rivista anarchica
anno 43 n. 385
dicembre 2013 - gennaio 2014


 


Litigare ok,
ma per bene

È uscito recentemente Litigare con metodo. Gestire i litigi dei bambini a scuola (Erickson, Trento, 2013, pp. 104, e 17,00), di Daniele Novara e Caterina Di Chio, che riprende sostanzialmente gli atti del Convegno organizzato dal Centro psicopedagogico per la pace e la gestione dei conflitti di Piacenza, svoltosi nella città emiliana lo scorso dicembre. L'obiettivo è quello di demolire una serie di pregiudiziali rispetto al significato del concetto di conflittualità nei rapporti tra bambini. Il conflitto non equivale alla “guerra”, ma è l'esatto contrario della violenza, perché comprende l'altro nel proprio orizzonte, senza escluderlo, eliminarlo e distruggerlo. Occorre superare il paradosso negativo che considera il conflitto un male assoluto. La conflittualità, il rapporto litigioso, la contrarietà, costituiscono fattori che presentano una straordinaria opportunità educativa, di crescita e autoconoscenza, in quanto sussistono esclusivamente dove si verifica relazione, dove sono impliciti i presupposti dello “stare insieme”.
Si impara da bambini a litigare. Anche se prevale, da parte del mondo adulto, una modalità colpevolizzante di affrontare i conflitti infantili.
Il termine conflitto, dal latino conflictus, derivato del verbo confligere, composto da cum e fligere, presuppone dunque il prefisso che indica lo “stare insieme”, lo “scontrarsi insieme”. Il conflitto, il litigio, la contrarietà costituiscono un presupposto relazionale della condivisione, nello stare insieme, nella conoscenza, nella reciprocità delle dinamiche comportamentali tipiche del mondo infantile, nei rapporti microsociali della relazione, che caratterizzano anche il contesto adulto.
Attualmente la società sta attraversando un momento pedagogicamente critico per cui è importante realizzare un progetto comune di matrice educativa. Il fattore fondante di un percorso pedagogico creativo e proficuo consiste nell'affrontare con consapevolezza gli inevitabili conflitti per tentare di trasformarli in occasioni di crescita arricchenti e di conoscenza vicendevole e reciproca.
L'impegno necessario da parte di pedagogisti e educatori, appassionati e preparati, consiste nel cercare una terza via educativa. Un approccio pedagogico attento ed efficace, come il metodo maieutico, offre una proposta operativa naturale, e per questo rivoluzionaria, alternativa e innovativa, per aiutare i bambini a vivere bene il conflitto, la contrarietà, le discrasie relazionali, in un apprendimento primario che potranno attualizzare e praticare nelle esperienze esistenziali quotidiane, lungo tutto l'arco della loro vita. L'apparato educativo, il sistema formativo, tramite approcci pedagogici di carattere maieutico, possono creare e aprire una terza via educativa nei rapporti interrelazionali tra pari, bambini e adulti, senza presupporre un intervento esterno nell'ambito della situazione conflittuale, ma imparando a mediare e a gestire la contingenza e il contesto, che provocano contrasto e contrarietà, dall'interno della circostanza che si vive nell'attualità del presente, nel qui e ora.
Come pedagogisti crediamo nell'intima creatività del fanciullo, fin dai primi anni di vita, e nell'importanza di attivare, a partire dal litigio e dalla conflittualità, dinamiche comportamentali che conducano alla gestione dei conflitti e a contesti di pace, a livello microrelazionale, che stimolino, successivamente, il mondo adulto a favorire e creare presupposti di dialogo e gestione delle contrarietà e ad attivare processi di pace tra persone, popoli, genti e minoranze, a livello macrosociale, globale e universale, così da attivare percorsi che comportino lo scambio, il confronto esperienziale per superare il conflitto e i disagi impliciti in vari contesti relazionali e nella civiltà contemporanea.
L'approccio pedagogico maieutico deve operare per attivare processi di pace che investono le varie realtà in conflitto, per porre per sempre fine agli scontri bellici e alle cosiddette e surrettizie guerre umanitarie, preventive, sdoganate per missioni di pace: dal particolare all'universale.

Laura Tussi



Ancora bufale su piazza Fontana
Quando la smetteranno?

