  
                
  
                Crêuza de mä 
                 “(...) Appena uscito, Crêuza non sollevò 
                  nessun tipo di entusiasmo che non fosse quello di qualcuno di 
                  voi critici. La casa discografica non ci credeva, qualche rappresentante 
                  mi chiese se ero diventato matto ed in particolare il venditore 
                  della Liguria mi fece sapere, stizzosamente, che neppure a Genova 
                  c'era qualcuno che ci avesse capito un cazzo. Nel giro di un 
                  paio di mesi Crêuza aveva venduto qualcosa come 45mila 
                  copie, perfettamente corrispondenti alle previsioni mie e di 
                  Pagani. Poi vi ci siete messi voi, a dire che Crêuza era 
                  un capolavoro, a riempirci la giacca di medaglie fino a quando 
                  la gente prima si è incuriosita e poi ha cominciato ad 
                  apprezzare. Così le prime 45mila copie sono diventate 
                  le oltre trecentomila di oggi...”  
                  (Fabrizio de André a Giancarlo Susanna, 1990) 
                    
                  Com'è strano il destino di “Crêuza de mä”. 
                  Fabrizio de André e Mauro Pagani trent'anni fa costruirono 
                  in laboratorio il prototipo di quella che negli anni a venire 
                  sarebbe stata la musica esposta negli scaffali dei negozi sotto 
                  l'etichetta world music. Musica che appartiene alla gente, fatta 
                  dalla gente per diffonderla tra la gente. Una musica difficilmente 
                  misurabile su di un calendario e su di una carta geografica: 
                  è musica che riporta alla mente certi paesi specifici 
                  ma che è inadatta a restare chiusa dentro a dei confini 
                  e che anzi si presta a contaminazioni, scambi e manipolazioni. 
                  È musica insieme antica ed innovativa, pare affondare 
                  le radici nel passato eppure è senza tempo. Fabrizio 
                  e Mauro ci misero dentro tutto il loro amore e le suggestioni 
                  raccolte in anni di letture e di viaggi. In testa un'idea vecchia, 
                  la stessa delle genti che costruiscono le case sulla costa: 
                  l'idea del mare messo lì a riunire le sue sponde e non 
                  per tenerle lontane, la distesa d'acqua immaginata e vissuta 
                  come porta aperta all'incontro, come occasione d'attraversamento 
                  e non muro o ostacolo a separare. Stavo riflettendo su come 
                  questa idea s'era fatta strada nella testa dei veneziani, che 
                  avevano trovato nelle terre emerse della laguna un rifugio dall'invasione 
                  e dal massacro, ma che avevano poi imparato a padroneggiare 
                  quella distanza di sicurezza e a sfruttarla a proprio vantaggio 
                  trasformandosi in esploratori, poi in viaggiatori, in commercianti. 
                  E in predoni, anche. Ma Fabrizio e Mauro no: neanche una briciola 
                  di pensiero distribuita agli avvoltoi dell'industria dello spettacolo, 
                  neanche uno sguardo volto all'arrampicata in alto alla vetta 
                  delle classifiche di vendita. Loro avevano in testa e negli 
                  occhi una via tracciata sotto il mare, una via segreta che nei 
                  secoli si è lasciata mappare solo da pochi. 
                   
                  “(...) Volevo mettere l'accento sul fatto che questo 
                  è il contrario del disco folcloristico, cioè proprio 
                  il contrario. E' casomai un disco etnico, che va a cercare le 
                  etnie coi loro strumenti, i loro suoni e che cerca di omogeneizzare 
                  per cercare di dare l'idea di quello che poteva essere un certo 
                  tipo di mondo mediterraneo un po' di anni fa, e forse lo è 
                  ancora adesso. Il mondo visitato dalle barche, voglio dire, 
                  gli sciabecchi, le galee, e che fosse strettamente mediterraneo 
                  e quindi la scelta della lingua genovese, io continuo a chiamarla 
                  lingua...” 
                  (Fabrizio de André a Ferdinando Molteni ed Alfonso Amodio, 
                  1984) 
                   
