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                  Jéromine, adolescente muta 
				  Nel 2013, Philippe Godard, autore di libri politici per giovani lettori, saggista e relatore in diverse scuole francesi su svariati temi come: pedagogia, internet, violenza, ha incontrato una ragazza muta di quindici anni. Hanno “lavorato” insieme sul suo mutismo, sul suo futuro, sulla violenza in generale (...) da questa esperienza ha cercato di trarre alcune riflessioni che mi sono sembrate rilevanti da un punto di vista politico e antropologico. 
                 A.S. 
                Tutto è successo in una scuola francese, situata in 
                  una “zona di educazione prioritaria”, una denominazione 
                  statale dei dispositivi destinati ad “aiutare” i 
                  giovani delle “banlieues”, dei quartieri difficili, 
                  come dicono i giornalisti e i politicanti – meglio dire 
                  i quartieri poveri, dove i poveri sono costretti a vivere. In 
                  questa scuola, nel novembre del 2012, sono state lanciate due 
                  piccole bombe, con la sola conseguenza di aumentare il livello 
                  di brutalità all'interno della scuola, ovvero sono aumentate 
                  le tensioni tra adulti (professori e amministrazione), la violenza 
                  tra alunni, ed anche più in generale la brutalità 
                  dei rapporti tra adulti e alunni. 
In quest'atmosfera, ho proposto, in quanto autore di libri “politici” per la gioventù, di lavorare sulla violenza con nove alunni ritenuti i più violenti della scuola da parte dei professori. Una di questi nove “hooligans” era molto strana. Non parlava. Qui, la chiameremo Jéromine. 
Jéromine è un'adolescente muta. È perfettamente “normale”, intelligente e sensibile. Ma non dice assolutamente niente. Forse racconta bugie? Nel collegio si dice, infatti, che Jéromine parla, ma solo per insultare sua madre al telefono una volta al mese – Jéromine non vive con i suoi genitori ma in una famiglia che accoglie due altre ragazze come lei, che vivono senza famiglia. Ma Jéromine mi dice – o piuttosto mi scrive perché, con lei parlo solo io e lei mi risponde scrivendo – che no, non parla mai, compreso a sua madre. Forse gli adulti della scuola cercano di rassicurarsi, pensando che Jéromine parli qualche volta... 
Io non volevo sapere se fosse vero che Jéromine parlasse a sua madre o no. Non ho voluto vedere la sua cartella medica e psicologica. Per me, Jéromine non è una malata né una deviante. Una cosa però è sicura, a scuola non parla e volevo capire perché, e se, per Jéromine, era possibile sopravvivere in quest'ambiente di brutalità senza parlare, senza affermare le sue idee, la sua volontà. 
Soprattutto volevo capire quale fosse il costo del suo silenzio e i vantaggi di questa sua scelta. 
Molto presto, ho sentito un forte disturbo nei miei colloqui con Jéromine. Il malessere non scaturiva dall'adolescente, neanche dal suo mutismo. 
I colloqui erano quasi piacevoli. Jéromine era contenta di venire, e scriveva ciò che voleva dire in risposta alle mie domande orali. Il disturbo stava altrove. Era mio, e non di Jéromine. 
                  Il mutismo di Jéromine m'interrogava sull'essere umano 
                Si dice che l'umano è un animale che parla. Nella scuola, tutti gli adulti volevano che lei parlasse. Non lo dicevano, ma forse, per tutti, un essere umano che non parla non è completamente umano e a Jéromine manca la parola, che sarebbe appunto la caratteristica principale dell'essere umano. 
Io sono stato forse il primo che non voleva che Jéromine parlasse. Per me la cosa più importante era capire perché non parlasse, non per fare il “poliziotto della mente”, ma perché mi sembrava molto strano vivere senza parlare. E quindi come avrei potuto aiutare questa ragazza? Noi che siamo considerati i “normali”, abbiamo fatto qualcosa per aiutarla? 
Il mio malessere non era lo stesso degli altri adulti. Per me, un essere umano che non parla è umano. Senza dubbio. Ma rimane la questione del potere di questa ragazza sulla sua vita: un essere umano che non parla non può dire “IO”. Non può esprimere la sua volontà – l'“io” è politico! Per esistere (almeno in parte) in questo sistema, è necessario dire “IO”: “Io voglio... ”, “io non voglio... ” Certo, sappiamo che questo volere si urta con lo Stato, che ha il potere di negare le nostre volontà. Volere è, in realtà, dire ciò che lo Stato tollera. Se “vogliamo” consumare, il Sistema dice di si, ma se non vogliamo iscrivere i ragazzi a scuola, il Sistema dice di no. Jeromine non parla e si difende con i pugni nel cortile della scuola, ma questa non può essere la soluzione neanche per lei, che mi ha scritto che non le piace la scuola a causa della violenza. 