Aveva iniziato Paolo Cucchiarelli con Il segreto di piazza Fontana (Ponte alla Grazie, 2009), un testo infarcito di invenzioni su Pietro Valpreda e Giuseppe Pinelli. Un ponderoso volume (700 pagine) costruito su una serie di falsità, con infiltrati fascisti (Mauro Meli) nel Circolo anarchico Ponte della Ghisolfa mai esistiti, con presunti stragisti (Claudio Orsi) che il 12 dicembre 1969 si trovavano a centinaia di chilometri da Milano, per finire con l'accusa all'attuale direttore di “A” Rivista anarchica di essere l'anarchico (in realtà mai esistito) che non avrebbe allora confermato l'alibi di Pinelli. Accusa che gli costò una ritrattazione a pagamento sul Corriere della sera e su La Stampa.
Nella richiesta di archiviazione inoltrata al gip, nel maggio 2012 dai pm di Milano, e accolta nell'ottobre scorso, circa l'ultimo stralcio di indagini sulla strage di piazza Fontana, le tesi di Cucchiarelli relative all'esistenza di una “doppia bomba” e al coinvolgimento di Valpreda e Pinelli sono state definite di “assoluta inverosimiglianza”, così come “le dichiarazioni della fonte anonima in questione, utilizzate dal giornalista, palesemente prive di fondamento”. Non è dunque mai esistito il fantomatico mister X citato dallo stesso autore come fonte delle proprie “scoperte”.

