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				 pena capitale 
                  
                L'ultimo pasto  dei condannati a morte 
                  
                di Luigi Botta / foto Henry Hargreaves 
                
                Un fotografo neozelandese, che ha scelto il cibo come suo focus, realizza 12 scatti ricostruendo quel che hanno chiesto di mangiare altrettanti detenuti prima di essere uccisi. Li presenta alla Biennale di Venezia 2013. Lo storico Luigi Botta introduce il suo lavoro e lo intervista. 
                 
                  In memoria di Vincenzina Vanzetti 
                  nel ventennale della sua morte 
                Johnny Ray Conner, 32 anni, un nero convertito 
                  all'Islam dietro le sbarre, chiede al guardiano del penitenziario 
                  di Huntsville, Texas, il permesso di poter parlare più 
                  a lungo rispetto ai consueti due minuti che vengono assegnati 
                  ai condannati a morte per le loro ultime dichiarazioni. Deve 
                  finire i suoi giorni di lì a un nonnulla, infilzato da 
                  una flebo che coi suoi tre veleni lo manda al creatore in pochi 
                  istanti. 
                  Gli concedono tre minuti. Uno in più del solito. Ha dinnanzi 
                  a sé, dietro la vetrata che divide la camera della morte 
                  dalla cella di osservazione che ospita i testimoni, Marie, figlia 
                  di Kathy Ann Ngyuen, la commessa di un supermercato di Houston 
                  uccisa il 17 maggio 1998 nel corso di una banale rapina andata 
                  a male. La donna aveva 49 anni. Johnny, a quell'epoca, era giovane. 
                  Aveva 23 anni. I giudici del tribunale giudicante, di quella 
                  rapina, hanno ritenuto di dover accusare lui. Così pure 
                  dell'omicidio della donna. 
                  Si era trattato di un colpo solitario, compiuto probabilmente 
                  per un «drink», in parte forse già sorseggiato 
                  lungo le corsie del supermercato e poi posato sul bancone della 
                  cassa. Con la confezione aperta. Kathy Ann, che non è 
                  una sprovveduta e bada alla sua vita, attende i clienti dietro 
                  un vetro antiproiettile. Una piccola apertura serve a far transitare 
                  i prodotti e ad effettuare il pagamento. È da quella 
                  apertura che improvvisamente spunta un revolver calibro 32. 
                  Kathy Ann neppure lo vede, perché nel medesimo momento 
                  entra Julian Gutierrez, un avventore che intende pagare la benzina 
                  che ha prelevato dalle pompe poste sul piazzale esterno. Ha 
                  le banconote in mano. Varcata la soglia sente intimare, non 
                  sa se a lui o alla cassiera, «Dammi tutti i tuoi soldi». 
                  L'arma da fuoco gli viene puntata contro. Molla il denaro e 
                  fugge. Parte un colpo che gli trapassa il petto e il braccio. 
                  Altri due colpi subito dopo raggiungono Kathy Ann al capo. Il 
                  malvivente, passato l'impeto omicida, scappa. Senza raccoglier 
                  nulla. La polizia interviene e trova sul pavimento i soldi e 
                  il succo di frutta in bottiglietta. Sulla confezione vengono 
                  rilevate due impronte. Una appartiene a Conner. Nulla di strano. 
                  Perché in quel supermercato, lui, Johnny, ci va comunemente. 
                  L'altra ad altro, non identificato. L'impronta di Conner è 
                  ritenuta sufficiente. Così il ventitreenne viene incastrato. 
                  I testimoni non sono risolutivi. Hanno sentito gli spari e solo 
                  visto un giovane fuggire. Di colore. Corsa veloce. Camicia bianca. 
                  Chi col cappello e chi senza. Le certezze sono poche. Eppure 
                  lui, Johnny Ray Conner, seppure continui a dichiararsi innocente 
                  e in molti -non soltanto la difesa- sostengano la sua tesi, 
                  è condannato. A morte. 
                
                   
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                    |   La figura del pittore rinascimentale italiano Arcimboldo  elaborata per il New York Times sovrapponendo e  affiancando bonbon, caramelle, biscotti, croissant,  frutta candita e pasticceria colorata  | 
                   
