitti più elevati. 
                  Molta produzione, dunque, non accede all'editoria, perché 
                  non viene considerata interessante per il mercato. 
                  Le varie forme dell'autopubblicazione 
                Migliaia di “manoscritti” giacciono nei cassetti 
                  perché vengono rifiutati dagli editori. A volte si tratta 
                  di brutti libri, altre volte invece i libri sono scritti bene, 
                  ma l'editore li ritiene di scarso interesse per il pubblico. 
                  Spesso gli autori, respinti dagli editori, tentano di pubblicare 
                  comunque. Da qui il fiorire delle cosiddette autopubblicazioni, 
                  un fenomeno cresciuto enormemente nell'ultimo decennio. 
                  Il termine “autopubblicazione” è ambiguo, 
                  perché comprende realtà diverse. Facciamone una 
                  rapida carrellata. 
                  Stampare da sé in tipografia è la più tradizionale 
                  delle forme di “autopubblicazione”. Da sempre, il 
                  libro “pubblicato” in questo modo viene presentato 
                  dall'autore con la dicitura “stampato in proprio”, 
                  appunto perché non ha un editore. In genere, l'autore 
                  stampato in proprio non definisce se stesso come autopubblicato; 
                  egli pensa, giustamente, che “pubblicare” sia sinonimo 
                  di “editare”, se ne guarda bene perciò dal 
                  confondere le acque. Poiché non vuole ingannare il pubblico 
                  millantando un editore che non esiste, l'autore stampato in 
                  proprio si dichiara per quello che è: un autore senza 
                  editore. 
                  Nel Novecento l'autore stampato in proprio era una figura piuttosto 
                  comune, una sorta di controcanto malinconico degli esclusi dall'editoria. 
                  Esclusi dal rapporto con il pubblico, ovviamente, perché 
                  “gestire” la relazione con il pubblico è 
                  altra cosa da stampare ed è una competenza degli editori, 
                  come abbiamo detto. Autori solitari, ignoti, attorniati tutt'al 
                  più dalla cerchia ristretta degli amici e dei parenti. 
                  Una sorte un po' diversa hanno avuto le autoproduzioni generate 
                  dalle avanguardie artistiche e letterarie nei primi decenni 
                  del secolo, così come quelle nate dalla controcultura 
                  nella seconda metà del Novecento. Trattandosi di fenomeni 
                  collettivi, che hanno provocato un sensibile rinnovamento del 
                  linguaggio e del costume, queste autoproduzioni sono ancora 
                  oggi apprezzate e spesso conservano la loro natura refrattaria 
                  all'industria culturale e all'omologazione, con una forte carica 
                  di vitalità creativa. 
                  Anche i protagonisti delle autoproduzioni, come gli autori stampati 
                  in proprio, hanno sempre evitato di definirsi “autopubblicati”. 
                  In entrambi in casi c'è comunque una componente di radicalismo 
                  (la volontà di non essere confusi con la cultura commerciale), 
                  di elitarismo (la manifesta indifferenza verso il pubblico: 
                  autoprodurre è considerato un valore in sé), in 
                  qualche caso di deferenza verso l' “editoria vera”, 
                  dalla quale sotto-sotto si spera di essere scoperti e a cui 
                  ci si sente subalterni. 
                  Per l'autore esiste anche un'altra possibilità per “autopubblicare”, 
                  quella di pagare un editore che lo pubblichi. Questa forma di 
                  autopubblicazione contiene una mistificazione, perciò 
                  non viene mai rivelata come tale. Al pubblico si fa credere 
                  che l'autore goda dell'accredito di un editore. In realtà 
                  l'editore non ha investito un solo centesimo sull'autore, perché 
                  è stato pagato dall'autore stesso (nelle varie forme 
                  in cui ciò può avvenire: dal pagamento vero e 
                  proprio all'impegno per l'autore di acquistare un tot di copie 
                  o di comprare quelle invendute). 
                  Questa forma di autopubblicazione è invisa agli editori 
                  onesti, che la considerano a ragione una concorrenza sleale. 