L'ossessione del doppio
Nello stesso solco Stefania Limiti che ha invece teso, con alcune sue pubblicazioni, a rivisitare la storia di questo secondo dopoguerra producendosi in evidenti forzature della realtà. Illuminante l'introduzione de Il complotto. La controinchiesta segreta dei Kennedy sull'omicidio di JFK (Nutrimenti, 2012), con postfazione del solito Cucchiarelli, in cui si ipotizza che lo “schema operativo” approntato per assassinare nel 1963 il presidente americano sia stato utilizzato anche per la strage di piazza Fontana, con Valpreda al posto di Lee Oswald, mero burattino nelle mani di fascisti e servizi segreti (la stessa tesi de Il segreto di piazza Fontana). Emerge in questi due autori un'autentica ossessione per il “doppio” (le doppie bombe, le doppie identità), per cui tutti i protagonisti, loro malgrado, si palesano unicamente come marionette nelle mani degli apparati o dell'estrema destra. E non solo, siccome l'appetito vien mangiando, dal “doppio” si passa ora al “quadruplo”. A quando il raddoppio?
Enrico Maltini, autore della recensione
pubblicata in queste pagine, è
co-autore del volume “e a finestra
c'è la morti. Pinelli: chi c'era
quella notte” (Zero in condotta,
Milano 2013, pagg. 168, € 10,00). 
Maltini, negli anni a cavallo della
strage di stato, fece parte
(con Giuseppe Pinelli e alcuni altri)
della Crocenera Anarchica. 
L'altro co-autore, Gabriele Fuga,
avvocato, ha curato su questa rivista
per un periodo (negli anni '80)
la rubrica “L'avvocato del diavolo”.
Stralci dal loro libro sono stati
pubblicati in “A” 378 (marzo 2013)
Il mutante
È infatti la volta de L'infiltrato di Egidio Ceccato (Ponte alle Grazie, pp. 324, € 14,00, introduzione di Paolo Cucchiarelli), di genere fantastico, se non avesse la pretesa di considerarsi un lavoro storico. Il libro è infarcito di frasi del tipo: “Un elemento cardine di questa strategia è l'infiltrazione...”; “...a un certo punto l'anello anarchico si agganciò a quello dei gruppi marxisti-leninisti e nazimaoisti e ambedue finirono manovrati da menti di Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale...”; “...l'Andreola metteva a segno la sua infiltrazione...nel gruppo rivoluzionario di Feltrinelli e in quello anarchico...”; “...Chittaro Giuseppe aveva nel corso del 1969 infiltrato i circoli anarchici milanesi...”; “ ...viene infiltrato tra i gruppuscoli anarchici e dell'estrema sinistra...”; “E lo stesso Feltrinelli fu un ingenuo strumento nelle mani dei servizi e della destra, che lo fecero saltare letteralmente in aria mettendo in mano all'editore-bombarolo dei timer difettosi preparati appunto da quel Gunter che si era conquistato la fiducia tanto incondizionata quanto malriposta dell'imprenditore...”
E via di questo passo, tra “anarco-marx-lenin-nazimaoisti”(?), infiltrati, traditori e vittime ignare.
La storia narrata, incentrata sulla figura di un diabolico pluri-infiltrato di nome Berardino Andreola, è completamente campata in aria, come dimostriamo in queste brevi note. Avremmo potuto anche lasciar perdere, ma non possiamo accettare la presunzione – non solo di Ceccato – di poter tranquillamente affermare, senza prova alcuna, che gli anarchici sono perennemente preda di infiltrati e manipolatori, in balia di ogni burattinaio di passaggio e che così fu anche a Milano al tempo della strage di piazza Fontana.
L'infiltrato sarebbe tale Berardino Andreola, già coinvolto nel 1975 nel fallito sequestro in Sicilia dell'ex senatore democristiano Graziano Verzotto. Un delinquente comune, figlio di un maresciallo dell'Ovra e lui stesso fascista, più volte condannato per truffa, traffico d'armi e altri reati comuni, ma dipinto da Ceccato come abile spia di un oscuro servizio tedesco. Ebbene, ai tempi di piazza Fontana e negli anni seguenti, questa stessa persona si sarebbe “trasformata”, a fini di provocazione, assumendo nel tempo le generalità di ben altri quattro personaggi, variamente infiltrandosi tra gli anarchici e non solo.
I personaggi via via interpretati sono: un confidente di Allegra e Calabresi di nome Giuseppe Chittaro Job, poi un tale Giuliano De Fonseca, in seguito tale Umberto Rai e infine un uomo chiamato Gunther. Tutti costoro sarebbero la stessa persona, ovvero l'Andreola. Fin qui si potrebbe trattare di fantasie innocue, di cui il Ceccato si assume la responsabilità.
Ma l'autore dà anche per certo che il Chittaro si sarebbe davvero infiltrato fra gli anarchici, insistendo sui: “...contatti di Chittaro/Andreola con gli anarchici milanesi...” (ma quando mai?). Ma non solo, perché lo stesso Andreola sarebbe poi entrato in relazione, questa volta con il nome di Umberto Rai, ancora con “noti anarchici” e con Giangiacomo Feltrinelli, ed è con il nome di Gunther, sotto il traliccio di Segrate nel 1972, che l'Andreola/Gunther ne avrebbe volontariamente causato la morte, grazie alla manipolazione del timer che l'editore stava maneggiando, per poi dedicarsi, con il nome di De Fonseca, al depistaggio delle indagini sulla sua morte. Il tutto senza fornire il minimo riscontro o una prova. Sarebbe invero stata sufficiente qualche verifica per evitare figuracce e rendersi conto che si tratta di persone del tutto diverse tra loro. Una verifica sull'età ci dice che Andreola nacque a Roma nel 1928; Chittaro, come da rapporti di polizia e da certificato anagrafico di nascita, a Udine nel 1940; Rai nasce a Milano nel 1923, come da documentazione della questura di Milano e dal mandato di fermo del 15 dicembre 1969, mentre il Gunther risulta nato fra il 1927 e il 1931. Quanto alle morti, si sa di Andreola nel 1983, a 55 anni e di Gunther nel 1977.
Da altre verifiche si apprende anche che nel 1975 l'Andreola, dal carcere di Palermo, si propose come informatore sulle Br ai giudici di Torino, che dopo averlo sentito lo bollarono per “manifesta inattendibilità” e “calunnia”. Berardino Andreola, condannato per tentato sequestro a scopo di estorsione, rimarrà in carcere dal 1975 fino alla sua morte, nel carcere di Fossombrone, nel 1983.

