rivista anarchica
anno 44 n. 388
aprile 2014




Gli irresponsabili

Partiamo dalla radice. Proviamo a capire cioè perché un responsabile viene definito tale. Il sostantivo arriva dal medesimo tema di RESPONDERE, con l'aggiunta della terminazione – BILEM, che di per se stessa indica la facoltà di operare. Ne consegue che il responsabile è chi risponde, e così facendo si rende garante di qualche cosa o per qualche persona.
Bene.
Se nel rispetto delle parole, come credo, sta l'indice di libertà di cui godiamo, dobbiamo prendere atto del fatto che alla scomparsa del senso di questa parola siano imputabili innumerevoli forme di libertà che nelle istituzioni cui apparteniamo si manifestano di continuo. Sono piccole cose, infinitesimali ma innumerevoli perdite di tempo che si fanno sempre più frequenti nel nostro quotidiano, moltiplicando il tempo necessario per ogni piccola incombenza. Oggi come ieri, nel mio ormai imbarazzante lavoro di dipendente dello stato, nella forma specifica di un'istituzione universitaria, ho passato una buona mattinata a rimbalzare – per fortuna non di persona ma al telefono – da un ufficio all'altro solo per capire chi fosse, appunto, il responsabile di una banale pratica burocratica. Ho risalito la scala gerarchica dall'impiegato neoassunto al vertice dell'amministrazione. Posso dire senza tema di smentita che la frase che mi è stata ripetuta più spesso è: “Guardi, signora, non dipende da me”. L'affermazione, che di norma dovrebbe essere seguita dall'indicazione della persona a cui rivolgersi, veniva sempre seguita da un misterioso, suggestivo silenzio, come se il mistero della burocrazia potesse essere spiegato solo da qualche oscuro ministro del culto.
Ho perso una mattinata, la calma e pure la libertà di smaltire questa insignificante vicenda in tempi rapidi. E ne sono venuta a capo quando, in cima alla piramide, ho parlato con un dirigente che mi stava appunto dicendo che non dipendeva da lui. In un'impennata di revanchismo autoritario, che certo non mi appartiene ma tutti hanno il loro punto di rottura, ho chiesto: “Allora, chi è il capo qui dentro?” Solo a questo punto ho ottenuto le mie risposte. Non per senso di responsabilità, badate bene, ma solo per lesa maestà. L'ultimo interpellato voleva solo dimostrare, appunto, di essere il capo. E in questa gara di centimetri, ho finalmente avuto la mia risposta.
Responsabile, appunto, è colui che risponde. E se risponde male, se ne assume la responsabilità. Perché la risposta sbagliata ha conseguenze. E ha conseguenze perché provoca un danno. Lede la libertà individuale. A volte anche gravemente. Perciò se uno è responsabile – e normalmente occupa un posto e guadagna uno stipendio per questo – non è che può dare delle risposte. Deve darle. Etimologicamente. È il suo compito, ed è un compito che implica una responsabilità.
Bene. Tutto chiaro fin qui.

Confrontiamo questi elementari assunti con quel che ci vediamo intorno. Consideriamo cose semplici, che vanno dalla richiesta elementare di informazioni su una procedura burocratica allo svolgimento di un ruolo amministrativo, politico, ideologico, o di qualsiasi tipo. E ci rendiamo conto che stiamo parlando a vanvera. L'assunzione di responsabilità è un comportamento socialmente sanzionato che è soggetto a pene pesanti, quelle sì. Esso mette in discussione una prassi consolidata nella quale la verità è un gioiello perduto che non interessa, non si può quotare in borsa, non produce profitto e anzi mette in imbarazzo, perché rivela una falla nel sistema. Ammesso che ci sia, un sistema, che per quanto discutibile implicherebbe una qualche forma di razionalità. In altri termini, se io mi assumo una responsabilità, non solo metto in difficoltà il mio collega che se ne è lavato le mani invocando un'astrattissima quanto fumosa legge, ma verrò messo alla berlina o temuto, a seconda dei casi. E quasi sempre accusato di star sempre lì a mettere i puntini sulle i. Sempre trasformato nel bersaglio di una gara di freccette in cui tutti si divertiranno molto tranne, appunto, il malcapitato responsabile autodenunciato.
Ora, io credo che il nodo centrale, la radice della nostra schiavitù, qui e ora, in questo contesto svirgolato, stia nell'impossibilità di sapere con chi prendersela. Nel garbuglio inestricabile che è, nel piccolo e nel grande, la ricostruzione della responsabilità, sta ben nascosto il segreto di un potere che ci ammanetta all'inanità, all'impossibilità di ricostruire un senso. E alla fine, quel che dobbiamo concludere, di nuovo, appare curiosamente vicino alle strane storie che ci racconta Vonnegut, quando si inventa un dio che non ha alcun interesse per le sue creature. Quando esse gli vengono a noia, si limita a concludere che dovrebbero avere il buonsenso di suicidarsi.
Ora, come sempre per me, al centro di questo dibattito sta la formazione, il genere di cultura che stiamo costruendo, insegnando, impartendo, elargendo a piene mani ai ragazzini di oggi, che saranno, forse, gli adulti di domani. E gli adulti di domani oggi sono del genere descritto da una mia amica che insegna in una scuola media e che si è vista consegnare un compito in classe sul quale era scritto, tra parentesi di fianco a una risposta sbagliata: “Questa l'ho copiata dalla mia vicina di banco, perciò se è sbagliata è colpa sua”.
Appunto.
È colpa del gatto, mamma, se gli ho pestato la coda.

Nicoletta Vallorani