 
“Ma, allora, perché non parli, Jéromine? – Perché non oso”, mi ha scritto. O c'è un'altra causa, forse più profonda? Scrive Jéromine: “Voglio che qualcuno si prenda cura di me.” Vuole avere due bambini, une figlia e un figlio. Vuole vivere in maniera “normale”, ma non osa parlare. Eppure, scrive ancora che parlare renderebbe la sua vita “più facile”... 
 
Jéromine vuole essere come le altre ragazze, mi sembra che voglia anche essere un “IO”. Un “IO” che non parla. Un individuo silenzioso. Contraddizione? Non tanto, in realtà. Perché cosi Jéromine è un individuo particolare e unico. 
Nella scuola è conosciuta come “la ragazza che non parla”. Forse il suo mutismo viene da un trauma dell'infanzia, forse fu violata da suo padre (che è in galera), e il suo mutismo potrebbe essere una forma di riparazione simbolica che la farebbe considerare come unica in una scuola di 800 alunni, dove la violenza e gli scontri tra comunità sono la regola quotidiana. 
                  Una tra tante 
                Il mutismo di Jeromine è la sua unicità sia nella 
                  scuola che nella famiglia che cerca di accoglierla. Volendo 
                  far parlare Jéromine non ci accorgiamo che la stiamo 
                  spingendo a diventare una tra le tante altre ragazze, una “persona 
                  vera”, secondo i nostri criteri, una persona tra milioni 
                  di altre secondo ciò che Jéromine prova. Una persona 
                  completa per noi, una persona che non sarebbe nessuno secondo 
                  lei. 
                  Essere un umano e, allo stesso tempo, non essere una persona? 
                  Il “pedagogo” – non gli piaceva questa classificazione– 
                  Ferdinand Deligny (1913-1996) diceva che l'individuo era sacrificato 
                  al soggetto: quando l'individuo si abolisce, diviene soggetto. 
                  Deve abolirsi per divenire soggetto. Questo è il “problema” 
                  di Jéromine: se parla, dirà “IO”, 
                  sarà soggetto, ma perderà la sua individualità 
                  perché diverrà una ragazza tra miliardi di altre 
                  ragazze: sono miliardi infatti le ragazze che parlano... 
                  Jéromine ha visto che il mondo non è come si potrebbe 
                  sognare. Ora, deve determinarsi: partecipare a questa tragedia 
                  (per lei più ancora che per il mondo in generale, perché 
                  il suo mondo interiore è devastato), o rifiutare di partecipare. 
                  Forse non conosce tutte le regole. Non sa che il rischio di 
                  “finire” in un'istituzione di tipo terapeutico o 
                  d'inserimento sociale diviene più grande ogni giorno 
                  proprio perché non parla. Gli ho detto che, per avere 
                  una vita più facile dovrebbe parlare – e Jéromine 
                  mi ha scritto che sì, lo sa. E dopo però cosa 
                  succederà? 
                  Lo sguardo della società sui “devianti” dovrebbe 
                  cambiare, e forse parlare degli “anormali” potrebbe 
                  far cambiare la società? Non credo, perché, in 
                  realtà, la questione è legata al potere. È 
                  “anormale” l'individuo che non può dire “IO” 
                  o non può rivendicare un “IO” che sia chiaro, 
                  con tutto l'intelletto che esige la società. Gli “anormali” 
                  non hanno nessun potere, e lo Stato organizza la loro privazione 
                  di potere nel diritto e nella vita quotidiana. 
                  Siamo noi, gli individui – che dobbiamo cambiare il nostro 
                  sguardo, perché lo Stato non lo cambierà; perché 
                  significherebbe rinunciare alla sua prerogativa di fare discriminazioni 
                  definitive tra individui accettabili sul piano sociale, ed individui 
                  non accettabili. Lo Stato vuole individui che siano solo soggetti. 
                  Ma Jéromine, mi sembra, ed anche noi libertari invece 
                  vogliamo tutto: essere soggetti e dunque avere il micro potere 
                  di affermare il nostro “IO”, ed anche essere individui 
                  che vivono in un “collettivo”, la società. 
                  Non nello Stato. Solo nella società umana. 
                 Philippe Godard 
                  (libera traduzione di Andrea Staid) 
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