Chi erano?
Ma chi erano nella realtà storica questi personaggi? Per ragioni di spazio, riportiamo solo alcuni elementi, ma molti altri ve ne sarebbero: Chittaro, di corporatura media, era un mezzo mitomane che nel 1969 bazzicava (a suo dire) l'ex hotel Commercio e l'allora casa dello studente occupati, nonché i gradini del Palazzo di Giustizia di Milano, dove l'anarchico Michele Camiolo faceva lo sciopero della fame. Uno che viveva di espedienti, non troppo alfabetizzato, (nelle sue lettere si legge ad esempio l'aradio, la scuadra politica...), più volte condannato per truffa, sostituzione di persona e anche traffico di armi (due fucili), ma che godeva di strani agganci in Francia e Svizzera presso questure e consolati. Con questo tizio aveva stretti rapporti il capo dell'ufficio politico della questura milanese Antonino Allegra, che sperò fortemente di trarre da lui confidenze determinanti per accusare gli anarchici, tanto da inviare il commissario Calabresi a Basilea, per un incontro con lui presso il consolato, addirittura il 13 dicembre, giorno dopo la strage. Una trasferta che si rivelerà del tutto infruttuosa. Anni dopo, nel 1980 – si noti che Andreola era in carcere – il Chittaro fu oggetto di numerosi articoli sul quotidiano Lotta continua, su l'Unità e altri giornali, perché coinvolto in una complicata e oscura storia di falsi documenti e depistaggi sulla morte di Feltrinelli. Chi lo incontrò allora ricorda che il Chittaro si vantava sempre di grande dimestichezza con l'editore.
Gunther era il soprannome di Ernesto Grassi, che non era un traditore né un assassino e non ha manipolato alcun timer, ma era operaio in una fabbrica di Bruzzano, con un'esperienza di partigiano in Valtellina, faceva parte dei Gap di Feltrinelli e la tragica sera del maggio 1972 era davvero con l'editore, ma doveva occuparsi del traliccio di Gaggiano e non di Segrate. Chi lo ha conosciuto descrive fisicamente Gunther come molto piccolo e minuto. Umberto Rai era al contrario molto alto e robusto, ex pugile ed ex partigiano, di professione pittore, con lievi precedenti per reati comuni, fermato a Milano dopo la strage perché in precedenza indicato da “fonte confidenziale” (Anna Bolena) come implicato nelle bombe sui treni dell'agosto '69. Rai frequentava allora, come molti “alternativi”, anarchici compresi, i locali di Brera e anche a lui furono chieste da parte di Allegra e Calabresi e, ancora una volta invano, confidenze sugli anarchici (su Paolo Braschi in particolare), come si ricava da un lungo interrogatorio in data 13 dicembre 1969.
Il Rai lavorò un paio di settimane per Feltrinelli, pare come guardiaspalle di Rudi Dutsche, ospite dell'editore. Nel 1969, testimoniò in Germania al processo per la strage nazista di ebrei del settembre 1943 a Meina sul Lago Maggiore, ma fu ritenuto inaffidabile dalla corte. Dal canto suo l'Andreola, nell'unica foto pubblicata nel libro e scattata nel 1977, appare un tipo normale e un po' sovrappeso.

Anche Pinelli e Calabresi
Ma le sorprese del nuovo libro non finiscono qui: l'autore non dà nulla per certo, ma lascia intendere che anche la morte di Pinelli e quella del commissario Calabresi sarebbero in larga misura riconducibili al ruolo del Chittaro/Andreola: ruolo di confidente “infiltrato negli ambienti anarchici”, che Pinelli avrebbe smascherato quella notte in questura, condannandosi così a morte. Mentre per Calabresi, oltre a ritenere che: “... si fosse troppo avvicinato a verità delicate in materia di traffici di armi ed esplosivi, non è da escludere neppure che egli stesse indagando sulla vera identità e sulla reale collocazione politica del soggetto incontrato a Basilea il 13 dicembre 1969 e presentatosi col nome di Giuseppe Chittaro”, dunque anche lui colpevole di aver scoperto il ruolo o i ruoli giocati dall'Andreola, di cui era prima all'oscuro.
Il contenuto di fondo del libro è che la strategia della tensione fu opera della parte più retriva della destra italiana, con la complicità di Cia & co e il ruolo chiave dell'Ufficio Affari Riservati, e fino a qui e senza entrare in dettagli, siamo alla versione ormai accettata da tutti. Ma la tesi che ci sta dentro è sempre quella degli anarchici sprovveduti e infiltrati, del Feltrinelli ingenuo e manipolato e, come nel libro si suggerisce, dandone per scontata la responsabilità, anche degli “eterodiretti” militanti di Lotta continua condannati per l'uccisione di Calabresi, che come burattini tirati da fili malefici eseguivano i calcolati disegni delle forze oscure della destra eversiva. Come Cucchiarelli, Ceccato non riesce a concepire che Pinelli, Valpreda e gli anarchici non c'entrassero assolutamente nulla con la bombe del 12 dicembre e che quello di Feltrinelli sia stato un incidente. Chittaro è certamente un personaggio oscuro, manipolato e manipolatore, ma non aveva nulla a che fare con l'Andreola e se davvero tentò di infiltrarsi tra gli anarchici, proprio non ebbe successo. Ovviamente anche nelle pagine di questo libro, come in quello di Cucchiarelli, fa capolino un misterioso mister X, questa volta chiamato “Anonimo mafioso”, intento a raccontarci vicende tanto oscure quanto indimostrabili. Siamo, in ultima analisi, di fronte una forma di intossicazione, consapevole o no che sia, di un pezzo di storia negli anni della strategia della tensione. Ceccato ha detto in una intervista che: “ ...su chi è stato (l'Andreola ndr) e su quanto ha fatto esistono riscontri ben precisi, capaci di riscrivere una nuova verità storica con cui la società, non solo italiana, dovrà per forza fare i conti”.
Trame e complotti contrassegnarono davvero quel periodo e la verità storica deve essere scritta. Ma un conto è studiarla, altro è inventarla.