                  L'editore a pagamento, a differenza degli altri, non rischia; 
                  attraverso l'autore si garantisce in partenza un profitto. Per 
                  gli autori che la praticano è un controsenso. L'editore 
                  pagato dall'autore non ha alcun interesse a cercare un pubblico, 
                  perché ha già il suo acquirente, l'autore. Si 
                  tratta di una pubblicazione senza pubblico. 
                  Infine, prima di parlare della forma di autopubblicazione oggi 
                  più in voga, il self-publishing, è opportuno menzionare 
                  anche il crowdfunding o “produzioni dal basso”. 
                  È un sistema di finanziamento collettivo – ovvero 
                  di una raccolta fondi - a sostegno di uno specifico progetto. 
                  I progetti possono essere i più vari, dalla costruzione 
                  di un asilo alla realizzazione di una ricerca scientifica, da 
                  un'emergenza umanitaria a un evento sportivo. Si tratta senz'altro 
                  di una forma eccellente di “finanziamento dal basso”. 
                  Il crowdfunding viene usato anche da alcuni autori per pubblicare 
                  un proprio libro. Con il crowdfunding essi raccolgono il denaro 
                  necessario per pagare un editore che li pubblichi. I loro libri 
                  sono dunque autoprodotti? Appartengono alla dimensione dell'autoeditoria? 
                  Gli autori ritengono di sì, perché questa pratica 
                  è chiamata “produzioni dal basso” (si veda 
                  il sito al riguardo). 
                  Io credo invece di no. Dal basso proviene solo il denaro, che 
                  però viene immesso in un sistema di editoria a pagamento. 
                  È un peccato, perché l'aspetto positivo del crowfunding, 
                  cioè la condivisione dell'iniziativa, viene inghiottito 
                  nel solito tritacarne. 
                  Self-publishing? No grazie 
                Nell'ultimo decennio il “self-publishing” è 
                  diventato di moda. È una modalità di autopubblicazione 
                  legata da un lato alla possibilità, offerta dall'informatica, 
                  di “creare” un libro con pochi semplici passaggi, 
                  dall'altro, di rendere “disponibile” il libro a 
                  un pubblico planetario grazie al web. 
                  Il self-publishing si sta affermando con l'aggressività 
                  tipica delle battaglie commerciali per la conquista del mercato. 
                  Ha rapidamente assorbito il concetto di “autoproduzione”, 
                  di cui spesso si presenta come sinonimo, e ha spazzato via gli 
                  “stampati in proprio”, dinosauri dell'epoca del 
                  cartaceo. I siti di self-publishing dichiarano di essere “un 
                  modo per pubblicare senza ricorrere a un editore”. Come 
                  vedremo, usano il termine “pubblicare” in modo ingannevole. 
                  Uno dei siti di self-publishing più noti è ilmiolibro.it, 
                  tra i più fortunati c'è lulu.com, ma ve 
                  ne sono molti altri. Tutti funzionano più o meno nello 
                  stesso modo: l'autore accede alla piattaforma on-line del sito 
                  dove trova disponibile, già nella homepage, un software. 
                  Di solito il software non si presenta come tale: esso compare 
                  con la dicitura “Crea il tuo libro” (in evidenza) 
                  con un link sottostante da cliccare: “Inizia subito”. 
                  Cliccando sul link l'autore inizia a “creare” il 
                  proprio libro, nel senso che lo compone, guidato passo passo 
                  dal software. Sceglie il formato, la rilegatura, l'immagine 
                  di copertina, inserisce il testo. L'intera procedura è 
                  gratuita. Alla conclusione di tutti questi passaggi, con un 
                  “clic” di conferma il libro risulta “fatto”. 
                  Il software ha creato automaticamente il libro. 
                  I siti di self-publishing enfatizzano due aspetti allettanti 
                  della loro offerta: la possibilità di “pubblicare 
                  senza un editore” e, per l'autore, di “esprimere 
                  se stesso liberamente”. L'editore è dipinto come 
                  il grande nemico della creatività individuale, l'ostacolo 
                  che impedisce all'autore-creatore di raggiungere il pubblico. 
