|  
                 
                    
                Gli irresponsabili 
				 
                Partiamo dalla radice. Proviamo 
                  a capire cioè perché un responsabile viene definito 
                  tale. Il sostantivo arriva dal medesimo tema di RESPONDERE, 
                  con l'aggiunta della terminazione – BILEM, che di per 
                  se stessa indica la facoltà di operare. Ne consegue che 
                  il responsabile è chi risponde, e così facendo 
                  si rende garante di qualche cosa o per qualche persona. 
                  Bene. 
                  Se nel rispetto delle parole, come credo, sta l'indice di libertà 
                  di cui godiamo, dobbiamo prendere atto del fatto che alla scomparsa 
                  del senso di questa parola siano imputabili innumerevoli forme 
                  di libertà che nelle istituzioni cui apparteniamo si 
                  manifestano di continuo. Sono piccole cose, infinitesimali ma 
                  innumerevoli perdite di tempo che si fanno sempre più 
                  frequenti nel nostro quotidiano, moltiplicando il tempo necessario 
                  per ogni piccola incombenza. Oggi come ieri, nel mio ormai imbarazzante 
                  lavoro di dipendente dello stato, nella forma specifica di un'istituzione 
                  universitaria, ho passato una buona mattinata a rimbalzare – 
                  per fortuna non di persona ma al telefono – da un ufficio 
                  all'altro solo per capire chi fosse, appunto, il responsabile 
                  di una banale pratica burocratica. Ho risalito la scala gerarchica 
                  dall'impiegato neoassunto al vertice dell'amministrazione. Posso 
                  dire senza tema di smentita che la frase che mi è stata 
                  ripetuta più spesso è: “Guardi, signora, 
                  non dipende da me”. L'affermazione, che di norma dovrebbe 
                  essere seguita dall'indicazione della persona a cui rivolgersi, 
                  veniva sempre seguita da un misterioso, suggestivo silenzio, 
                  come se il mistero della burocrazia potesse essere spiegato 
                  solo da qualche oscuro ministro del culto. 
                  Ho perso una mattinata, la calma e pure la libertà di 
                  smaltire questa insignificante vicenda in tempi rapidi. E ne 
                  sono venuta a capo quando, in cima alla piramide, ho parlato 
                  con un dirigente che mi stava appunto dicendo che non dipendeva 
                  da lui. In un'impennata di revanchismo autoritario, che certo 
                  non mi appartiene ma tutti hanno il loro punto di rottura, ho 
                  chiesto: “Allora, chi è il capo qui dentro?” 
                  Solo a questo punto ho ottenuto le mie risposte. Non per senso 
                  di responsabilità, badate bene, ma solo per lesa maestà. 
                  L'ultimo interpellato voleva solo dimostrare, appunto, di essere 
                  il capo. E in questa gara di centimetri, ho finalmente avuto 
                  la mia risposta. 
                  Responsabile, appunto, è colui che risponde. E se risponde 
                  male, se ne assume la responsabilità. Perché la 
                  risposta sbagliata ha conseguenze. E ha conseguenze perché 
                  provoca un danno. Lede la libertà individuale. A volte 
                  anche gravemente. Perciò se uno è responsabile 
                  – e normalmente occupa un posto e guadagna uno stipendio 
                  per questo – non è che può dare delle risposte. 
                  Deve darle. Etimologicamente. È il suo compito, ed è 
                  un compito che implica una responsabilità. 
                  Bene. Tutto chiaro fin qui. 
                  
                 Confrontiamo questi elementari assunti con quel che ci vediamo 
                  intorno. Consideriamo cose semplici, che vanno dalla richiesta 
                  elementare di informazioni su una procedura burocratica allo 
                  svolgimento di un ruolo amministrativo, politico, ideologico, 
                  o di qualsiasi tipo. E ci rendiamo conto che stiamo parlando 
                  a vanvera. L'assunzione di responsabilità è un 
                  comportamento socialmente sanzionato che è soggetto a 
                  pene pesanti, quelle sì. Esso mette in discussione una 
                  prassi consolidata nella quale la verità è un 
                  gioiello perduto che non interessa, non si può quotare 
                  in borsa, non produce profitto e anzi mette in imbarazzo, perché 
                  rivela una falla nel sistema. Ammesso che ci sia, un sistema, 
                  che per quanto discutibile implicherebbe una qualche forma di 
                  razionalità. In altri termini, se io mi assumo una responsabilità, 
                  non solo metto in difficoltà il mio collega che se ne 
                  è lavato le mani invocando un'astrattissima quanto fumosa 
                  legge, ma verrò messo alla berlina o temuto, a seconda 
                  dei casi. E quasi sempre accusato di star sempre lì a 
                  mettere i puntini sulle i. Sempre trasformato nel bersaglio 
                  di una gara di freccette in cui tutti si divertiranno molto 
                  tranne, appunto, il malcapitato responsabile autodenunciato. 
                  Ora, io credo che il nodo centrale, la radice della nostra schiavitù, 
                  qui e ora, in questo contesto svirgolato, stia nell'impossibilità 
                  di sapere con chi prendersela. Nel garbuglio inestricabile che 
                  è, nel piccolo e nel grande, la ricostruzione della responsabilità, 
                  sta ben nascosto il segreto di un potere che ci ammanetta all'inanità, 
                  all'impossibilità di ricostruire un senso. E alla fine, 
                  quel che dobbiamo concludere, di nuovo, appare curiosamente 
                  vicino alle strane storie che ci racconta Vonnegut, quando si 
                  inventa un dio che non ha alcun interesse per le sue creature. 
                  Quando esse gli vengono a noia, si limita a concludere che dovrebbero 
                  avere il buonsenso di suicidarsi. 
                  Ora, come sempre per me, al centro di questo dibattito sta la 
                  formazione, il genere di cultura che stiamo costruendo, insegnando, 
                  impartendo, elargendo a piene mani ai ragazzini di oggi, che 
                  saranno, forse, gli adulti di domani. E gli adulti di domani 
                  oggi sono del genere descritto da una mia amica che insegna 
                  in una scuola media e che si è vista consegnare un compito 
                  in classe sul quale era scritto, tra parentesi di fianco a una 
                  risposta sbagliata: “Questa l'ho copiata dalla mia vicina 
                  di banco, perciò se è sbagliata è colpa 
                  sua”. 
                  Appunto. 
                  È colpa del gatto, mamma, se gli ho pestato la coda. 
                 Nicoletta Vallorani 
               |