Enrico Maltini

Questo articolo riprende, ampliandola, una recensione pubblicata su Il Manifesto del 16 ottobre 2013 a firma Saverio Ferrari, Enrico Maltini, Elda Necchi.



(Post)anarchismo queer/
Rapporti imprevedibili tra individualità e socialità

àltera, Collana di intercultura di genere diretta da Liana Borghi e Marco Pustianaz, ha appena pubblicato il saggio del ricercatore Samuele Grassi Anarchismo Queer un'introduzione (ETS Edizioni, Firenze 2013 pp. 201, € 18,00). Una miscellanea di contributi, quasi enciclopedica, per un'introduzione, appunto, al complesso, multiforme, variegato, inafferrabile “anarchismo queer”. “Un punto fermo, non scritto” dal quale cominciare, considerato che sul piano teorico lo studio è ancora tutto in divenire.
L'autore dichiara di voler esplorare connessioni possibili tra l'etica anarchica e le teorie queer allacciandosi all'ambito anglofono, per valutare se siano traducibili ad altri contesti come quello italiano.
La quarta di copertina ben ne sintetizza gli assunti: “Il queer mina alla base l'acronimo lgbt, si rifiuta di diventare l'ennesimo prodotto-immagine della cultura globalizzata, di essere cooptato dal neoliberismo; sfugge, sempre differente, inassimilabile”. Ancora: “L'anarchismo oggi è alla ricerca di nuove pratiche etiche della responsabilità, di libertà e solidarietà per negoziare rapporti imprevedibili tra individualità e socialità. All'incrocio di queste due pratiche teoriche e attiviste, l'anarchismo queer manda in crisi le opposizioni binarie come etero/omo, bianco/nero, teoria/attivismo, e le sostituisce con espressioni singolari, autonome, antiautoritarie, in continuo divenire antagonista”.
Samuele Grassi, nel condividere la riflessione teorica di Benjamin Shepard, individua affinità tra prassi postanarchiche e queer riconducibili alla scelta di “piacere” e “democrazia diretta” versus le logiche del profitto, mentre il concetto di libertà è basato sull'auto-determinazione che comprende anche “esperienze eclettiche, dinamicità e sperimentazione” e critica anti-essenzialista alla normatività.
Per una critica anti-normativa delle e sulle differenze di genere/sesso/sessualità, classe, razza, abilità, lo studio considera gli approcci metodologici dell'intersezionalità e dell'interculturalità, che permettono di vedere come le prime si realizzino nell'ambito della gestione biopolitica dei corpi, dimostrando zone di contatto e incontro tra i due approcci e la teoria queer.
Il queer mette in crisi il concetto di identità sessuali naturali, libera la sessualità così da poter contribuire al cambiamento sociale attraverso “la limitazione di ogni ordine morale imposto, a cominciare da quello che sottrae libertà ai nostri corpi”.
Al riguardo, l'attivismo pink intende sovvertire il primato delle strutture dicotomiche che legittimano le forme di potere tradizionali, attribuendo al colore l'indicatore della lotta a ogni forma di oppressione. Grassi sottolinea gli importanti contributi nell'ambito del teatro alternativo anche in Italia. L'aspetto ludico di certe pratiche, soprattutto quelle più teatrali, rappresentano prima di tutto un atto di sovversione perché viene a mancare la logica oppositiva dello scontro, che invece è strumentale ai procedimenti con cui il potere legittima la necessità di ricorrere alla violenza e alla repressione da parte delle forze dell'ordine. Sono forme di protesta antiautoritarie, modi alternativi di fare mondo, forme ludiche di resistenza effimere e imprevedibili.