                 
                 Il 22 agosto 2007, in pieno pomeriggio, Johnny è disteso 
                  sul lettino. Il sole alto in cielo non fa filtrare i suoi raggi 
                  nei locali seminterrati, privi di finestre. Davanti a lui il 
                  boia. Tutt'intorno sopravvive la ritualità della pena 
                  capitale. Conner ha il suo solito sguardo triste, quello di 
                  natura, da bambino un po' invecchiato, con gli occhi che si 
                  perdono nel vuoto. Al fianco di Marie c'è Katherine Le, 
                  sorella di Johnny; poco distanti sono i mariti delle due donne, 
                  che osservano in modo un po' più defilato quel che succede. 
                  Conner chiede loro di indicare la figlia della vittima, in modo 
                  da potervi fare conoscenza. Non l'ha mai vista prima. Le chiede 
                  di guardarlo: «Io voglio che tu mi capisca -dice- non 
                  voglio che tu abbia alcuna animosità contro di me». 
                  E continua: «Io non sono arrabbiato con te. Anche se non 
                  mi conosci, ti amo. Chiedo al tuo cuore di perdonarmi». 
                  Marie annuisce con la testa. Fissa il muro e non guarda Conner, 
                  anche se lui più volte cerca il suo sguardo. 
                  «Quello che mi sta accadendo è ingiusto -continua 
                  Johnny-, il sistema è rotto». Lo dice da non colpevole 
                  destinato a finire i suoi giorni nei prossimi minuti. Tuttavia 
                  chiede ai suoi parenti di perdonarlo e di accettare la sua esecuzione. 
                  «Non volevo farvi del male -sostiene infine con la voce 
                  rotta-. Continuate a vivere la vostra vita e non siate arrabbiati 
                  per ciò che mi sta accadendo. Questo è il destino. 
                  Questa è la vita. Questa è la cosa che devo fare. 
                  Allah mi vuole a casa». Parla poco meno di tre minuti 
                  e sembra aver concluso la sua dichiarazione. Il sodio pentotal, 
                  il primo dei tre veleni, comincia a entrare in circolo. Poi 
                  Johnny si riprende per un attimo, sottovoce: «Io ti amo 
                  e ...» perde conoscenza. Le due donne, entrambe vittime 
                  innocenti, unite nel dolore, piangono. Il cloruro pancuronium 
                  gli paralizza i muscoli per evitare contorcimenti sgradevoli 
                  alla vista. Il bromuro di potassio gli ferma il cuore. Otto 
                  minuti dopo è già passato oltre. Viene dichiarato 
                  morto alle 18,20. Finisce in orario. Rispetta i tempi della 
                  legge, oltreché i modi. È un condannato a morte 
                  che non ha fatto capricci, come molti altri che si sono dimenati, 
                  o peggio, ed hanno reso impossibile l'opera del boia. Su Huntsville 
                  c'è una cappa di calore che non ha eguali negli ultimi 
                  cinquant'anni. Ci sono più di 105 gradi Fahrenheit. I 
                  bambini si spruzzano addosso l'acqua delle pompe. 
                  Il medico, nel suo rito di sempre che mostra tutta la noia del 
                  mestiere, stila il referto; l'impresa di pompe funebri concorda 
                  a parte il funerale coi parenti. La giustizia ha fatto il suo 
                  corso. Sei giorni dopo, sempre lì, è il turno 
                  di Daroyce Mosley, sette giorni dopo di John Amador ed otto 
                  giorni dopo di Kenneth Foster, accusato, quest'ultimo, di aver 
                  ospitato in auto un individuo prossimo a commettere un omicidio. 
                  Sì, sì, solo ospitato. Viene mandato sulla sedia 
                  elettrica, agli effetti pratici della giustizia texana, perché 
                  «non poteva non sapere». 
                
                   
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                    |   Torta ritratto glassata di Mao Zedong  | 
                   
                 
                 