                  Sembra siano state scritte a proposito le parole di Ivano Fossati, 
                  un altro grande autore ligure: se c'è una strada sotto 
                  il mare prima o poi ci troverà. Ed effettivamente una 
                  qualche crêuza subacquea queste canzoni l'hanno trovata 
                  e percorsa, ed appartengono sì a Pagani e a de André 
                  ma anche a tutti, un poco anche a te che leggi e a me che sto 
                  scrivendo, un tesoro comune e condiviso. Canzoni impossibili 
                  a ricondurre al guinzaglio dell'appartenenza etnica, che si 
                  sono svelate al vecchio contadino americano che le legge commosso 
                  come ballate blues italiane (lo ha raccontato Beppe Gambetta) 
                  come ai buskers polesani e romagnoli (vi invito ad ascoltare 
                  come abitano nelle bocche di Bevano Est e Marmaja nelle raccolte 
                  a sostegno di questo giornale nel segno di Faber: sembra abbiano 
                  messo radici in riva ai nostri fiumi, sembra siano sempre state 
                  lì, come certi grandi alberi, come le colline). Considerate 
                  da alcuni solo come dei bei falsi, quelle di “Crêuza 
                  de mä” non sono nate come canzoni popolari, ma lo 
                  sono divenute. Tutti noi le abbiamo portate via carezza dopo 
                  carezza, bacio dopo bacio: sono le parole che avremmo voluto 
                  dire e sentirci dire, sono le parole che non siamo stati capaci 
                  di dire. Ciascuno, con l'armonia, ne porta il profumo con sé. 
                  Per me “D'ä mæ riva”, odora (un po' banalmente, 
                  diciamocelo, ma per me è importante) come l'aria luminosa 
                  d'argento e verde e azzurro che mi entrava nel naso quand'ero 
                  piccolo nelle traversate in vaporetto dal paese fino a Venezia. 
                  Odora di peocere e di stravedamento, di barene e murazzi. Al 
                  mio naso di shakul “Sidún” ha l'odore metallico 
                  bruciato dei vecchi televisori che portano cattive notizie. 
                   
                  “(...) Non sarebbe stato possibile fare questo disco 
                  in nessun'altra lingua. E' molto tempo che io volevo cantare 
                  in un idioma diverso dalla “lingua dell'impero”. 
                  E solo in questo modo, con queste parole che ho usato fin da 
                  bambino, mi era possibile: hanno la particolarità di 
                  scivolare sopra le note, e sopra note dolci, orientali. Il genovese 
                  è pieno di dittonghi, di iati, di aggettivi tronchi che 
                  si allungano e si accorciano quasi come il grido di un gabbiano. 
                  Tra gli idiomi neolatini è il meno latino di tutti, ha 
                  1500 vocaboli arabi, e araba ne è la melodia...” 
                  (Fabrizio de Andrè a Silvia Garambois, 1984) 
                   
                  A trent'anni dalla prima uscita, di “Crêuza de mä” 
                  viene pubblicata una versione rimixata curata da Mauro Pagani, 
                  che già ne aveva offerto dieci anni fa una bellissima 
                  rilettura. Il disco di una volta adesso ha la forma di due cd 
                  nascosti sotto la prima e la quarta di copertina di un libro. 
                  Sarò sincero: mi sono avvicinato a questo lavoro col 
                  mio gran bel carico di dubbi, che però si sono diradati 
                  sin dal primo ascolto lasciando spazio a un grande stupore. 
                  È indiscutibilmente “quel” lavoro, ma “questo” 
                  suona diverso, suona bene, anzi suona benissimo. Mauro Pagani 
                  è riuscito nella magia. Mi sembra di essere davanti ad 
                  una di quelle immense opere pittoriche restituite agli occhi 
                  del pubblico dopo anni di restauro: la mia bocca si apre di 
                  meraviglia, le orecchie fanno fatica ad abbeverarsi di tutte 
                  queste sorprese, dei particolari rimasti nascosti e finalmente 
                  svelati, ondate di suono e di emozione una dopo l'altra che 
                  non lasciano il tempo di riprendere fiato. Sembra quasi un disco 
                  nuovo, fantastico, mai sentito prima.
                  Marco Pandin
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