                  In parte ciò è vero. Come abbiamo detto prima, 
                  l'editore ha il monopolio del rapporto con il pubblico. Ma non 
                  è vero che il self-publishing non abbia un editore, ce 
                  l'ha eccome. E non è vero che l'autore guadagni qualche 
                  fetta di libertà con il self-publishing. Tanto per fare 
                  un esempio, il sito ilmiolibro.it appartiene al Gruppo 
                  Editoriale l'Espresso, lo stesso di Repubblica per intenderci. 
                  Lorenzo Fabbri, ideatore del sito ilmiolibro.it, enuncia 
                  i dettami della nuova editoria in una intervista rilasciata 
                  a Rosalba Rattalino (www.inuk.it). La sua filosofia è 
                  la stessa di lulu.com, creato da un imprenditore canadese, 
                  Bob Young, il quale ha intravisto nell'autopubblicazione le 
                  possibilità di un affare planetario grazie a questo principio 
                  ispiratore: “il successo non è fatto da 100 libri 
                  che vendono 100 mila copie, ma da 100 mila libri che vendono 
                  100 copie ognuno”. I centomila libri che vendono cento 
                  copie ognuno corrispondono ai centomila autori autopubblicati 
                  (ciascuno con qualche decina di copie), in contrapposizione 
                  ai pochi autori selezionati (i 100 libri) per ciascuno dei quali 
                  l'editoria tradizionale si sforza di ottenere il massimo delle 
                  vendite (100 mila copie). 
                  Dunque l'editore esiste. Però non compare nei siti di 
                  self-publishing. Questi siti forniscono pochissime informazioni 
                  su di sé, in genere contengono solo le istruzioni per 
                  “autopubblicare”. Non si sa a chi appartengano, 
                  né da chi sia formata la redazione. Si presentano con 
                  il volto dell'immediatezza (pubblicare subito). Questa 
                  immediatezza viene attribuita al mezzo tecnologico. L'utente 
                  si convince di poter scavalcare in un balzo gli ostacoli posti 
                  dall'editoria in virtù di un mezzo tecnologico, il software, 
                  e di internet, che metterà il suo libro “pubblicato” 
                  a disposizione di un pubblico oceanico. 
                  In realtà il libro generato usando il software del sito 
                  non è affatto “pubblicato”. Esso è 
                  solo potenzialmente pubblico, nel senso che può essere 
                  conosciuto dal pubblico a condizione che l'autore acquisti una 
                  serie di servizi, dall'inserimento in una libreria on-line, 
                  al messaggio promozionale, dalla stampa di un tot di copie su 
                  richiesta all'iscrizione a una community. L'insieme di questi 
                  servizi editoriali, gestiti dal sito, rende evidente il fatto 
                  che, ancora una volta, l'editore è il vero intermediatore 
                  fra l'autore e il pubblico. L'autore che “pubblica” 
                  se stesso con il self-publishing non rinuncia all'editore, al 
                  contrario ne esalta il potere. Ciò a cui rinuncia l'autore 
                  è sottoporsi al giudizio di un editore, positivo o negativo 
                  che sia. Egli aggira l'ostacolo dell'editore (apparentemente), 
                  per infilare la testa nel cappio di un'editoria che è 
                  esclusivamente commerciale e sostanzialmente identica all'editoria 
                  a pagamento. 
                  Per inciso, osserviamo un altro aspetto del self-publishing. 
                  La smaterializzazione dell'oggetto-libro, insieme alle potenzialità 
                  comunicative del web, spinge l'editoria a spostarsi dalla produzione 
                  del manufatto (tipica del cartaceo) alla fornitura di servizi. 
                  In effetti, alcuni siti di self-publishing sono gestiti da tipografie 
                  e il confine fra l'editoria degli editori e l'editoria dei grafici 
                  si fa sempre più incerto. Tutti questi siti puntano sulla 
                  “libertà creativa” dell'utente, che però 
                  è solo un'espansione della soggettività; essa 
                  non ha niente a che vedere con la libertà intesa come 
                  autodeterminazione, che invece è minima, perché 
                  il potere economico e il controllo della comunicazione restano 
                  ben saldi nelle mani dell'editore o delle agenzie editoriali. 