                Grandissima capacità di scelta culinaria 
                Quella di Johnny Ray Conner, non colpevole e dichiaratosi innocente 
                  (c'è anche una richiesta di revisione del processo da 
                  parte di un giudice federale, richiesta che non fa il suo corso), 
                  è la quattrocentesima esecuzione dalla reintroduzione 
                  della pena capitale in Texas nel 1982. L'Unione Europea nell'occasione 
                  invita il governatore Rick Perry a cessare la pratica delle 
                  esecuzioni. Perry risponde attraverso un portavoce che l'Unione 
                  Europea dovrebbe farsi gli affari propri. 
                  Johnny è morto, a poche ore di distanza -la differenza 
                  di fuso orario le avvicina ancor di più-, esattamente 
                  ottant'anni dopo Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti. Una brutta 
                  storia che continua. 
                  Johnny Ray Conner ha ottenuto quel minuto in più di «confessione» 
                  perché ha rinunciato all'ultimo pasto. Ha scelto di affidarsi 
                  alle mani del boia a stomaco vuoto, con la coscienza a posto, 
                  ed anche salva, grazie alle poche parole che ha avuto il coraggio 
                  di confidare, in extremis, alla figlia di quella donna che lui, 
                  secondo i giudici, avrebbe ucciso. Un pasto che è un 
                  rituale che la tradizione impone. Che diventa ancor più 
                  significativo se non c'è. Sì, perché a 
                  rifiutarlo sono solitamente coloro che non accettano il verdetto 
                  di colpevolezza, che sostengono la loro innocenza e che negano 
                  al carcere quel ruolo di espiazione che gli è assegnato 
                  dalla giustizia. Il rifiuto del cibo, il rifiuto dell'invito 
                  a consumare l'ultimo pasto, diventa l'occasione per mandare 
                  a quel paese un sistema che non è stato capace -nello 
                  spirito di colui che si ritiene ingiustamente condannato a morte- 
                  di dare o restituire giustizia. L'accettazione, invece, provocatoria 
                  quanto si vuole o emblematica, in relazione alla tipologia del 
                  cibo ed alle quantità richieste, rappresenta una consapevole 
                  ritualità di ammissione di colpa che passa attraverso 
                  il compromesso che lega in un unico grande amplesso il detenuto-condannato 
                  con il carcere, i carcerieri ed il sistema che ha generato la 
                  condanna, il boia con tutti insieme. Con la pena estrema che 
                  diventa l'espiazione totale e definitiva della colpa. Pasto 
                  compreso. 
                  Dove non esiste, o non esiste più, la pena di morte, 
                  come in Italia, la questione si offre come occasione di dibattito 
                  a distanza, ma negli Usa, dove ben ventisette Stati la praticano 
                  più o meno comunemente (e gli Usa non sono che uno dei 
                  76 Stati al mondo che considerano la pena capitale come una 
                  soluzione di giustizia; contro 120 nei quali è stata 
                  abolita) ed i movimenti pro e contro sono diffusi su tutto il 
                  territorio con un frenetico attivismo, la questione riveste 
                  tutta la sua importanza. Oggi il web è lo specchio del 
                  conflitto che anima il dibattito. Ma non solo. Ogni cosa che 
                  riguarda i condannati a morte viene studiata, analizzata, fatto 
                  oggetto di ricerche universitarie, rapporti e segnalazioni di 
                  fondazioni e di «society» di studi, confrontata, 
                  trasformata in dibattito e codificata con statistiche e pubblicazioni. 
                  Anche l'ultimo pasto. Il Dipartimento di Giustizia Centrale 
                  del Texas, ad esempio, predispone un'«enciclopedia» 
                  della morte, con indagini, percentuali e dati di varia «umanità» 
                  relativi a 243 giustiziati (secondo i dati aggiornati sino al 
                  2001). Che, a quanto pare, hanno preteso di avvicinarsi agli 
                  ultimi istanti di vita dando sfoggio di una grandissima capacità 
                  -che probabilmente è anche segno di autoironica compassione 
                  o di rivalsa da far conoscere all'esterno- di scelta culinaria. 
                  Il 23 per cento ha consumato gli hamburger o i cheeseburger, 
                  il 14,8 per cento la carne sotto forma di bistecca, il 15,6 
                  per cento il gelato nei suoi diversi gusti, il 13,1 per cento 
                  l'insalata e l'8,2 per cento il latte. Mentre il 5,35 per cento 
                  si è accontentato del caffè, il 2,8 per cento 
                  ha deciso di porre fine ai suoi giorni divorandosi la pizza. 
                  Alcuni avrebbero voluto privilegiare un bicchiere di vino, una 
                  gomma da masticare o un pacchetto di sigarette -anche se non 
                  commestibile-, ma la direzione del carcere non li ha assecondati 
                  perché prodotti non previsti dai regolamenti. 
                  Il pasto mancato, di Johnny Ray Conner (sono comunque percentualmente 
                  numerosi coloro che scelgono di non ingerire cibo), o quello 
                  esagerato, di Lawrence Russel Brewer, che ha chiesto di tutto 
                  e ancora un po' (in conseguenza al quale il Texas ha iniziato 
                  ad imporre l'annullamento per tutti dell'ultimo pasto costringendo 
                  il condannato a cibarsi del menu di giornata previsto per tutto 
                  il braccio della morte), appartengono ad una casistica che va 
                  oltre la quotidianità e rientra nell'occorrenza particolare, 
                  per cui la loro eccezionalità è oggetto di approfondita 
                  attenzione e di puntuale divulgazione. Ma l'ultimo pasto non 
                  è solo circostanza di indagine psicologica, sociologica 
                  od antropologica, ma diventa anche oggetto di esplorazione da 
                  parte di chi nel cibo e col cibo -e nel rapporto che il cibo 
                  ha col mondo, ad ogni latitudine ed in ogni condizione- ragiona 
                  con funzione ampia, scegliendo di interpretarne il senso anche 
                  in modo non convenzionale. 
                
                   
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                    |   Opera della serie Deep Fried Gadget  | 
                   
                 
                 
                Chi è Henry Hargreaves 
                Henry Hargreaves è un giovane fotografo che ama sperimentare 
                  tecniche e soggetti facendo della provocazione uno strumento 
                  di dibattito e di coinvolgimento collettivo. Si mette e rimette 
                  in gioco ogni volta che affronta una nuova situazione. Lui ha 
                  guardato ampiamente all'ultimo pasto dei condannati a morte, 
                  e lo ha fatto adoperando tecnica e stile, passione e contaminazione, 
                  esponendosi in prima persona e sviluppando, attraverso un mezzo 
                  di comunicazione come la fotografia che rapidamente si diffonde 
                  nel mondo della tecnologia, la sintesi di un tema che fa impressione, 
                  che fa ribrezzo, che non anima certo -sollecitandone la fantasia- 
                  il mercato dell'arte e l'animosità dei collezionisti 
                  che si rincorrono sull'avanguardia del momento. Henry ha iniziato 
                  a ricostruire alcune ultime cene e a fotografarle, utilizzando 
                  gli stessi mezzi e gli stessi principi della pubblicità, 
                  alla stregua di prodotti di consumo o di beni da propagandare 
                  attraverso gli spot televisivi o le pagine patinate dei «magazine» 
                  in edicola. Lo ha fatto in modo asettico, distaccato, quasi 
                  estraneo al soggetto dell'immagine -che invece è sofferta 
                  e costruita- proponendo sé stesso come interlocutore 
                  neutrale di una storia che trae la propria origine in un atto 
                  che una sentenza di giudizio ritiene criminale e che si conclude 
                  poco dopo il consumo del pasto stesso. Trasforma in elemento 
                  di storia l'immagine del cibo, quello «ultimo», 
                  destinandola a sostenere un ruolo che, superata la «pietas» 
                  del racconto estremo, assurge quasi a rappresentare un momento 
                  di scelta culinaria. Riscrive, criticamente e provocatoriamente, 
                  la storia del cibo della cella della morte. 
                