                  Strategie comunicative dell'autopubblicazione 
                Come ho detto, i siti di self-publishing puntano sull'immediatezza 
                  del risultato (pubblica subito!), che coincide con l'automatismo 
                  (per pubblicare basta un clic). L'immediatezza viene presentata 
                  come un elemento innovativo, in contrapposizione con la lentezza 
                  della carta stampata del passato. I giovani, soprattutto, sono 
                  i più propensi a cercare un'espressione di libertà 
                  attraverso il self-publishing, perché facilmente credono 
                  di vivere una svolta tecnologica epocale. In altre parole, la 
                  tecnologia viene presentata come portatrice di libertà; 
                  il software sostituisce la politica. 
                  Oltre all'immediatezza, i siti di self-publishing puntano molto 
                  sulla personalizzazione. L'utente del sito viene sollecitato 
                  a “creare” il libro seguendo le proprie preferenze. 
                  La gamma delle possibilità offerte dal software è 
                  limitata, ma è comunque sufficiente a generare la sensazione 
                  di produrre secondo i propri desideri, anche perché l'utente 
                  collabora attivamente al lavoro “interagendo” con 
                  il mezzo tecnologico. 
                  La personalizzazione del prodotto e l'interazione sono una tendenza 
                  che si va affermando rapidamente anche al di fuori del mondo 
                  del self-publishing. Il prosumer (il produttore-consumatore) 
                  è il nuovo obiettivo del marketing, in sostituzione del 
                  “consumatore passivo”. Il prosumer o l'“autore-consumatore” 
                  è il nuovo vessillo della libertà contro la massificazione. 
                  Il web – si sostiene – è “orizzontale 
                  e democratico”. In realtà il massimo di soggettività 
                  va di pari passo con il massimo controllo autoritario della 
                  comunicazione. 
                  Da questo punto di vista il self-publishing è tristemente 
                  interessante non solo perché è una forma aggiornata 
                  di editoria a pagamento, ma perché è la spia di 
                  uno spostamento del sistema di potere dalla produzione di beni 
                  alla produzione di servizi, dove è cruciale il controllo 
                  della comunicazione. Paradossalmente, ma mica tanto, i veri 
                  grandi editori sono i motori di ricerca. Tra tutti, Google. 
                  Sta digitalizzando intere biblioteche in tutto il mondo. Oggi 
                  i libri digitalizzati vengono offerti in lettura gratuitamente, 
                  domani si dovrà pagare l'accesso ai libri. E forse pagare 
                  potrebbe non essere sufficiente. 
                  Ciò significa che si sta spostando il baricentro del 
                  potere e che, da gerarchico e piramidale, sta prendendo una 
                  forma diffusa, capillare, atomizzata. Non solo. Mentre nel mondo 
                  del “cartaceo” il rapporto fra il lettore e il libro 
                  è oggettivato perché l'oggetto-libro viene percepito 
                  dal lettore come qualcosa di diverso da sé, ciò 
                  non avviene nel mondo digitale gestito dall'industria culturale. 
                  Qui il rapporto fra l'oggetto e il soggetto appare “fisiologico”. 
                  I nativi digitali sono le vittime ideali di questa nuova dimensione. 
                  Essi percepiscono lo strumento digitale come un'estensione di 
                  sé, del proprio corpo. Manca quella separatezza dal prodotto, 
                  che suggerisce un minimo di spirito critico. I nativi digitali 
                  non si interrogano su ciò che stanno facendo mentre interagiscono 
                  con il software. 
                  Osserviamo: da una parte c'è un individuo, con la sua 
                  aspirazione a comunicare, desideroso di “esprimere se 
                  stesso”, animato dal desiderio di creare qualcosa di personale 
                  e originale. Dall'altra c'è un'entità incognita, 
                  anonima, cioè il sito di self publishing, che lo pilota. 
                  Che governa quelle pulsioni. L'individuo è completamente 
                  eterodiretto, proprio mentre crede di esprimere il massimo di 
                  autodeterminazione. 