                   
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                    |   Opera 
                        della serie Deep Fried Gadget  | 
                   
                 
                 
                Progetti che fanno discutere 
                 La 
                  storia di Henry Hargreaves, nonostante affronti temi scottanti 
                  e si collochi in un quadro di sfida e di profanazione ad ogni 
                  formula consolidata ch'egli affronta, è una storia di 
                  successo. Nasce e cresce a Christchurch, una città con 
                  poca tradizione (ha più o meno un secolo e mezzo di vita) 
                  che è la più grande dell'isola del Sud della Nuova 
                  Zelanda. È il ragazzo perfetto per fare l'indossatore: 
                  lavora come modello per le più prestigiose case di moda 
                  di tutto il mondo e condivide con fotografi del calibro di Stephen 
                  Meisel, Mario Testino e Richard Avedon un successo che sembra 
                  destinato a durare nel tempo. Da soggetto passivo, con grande 
                  puntualità e passione, sceglie di diventare attivo: molla 
                  l'immagine di bel ragazzo da copertina, impugna la macchina 
                  fotografica e raggiunge New York. Inizia a lavorare anch'egli 
                  per la moda, con clienti di grande importanza e progetti divertenti, 
                  creativi, trasformisti e memorabili che lo pongono immediatamente 
                  in buona luce. Le sue scelte sono un successo. 
                  Quasi tutti i suoi progetti fanno discutere. Il suo studio diventa 
                  un cantiere di lavoro nel quale l'elaborazione dei soggetti 
                  e del materiale rappresenta l'elemento propulsore delle storie 
                  da raccontare e lo scatto fotografico altro non è che 
                  la codifica di un momento di grande e provocatorio dibattito 
                  epocale d'indirizzo antropologico. Precorre i tempi, individua 
                  gli obiettivi ed indica alla gente le storie cui prestare attenzione. 
                  Fa, in contemporanea, ciò che il mercato ama e odia. 
                  Non è il merito dell'ambivalenza ma quello della cinica 
                  provocazione. 
                  La serie degli «Shattered» richiama la sventura 
                  dei vetri e degli specchi rotti; quella delle «Hard Copy» 
                  la schietta rassegnazione dell'immagine umana traslata in astrattismo 
                  e geometria cromatica; quella delle «Mask» l'annullamento 
                  dei ritratti e la loro sostituzione con ninnoli e bigiotteria. 
                  Scimmiotta l'artista Damien Hirst sostituendo i suoi «punti» 
                  colorati con miriadi di ben note pastigliette «m&m's» 
                  di cioccolato ricoperte di glassa vivacissima, affiancate le 
                  une alle altre; con la serie «Who Done It?» inserisce 
                  le più autorevoli boccette di profumo in contesti di 
                  foto segnaletiche; con «Toasted Icons» propone in 
                  grandissimo formato i ritratti di personaggi noti (Jim Morrison, 
                  i Beatles, Che Guevara, Marilyn Monroe, la regina Elisabetta 
                  d'Inghilterra) realizzati accostando le fette biscottate bruciacchiate. 
                  Con le «Subway Series» ricostruisce gli schemi delle 
                  metropolitane di tutto il mondo realizzandoli con gli spaghetti 
                  colorati, con i gomitoli di lana, con le cannucce variopinte, 
                  le perline e gli «m&m's» (sempre loro!), messi 
                  in fila; ricostruisce i «QR code» accostando migliaia 
                  di cellulari di ogni tipo, tagliuzzati, sagomati, smontati e 
                  trasformati in qualcos'altro. Poi comincia a dedicarsi al cibo. 
                  Fa ritratti con il ketchup (o checiap!), colora le frittelle, 
                  trasforma il burro in elemento grafico, realizza la tabella 
                  dell'oculista con ritagli vegetali, ricostruisce i dipinti di 
                  Mark Rothko con il riso colorato, trasforma in alimenti i gadget 
                  elettronici, gli ipod e i computer portatili, scrive con la 
                  pastasciutta, inventa il suo alfabeto con il «bacon», 
                  fa i ritratti ai presidenti americani con la gelatina colorata, 
                  elabora per il New York Times la figura del pittore rinascimentale 
                  italiano Arcimboldo sovrapponendo ed affiancando bonbon, caramelle, 
                  biscotti, croissant, frutta candita e pasticceria colorata. 
                  Poi dà fuoco alle calorie dei dolci, trasforma le torte 
                  in segnaletica e cartellonistica, dipinge con le uova dal contenuto 
                  colorato che si schiantano su piani rigorosamente scuri, riproduce 
                  le pubblicità liberty con il caffè macinato, scrive 
                  con i «Fruit Loops» policromi, ricostruisce la mappa 
                  del mondo utilizzando i prodotti alimentari autoctoni nazionali, 
                  congela i pomodori, riproduce e glassa i ritratti dei dittatori 
                  più importanti in crema e pan di Spagna (e li distrugge 
                  o li fa distruggere). Si avvale, in questa sua opera, della 
                  collaborazione di Caitlin Levin, Amirah Kassem, Jessica Walsh, 
                  Sarit Melmed, Lorenzo Fanton, Sarah Guido e Nicole Heffron. 
                  Un elenco di opere, quello poc'anzi riferito, all'apparenza 
                  banale ma fortemente riduttivo delle numerose operazioni che 
                  Hargreaves sperimenta, incessantemente, in poco tempo, con una 
                  grandissima ed invidiabile capacità inventiva. Fotografie 
                  che propone, nel corso degli ultimi due anni, in mostre personali 
                  -che stanno tra l'istallazione e l'happening- cui è invitato 
                  soprattutto negli Usa ed in Germania.  
                 Luigi Botta  
                 
                  Gli 
                  ultimi pasti dei condannati a morte 
                   
                  La scelta di riproporre in chiave baroccheggiante il camerino 
                  culinario di molte autorità mondiali di Broodway e non 
                  soltanto (secondo le pretese di contratto che impongono la disponibilità, 
                  prima e dopo il concerto o lo spettacolo, di ogni genere di 
                  prodotti alimentari di consumo, dai dolci alla frutta, dalle 
                  bevande ai liquori, dai tabacchi alla -anche se non alimentare- 
                  siringa per il «buco», ecc.) apre nuovi spazi alla 
                  ricerca di Henry Hargreaves. Che ha ormai dimenticato il suo 
                  ruolo di modello alla moda per calarsi fino in fondo in una 
                  parte che forse non è simile a quella che Keith Haring, 
                  Jean-Michel Basquiat e Bansky assumono nel mondo del graffitismo 
                  e della street art, ma che comunque è soggetta ad essere 
                  contaminata e messa in discussione di continuo ad una velocità 
                  che proprio non raggiunge quella della luce, ma quasi. 
                  Hargreaves produce a più non posso. 
                  Ed è appunto in questo contesto che nasce la serie dei 
                  «No Seconds», gli ultimi pasti dei condannati a 
                  morte. La sua ricerca è a 360 gradi. Indaga il cibo, 
                  più che i soggetti, si interessa alla casistica particolare, 
                  più che ai reati, non gli interessano i casi singoli 
                  -anche se ne rimane coinvolto- ma si propone di fatto una denuncia 
                  generale che nasce dal tema dell'«ultima cena» e 
                  tocca l'argomento delle condanne a morte. 
                  Monta i set, uno dietro l'altro, ricostruisce le tavole imbandite 
                  restituendo il menu prima richiesto e poi servito, interpreta, 
                  come meglio può e crede, piatti, posate, cibo, bicchieri 
                  e guarniture. Come uno still life di un grande artista. Scatta 
                  sulla zenitale, in modo distaccato e rigorosamente impersonale. 
                  Accompagna ogni immagine con la descrizione dattiloscritta dell'individuo 
                  condannato e del cibo da lui richiesto prima di morire. Un po' 
                  di biografia spicciola, per l'osservatore disattento. La prima 
                  serie è composta da nove personaggi.
                
 
                   
                    Ronnie 
                      Lee Gardner, 
                      dello Utah, finisce i suoi giorni a 49 anni per  
                      furto, rapimento e omicidio di due persone. 
                      Viene ucciso da un plotone di esecuzione il 18 giugno 2010. 
                       
                      Consuma il suo ultimo pasto (aragosta, bistecca, torta di 
                      mele e  
                      gelato alla vaniglia) assistendo alla proiezione della trilogia 
                      de «Il signore degli anelli». | 
                   
                   
                    |  
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                    Victor 
                      Feguer, 
                      è accusato di rapimento e omicidio. Viene ucciso  
                      con un'iniezione letale il 15 marzo 1963. È l'ultimo 
                      condannato a morte  nello Iowa. Ha 28 anni.  Il suo pasto 
                      finale è formato da una singola oliva con il nocciolo.. | 
                   
                   
                    |   | 
                   
                 
                  
                
                   
                    Allen 
                      Lee «Tiny» Davis, 
                      ha 54 anni quando l'8 luglio 1999 finisce  sulla sedia elettrica 
                      in Florida (è l'ultimo condannato ucciso con  
                      questo metodo). È accusato dell'omicidio di tre persone. 
                      La sua richiesta per l'ultimo pasto: code di aragosta, patate 
                      fritte,  gamberi fritti, vongole fritte e pane all'aglio.. | 
                   
                   
                    |   | 
                   
                 
                  
                
                   