                   Infine 
                  notiamo un altro aspetto preoccupante, la perdita del principio 
                  dell'alterità, del dissenso. Quando dico che l'autopubblicazione 
                  ha divorato l'autoproduzione non mi riferisco a un mero fenomeno 
                  linguistico (che comunque non è mai a se stante). Intendo 
                  dire che la propaganda del self-publishing ha fatto proprie 
                  anche le parole d'ordine della controcultura, a cui addirittura 
                  si richiama, a volte, e di cui si autoproclama erede. Svuotata 
                  del suo orizzonte contestatario, la controcultura viene usata 
                  per manipolare le aspirazioni alla libertà. Tant'è 
                  che oggi chi pubblica in self-publishing lo dice apertamente 
                  e ne è orgoglioso. 
                  Cos'è l'autoeditoria, cosa vorrei che fosse 
                Dire cos'è l'autoeditoria significa descrivere un paesaggio 
                  che sta in bilico fra quello che già esiste e ciò 
                  che si vorrebbe che esistesse. 
                  L'autoeditoria è l'editoria degli autori e delle autrici 
                  che autogestiscono l'intero processo collegato alla creazione 
                  e diffusione del libro: dalla sua realizzazione come manufatto 
                  (cartaceo o digitale, manuale o stampato in tipografia) alla 
                  sua circolazione. Il termine non va inteso in chiave autoriflessiva 
                  (mi pubblico da me), ma di autogestione. Nell'autoeditoria 
                  tutte le decisioni che contano fanno capo all'autore, che perciò 
                  si propone anche come editore. La figura dell'editore non viene 
                  affatto cancellata. Essa contiene le funzioni decisionali più 
                  importanti che riguardano la circolazione dei contenuti. L'autoeditore 
                  non le delega ad altri, se ne fa carico. 
                  Da questo punto di vista l'autoeditoria è parente stretta 
                  dell'autoproduzione e certamente ingloba lo stampato in proprio. 
                  Non ha niente a che spartire invece con il self-publishing, 
                  dove l'autore ha compiti editoriali insignificanti e comunque 
                  scorporati dal processo editoriale complessivo. Ovviamente è 
                  anche lontanissima dall'editoria a pagamento. 
                  Questa autoeditoria esiste. Da molti anni la praticano i Troglodita 
                  Tribe, con la loro Editoria Casalinga Interstellare, e la Casa 
                  Editrice Libera e Senza Impegni. Entrambi sono attivi soprattutto 
                  sul versante dell'autoproduzione di libelli fatti a mano, sempre 
                  con materiali di riciclo. Sul versante della scrittura esistono 
                  da tempo la rivista Edizione dell'Autrice e la sottoscritta. 
                  Altri si sono aggiunti negli ultimi anni, come Lieve Malore 
                  ad esempio, testimoniando una grande vitalità dell'autoproduzione. 
                  Tuttavia le esperienze dei singoli soggetti che autoproducono, 
                  benché sempre più numerose, andrebbero disperse 
                  se non si fosse fatto lo sforzo di aggregarle, creando occasioni 
                  d'incontro e di scambio. Ricordiamo a Venezia, nel 2007, il 
                  primo tentativo di riunire le forze locali con “Aut Aut”, 
                  una rassegna di autrici e autori autoprodotti organizzata da 
                  Unica Edizioni e Scoletta dei Misteri di Antonella Barina. Gli 
                  eventi collettivi sono proseguiti con gli incontri annuali di 
                  “M'Editare”, di Edizione dell'Autrice, e con altri 
                  eventi organizzati da Unica Edizioni, come la rassegna “Dopo 
                  l'ultima parola” presso il teatro Fuori Posto di Mestre 
                  nel 2010 o presso l'Ateneo degli Imperfetti di Marghera nel 
                  2010-2011. 