                    Ted 
                      Bundy, 
                      ha accuse molto pesanti: violenza sessuale, necrofilia,  
                      fuga dal carcere e omicidio di 30-35 giovani donne. 
                      Viene ucciso in Florida sulla sedia elettrica il 24 gennaio 
                      1989 all'età  di 43 anni. Si rifiuta di consumare 
                      l'ultimo pasto e mangia uova,  bistecca, pane imburrato, 
                      latte e succo di frutta, probabilmente il pasto  destinato 
                      a tutti i detenuti. | 
                   
                   
                    |   | 
                   
                 
                  
                   
                    Angel 
                      Nieves Diaz, 55 
                      anni, 
                      è accusato di omicidio, sequestro e rapina  a mano 
                      armata. Finisce i suoi giorni in Florida, dopo 34 minuti 
                      d'agonia,  il 13 dicembre 2006, con un'iniezione letale. 
                      Rifiuta l'ultimo pasto e rifiuta anche la cena servita dall'istituto  
                      penitenziario. | 
                   
                   
                    |   | 
                   
                 
                  
                   
                    John 
                      Wayne Gacy, 
                      chiamato «Killer Clown» (perché in carcere 
                      dipinge  quadri di clown), ha 52 anni quando viene ucciso 
                      con un'iniezione letale  il 10 maggio 1994. Nell'Illinois. 
                      È accusato di pesantissimi reati: violenza  sessuale 
                      e omicidio di 33 persone. 
                      Chiede di consumare l'ultimo pasto: pollo fritto in gran 
                      quantità, patatine  fritte e fragole. Prima di essere 
                      accusato di omicidio Gacy aveva  gestito tre ristoranti «Kentucky 
                      Fried Chicken», dove si mangia  esclusivamente pollo. 
                      Le sue ultime parole: «Kiss my ass!» (Baciatemi 
                      il culo!). | 
                   
                   
                    |   | 
                   
                 
                  
                   
                    Stephen 
                      Anderson, 
                      finisce i suoi giorni a 49 anni, in California,  prigione 
                      di San Quentin. È accusato di furto, aggressione, 
                      fuga  dal carcere e omicidio di sette persone (tra le quali 
                      anche  un detenuto). Consuma come ultimo pasto due panini 
                      al  formaggio, un piatto di formaggio cottage, ravanello 
                      e mais,  torta alle pesche e gelato al cioccolato. | 
                   
                   
                    |   | 
                   
                 
                  
                   
                    Ricky 
                      Ray Ractor, 
                      42 anni, dell'Arkansas, è accusato di duplice  omicidio. 
                      Muore per iniezione letale il 24 gennaio 1992. Sceglie di  
                      mangiare una bistecca con patatine fritte, una torta di 
                      noci e succo di  ciliegia. Non conclude il pasto: lascia 
                      la torta dicendo di conservarla  per il dopo (ciò 
                      conferma i suoi problemi di salute mentale emersi prima,  
                      durante e dopo il processo). | 
                   
                   
                    |   | 
                   
                 
                
                  
                  
                   
                    Timothy 
                      James McVeigh, 
                      viene ucciso a 33 anni. È dell'Indiana. 
                      È il responsabile del più sanguinoso atto 
                      terroristico statunitense prima  dell'11 settembre 2001: 
                      l'attentato di Oklahoma City, nel quale perdono  la vita 
                      168 persone. Finisce i suoi giorni l'11 giugno 2001 per 
                      iniezione  letale. Il suo ultimo pasto consiste in una ciotola 
                      di gelato alla menta  con pezzettini di cioccolato. | 
                   
                   
                    |   | 
                   
                 
                                  
                  
                   
                    Timothy 
                      James McVeigh, 
                      viene ucciso a 33 anni. È dell'Indiana. 
                      È il responsabile del più sanguinoso atto 
                      terroristico statunitense prima  
                      dell'11 settembre 2001: l'attentato di Oklahoma City, nel 
                      quale perdono  
                      la vita 168 persone. Finisce i suoi giorni l'11 giugno 2001 
                      per iniezione  
                      letale. Il suo ultimo pasto consiste in una ciotola di gelato 
                      alla menta 
                      con pezzettini di cioccolato. | 
                   
                   
                    |   | 
                   
                 
                 
                Quando nei primi 
                mesi del 2013 Henry Hargreaves viene invitato a Venezia ad esporre 
                le sue opere presso l'isola di San Servolo nella stagione della 
                Biennale prossima a venire, gli si chiede di ampliare il numero 
                delle fotografie appartenenti alla serie «No Seconds». 
                Ne prevede ulteriori tre: Teresa Wilson Bean Lewis, Ronnie Paul 
                Threadgill, Nicola Ferdinando Sacco e Bartolomeo Vanzetti.  
                
                   
                    Teresa 
                      Wilson Bean Lewis, 
                      ha 41 anni quando viene uccisa con  iniezione letale presso 
                      il Greensville Correctional Center di Jarrat in  Virginia 
                      il 23 settembre 2010. È la prima donna ad essere 
                      giustiziata  dal 1912 in Virginia, anche la prima con iniezione 
                      letale. Si dichiara  innocente ma è considerata la 
                      mandante dell'omicidio del marito e  del figlio. Sul suo 
                      caso si innescano numerose polemiche.  Consuma l'ultimo pasto: 
                      pollo fritto, piselli al burro, torta di mele  e «Dr 
                      Pepper». | 
                   
                   
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                    Ronnie 
                      Paul Threadgill, 
                      viene giustiziato a 40 anni, il 16 aprile 2013,  nel carcere 
                      di Huntsville, Texas, accusato di furto d'auto e di omicidio.  
                      Subisce un'iniezione letale. Prima di morire dice: «Vado 
                      in un posto  migliore» e mostra la sua dentiera d'oro 
                      ad una donna presente  all'esecuzione. Gli viene rifiutato 
                      l'ultimo pasto e si ciba del menu  comune ai detenuti: pollo 
                      al forno, purè di patate con sugo tradizionale,  verdure, 
                      piselli dolci, pane, tè, acqua, punch. | 
                   
                   
                    |   | 
                   
                 
                  
                   
                    Di 
                      Nicola 
                      Ferdinando Sacco e Bartolomeo Vanzetti, 
                      i due anarchici  italiani uccisi nel carcere di Charlestown, 
                      Boston, Massachusetts, con  la sedia elettrica, si conosce 
                      ampiamente la vicenda. 
                      Il loro ultimo pasto è molto modesto: zuppa, arrosto, 
                      toast e tè (non si  conosce se si tratti di un menu 
                      richiesto oppure del medesimo  destinato a tutti i detenuti). | 
                   
                   
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                 Sette 
                  domande a Henry Hargreaves
                  Ad Henry Hargreaves -che oltre ad essere geniale è 
                  anche persona gentile e generosa- poniamo alcune domande relative 
                  alla serie «No Seconds», presentata lo scorso anno 
                  presso il «Museo della follia» sull'isola di San 
                  Servolo a Venezia (in una rassegna dal titolo «No seconds, 
                  Comfort food e fotografia» curata da Chiara Casarin su 
                  progetto di Mauro Zardetto).
  
                  Quali sono le motivazioni che ti hanno spinto ad indagare 
                  gli ultimi pasti dei condannati a morte? 
                  Trovo che il cibo sia un potente connettore tra le genti. Non 
                  si può sapere niente dei condannati o essere in grado 
                  di relazionarsi in alcun modo con loro, ma quando si sente parlare 
                  di qualcosa che ne è rivelatore, come le richieste degli 
                  ultimi pasti, loro assumono in qualche modo una dimensione umana 
                  nella mente di chi è interessato. 
                   
                  Con quale criterio hai scelto i soggetti da interpretare, 
                  ricostruendo la loro mensa dell'addio alla vita? 
                  Ho scelto casi ben noti; strane richieste di pasti, qualcuno 
                  che era disabile, una donna, Sacco e Vanzetti perché 
                  erano innocenti, e un uomo la cui ultima richiesta di pasto 
                  gli è stata negata perché il Texas aveva modificato 
                  la legge e lui ha consumato lo stesso cibo degli altri detenuti 
                  presenti quella sera nel braccio della morte. 
                   
                  Dove hai rinvenuto le notizie relative agli ultimi pasti 
                  dei condannati? 
                  Si tratta di informazioni pubbliche; vi è anche una pagina 
                  di Wikipedia che riguarda l'argomento. 
                   
                  Tu pensi che le scelte compiute dai condannati a morte -sempre 
                  relative all'ultimo pasto- rispondano esclusivamente al dettato 
                  personale oppure risentano, in qualche modo, di fattori esterni 
                  che ne hanno condizionato il passato? 
                  Penso che ci siano entrambi gli elementi, che in molti casi 
                  riflettano il background sociale dei condannati, e talvolta 
                  l'aspetto biografico e personale, come per John Wayne Gacy. 
                  In altri casi si tratta di pura golosità, come per Timothy 
                  McVeigh, in quanto la scelta non è conseguenza di nulla 
                  e si tratta forse di un recupero dell'immaginario infantile. 
                  In entrambi i casi c'è tanto spazio per l'interpretazione, 
                  e ciò è l'essenza che io sento, che rende interessante 
                  l'argomento. 
                   
                  Raccontaci la scelta fotografica che tu hai fatto: essenzialità 
                  e scatto zenitale nell'immagine; sintesi e austerità 
                  nella descrizione dei soggetti e delle pene. 
                  Volevo che i piatti fossero mostrati così come li potevano 
                  osservare i condannati un momento prima di impugnare le posate 
                  per mangiare. Siccome non esiste una foto reale di un ultimo 
                  pasto, io ero in grado di immaginarli serviti su piatti di carta 
                  o di porcellana, pensare all'orgoglio del cuoco nel suo lavoro, 
                  ecc. 
                   
                  Quali risultati -artistici e socio-politici- ha ottenuto 
                  la tua ricerca? 
                  Mi piace raccontare con il mio lavoro una storia; penso che 
                  l'arte debba sostenere uno specchio di fronte allo spettatore 
                  e debba essere lo spettatore a decidere come interpretarlo. 
                   