                  Tra le iniziative nate per collegare gli autoproduttori, Liber 
                  – I Libri Liberi è quella che meglio esprime l'idea 
                  di un'autoeditoria libertaria. L'annuale salone milanese, nato 
                  nel 2011 per volontà della Casa Editrice Libera e Senza 
                  Impegni e di Edizioni Pratiche dello Yajè, è appunto 
                  autoprodotto, autogestito e autofinanziato, oltre che organizzato 
                  secondo una logica di rapporti non gerarchici. Liber si è 
                  rivelato uno straordinario propulsore per l'autoproduzione, 
                  contribuendo a diffonderne il linguaggio e la filosofia, come 
                  dimostra il moltiplicarsi di nuovi autoproduttori, ispirati 
                  da ciò che hanno visto a Milano e già capaci di 
                  portare un contributo originale. 
                  Ma, dobbiamo sottolinearlo, nemmeno questo è sufficiente. 
                  Non basta creare eventi collettivi, benché rigorosamente 
                  autogestiti, autoprodotti e autofinanziati. È necessario 
                  anche creare un circuito che sia anch'esso autogestito, autoprodotto 
                  e autofinanziato (giova ripeterlo), perché il terreno 
                  dove si gioca il rapporto fra autorità e libertà 
                  è proprio quello della circolazione del libro, più 
                  che la sua confezione. Si faccia caso a quanto è accaduto 
                  dopo il primo Liber. Esso ha attirato l'interesse di associazioni 
                  che ora riprongono fiere o saloni di libri autoprodotti nelle 
                  loro città. Il libro autoprodotto piace. È gioioso, 
                  accessibile e, a differenza dei tradizionali “libri d'artista”, 
                  non rinuncia mai al suo valore d'uso, pur restando un prodotto 
                  unico e bellissimo. Non nasce per finire dentro una bacheca. 
                  E può essere “imitato”, infatti gli autori 
                  di libri autoprodotti insegnano come farli. 
                  Ma, è questo il punto che mi preme sottolineare, le associazioni 
                  culturali che organizzano fiere analoghe a Liber, non si muovono 
                  nella filosofia dell'autoproduzione. Si collocano come intermediatori 
                  culturali nel processo editoriale della circolazione del libro. 
                  Godono di finanziamenti considerevoli, perché spesso 
                  hanno il sostegno finanziario del Comune e dei privati. Certo, 
                  servono a far conoscere i libri autoprodotti, ma in parte ne 
                  mutilano l'essenza. L'intenzionalità politica dell'autoeditoria 
                  viene decapitata e con essa, a ben guardare, anche la sua vitalità. 
                  Proprio per non delegare a terzi l'autoproduzione del circuito, 
                  negli ultimi due-tre anni si è cercato di creare almeno 
                  due poli di circolazione: Milano e Venezia. Così la rassegna 
                  Fare Libri Liberi, organizzata con l'Ateneo degli Imperfetti 
                  di Marghera, e con lo sforzo notevole degli ospiti partecipanti, 
                  ha consentito di scavare un primo solco. Il sostegno di A Rivista 
                  Anarchica è prezioso, perché consente di dare 
                  diffusione agli eventi e di mantenere nel tempo la continuità 
                  dell'ispirazione libertaria. 
                  Quest'anno si prosegue a Mestre con l'“Atelier dell'altra 
                  editoria” presso Casa Bainsizza, con la collaborazione 
                  del Gruppo di Lavoro Via Piave, un'associazione di promozione 
                  sociale che da alcuni anni lavora in un quartiere difficile. 
                  Il Liber-salone sarà presente all'Atelier, in trasferta 
                  per così dire. È questa un'occasione per potenziare 
                  la valenza sociale dell'autoeditoria, senza la quale essa rischia 
                  di diventare una variante eccentrica del mercato editoriale. 
                  Ma è necessario anche affrontare il web. Comprendere 
                  la natura e la dinamica di potere che si sta realizzando attraverso 
                  di esso. Il gruppo Ippolita ha scritto testi eccellenti al riguardo, 
                  che l'editrice Eleuthera è stata la prima a pubblicare. 
                  Occorre considerare il mezzo tecnologico e utilizzarlo a un 
                  fine libertario. E qui il lavoro è tutto da fare. 
                 Claudia Vio 
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