                  La scelta degli ultimi pasti dei condannati a morte ti impegna 
                  anche personalmente pro o contro la pena di morte stessa? 
                  Personalmente sono contro la pena di morte, ma non sono un sostenitore 
                  della causa. Sento che la maggior parte delle persone negli 
                  Stati Uniti ignora l'argomento, così come non ha alcuna 
                  personale connessione con il prigioniero, sono solo statistiche. 
                  Non sto condannando il crimine, ma sono convinto che la sponsorizzazione 
                  delle esecuzioni da parte dello Stato rappresenti una consuetudine 
                  barbara. Voglio soltanto essere lo spettatore desideroso di 
                  comprendere il fenomeno, come una persona reale, e le conseguenze 
                  di questa pratica. 
                   
                  (intervista realizzata con la collaborazione di Charline 
                  Besnier). 
                 
                   
                      | 
                   
                   
                    |   Il fotografo neozelandese Henry Hargreaves  | 
                   
                 
                
                  L'immagine definitiva  
                 Per chiudere, alcune annotazioni dal sapore autobiografico 
                  che si impongono in relazione alla fotografia dell'ultima cena 
                  di Sacco e Vanzetti, realizzata in stretta connessione tra il 
                  fotografo neozelandese e chi scrive. È nella primavera 
                  del 2012 che i mass media americani si interessano -seppur genericamente 
                  in quanto nulla di ufficiale è ancora comparso sul mercato 
                  e l'autore ha buona parte del suo percorso artistico ancora 
                  da compiere- dell'iniziativa di Henry Hargreaves di proporre 
                  al grande pubblico una serie di immagini fotografiche sul tema 
                  dell'ultimo pasto dei condannati a morte. A luglio appare la 
                  notizia che il giovane artista è prossimo a presentare 
                  tale ciclo, che viene denominato «No Seconds», presso 
                  la «Herter Art Gallery» dell'University of Massachusetts, 
                  in Amherst. Non si conosce quali siano i condannati, quali i 
                  pasti e quali i criteri di individuazione. Chi scrive pensa 
                  bene di interpellare il fotografo per sapere se, tra gli altri, 
                  compaiano anche Sacco e Vanzetti, due personaggi che proprio 
                  nel Massachusetts hanno vissuto il loro destino di morte. La 
                  mostra presso l'«Amherst College» potrebbe essere 
                  l'ennesima occasione per far meditare lo Stato americano su 
                  questa storia mai dimenticata. 
                  Il 26 luglio parte una mail in direzione di New York, che spiega 
                  queste cose. La risposta di Henry non si fa attendere molto. 
                  Dopo poco più di sei ore (senza tener conto del fuso 
                  orario) fa sapere che il ciclo è momentaneamente chiuso. 
                  Chi scrive non demorde. Pertanto la corrispondenza non finisce 
                  lì. Nella successiva mail il fotografo viene informato 
                  del cibo che Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti consumarono 
                  nell'ultima cena (non si sa bene se su specifica richiesta oppure 
                  predisposto per tutti i detenuti), «soup, beef, toast 
                  and tea», che fu servito presso il carcere di Charlestown, 
                  Boston, appena «Rose» Sacco e Luigina Vanzetti si 
                  allontanarono dopo l'estrema visita ai loro familiari. L'informazione 
                  è ripresa dal newspaper «Dallas Morning News» 
                  del 23 agosto 1927, che la trasmette anche ad altri giornali 
                  quotidiani internazionali. Hargreaves riceve in contemporanea 
                  anche numerose informazioni circa la storia e le date della 
                  vicenda dei due anarchici italiani. Ritiene la notizia «very 
                  interesting and different from the others». La cosa, così 
                  come riletta, gli interessa. Cercherà di realizzarla. 
                  Ma il tempo stringe. La mostra in Amherst, la prima in assoluto 
                  del fotografo, si tiene senza lo sperato resoconto su Sacco 
                  e Vanzetti. 
                  Bisogna dare tempo al tempo. Il 5 marzo 2013 è lo stesso 
                  Hargreaves a farsi vivo. «Gli è stato chiesto -così 
                  scrive- di ampliare il suo lavoro per presentarlo alla Biennale 
                  di Venezia». È probabilmente l'occasione giusta. 
                  La corrispondenza si infittisce e le informazioni, numerosissime, 
                  relative agli ultimi istanti di vita di Nicola e Bartolomeo, 
                  vanno avanti e indietro rapidamente tra l'Italia e New York. 
                  Henry vuol sapere molte cose e si interroga sulla qualità 
                  e sulle caratteristiche dell'ultima mensa dei due italiani. 
                  Lavora sul progetto e si confronta. Il 2 maggio 2013 arriva 
                  il primo scatto, per le eventuali revisioni. Il giorno stesso, 
                  e quello successivo, le mail si moltiplicano ed il materiale, 
                  di giorno ed anche di notte, va avanti e indietro con gli aggiustamenti. 
                  Il 5 maggio compare nella posta elettronica l'immagine definitiva. 
                  È quella che Henry Hargreaves presenta a Venezia (la 
                  mostra si apre il 7 settembre all'isola di San Servolo), e che, 
                  dopo Venezia, ha già portato in giro per il mondo insieme 
                  alle altre undici della serie «No Seconds» 
                 Luigi Botta 
                 
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