In Italia, per democratizzare desideri e pratiche sessuali, “contro le politiche di disciplinamento dei corpi” un approccio aperto alla sessualità è stato portato avanti da gruppi e progetti antagonisti. Lo studio discute dei gruppi: Antagonismogay/ Maschieramenti, FrangettEstreme, Mujeres_Libres, Sexyshock di Bologna; A/Matrix, OrgogliosamenteLGBTIQ (Lesbian, Gay, Bisexual, Transgender, Intersex, Queer), Phag Off! e il collettivo Facciamobreccia di Roma; Pornflakes queer crew di Milano e la Torino Samba Band.
La ricerca del piacere è vista in termini affettivi anziché produttivi, come relazionalità anziché procreazione. Le tappe della lotta al potere si esplicitano, quindi, attraverso la pornografia come strumento di liberazione, la causa del sexwork, come lavoro autonomamente scelto e autogestito, oppure la sessualità restituita a una cultura delle relazioni capace di valorizzare le differenze, lontana dai ruoli e dagli irrigidimenti identitari. Il sesso kinky, invece, attraverso l'aspetto ludico dell'assunzione di ruoli, smaschera la realtà oppressiva delle relazioni di potere esistenti nella vita quotidiana
Nell'ambito della critica all'eteronormatività, il queer delegittima il valore intrinseco alle identità sessuali dominanti, anche attraverso un confronto con alcuni princìpi, da quelli di democrazia, pluralismo, singolarità, ai princìpi di etica, sostenibilità e responsabilità. Concetto quest'ultimo ripreso dal femminismo di Judith Butler, la quale propone “un'etica della responsabilità” che si apre all'incontro con e tra differenze, nel momento in cui il soggetto si rende umilmente consapevole della propria vulnerabilità, della non completa conoscenza di sé, aspetto che lo pone in necessaria relazione con l'Altro. E di questo se ne deve tener conto.
Sandra Jeppesen parla altresì del compito di praticare un'“etica nomadica e pluralista” in cui la nostra responsabilità verso il sé è connessa alla responsabilità profonda verso gli altri. Non c'è libertà del sé in assenza di quella degli altri.
Sempre all'interno della ricerca di nuove pratiche etiche, nella parte conclusiva del saggio si sottolinea che l'etica hacker è un'etica dell'anarchismo poiché è fondamentale riuscire ad accedere alla rete/networking, su cui si fonda internet, per un accesso libero e condivisione libera di saperi. Di importanza strategica l'Oral History Project, il monumentale archivio circolante in internet, che mette a disposizione documentazione di forme di relazionalità dissidenti e strategie politiche considerando la mobilitazione degli affetti, per una liberazione delle norme del sesso/genere. Comunque, aver accesso a computer, applicazioni, gestire in modo autonomo strumenti e informazioni, rifiutando ogni forma di autorità e controllo che possa impedire l'accesso alle conoscenze, significa utilizzare internet e l'informatica come una forma di arte, come strumento capace di migliorare il mondo. Quindi, l'etica hacker è un'etica libertaria che va oltre la contro-informazione per giungere a contrastare il monopolio informativo.
Nel tentativo di cogliere le molteplici sfaccettature del mondo queer, dal mio marginale punto di vista, considero importante che le proposte, sollecitazioni, dubbi sollevati, problemi aperti sempre soggetti a interrogazione non rimangano solo “nella sfera intimamente pubblica” di chi ha condiviso con l'autore il “viaggio collettivo” di collaborazione, come si legge nei “Ringraziamenti” all'inizio del saggio. In particolare, a proposito della circolazione dei saperi, credo si debba affrontare il problema della divulgazione su vasta scala per contribuire in modo costruttivo,– e non solo nell'impianto teorico per “sciogliere rigidità epistemologiche” –, a relativizzare gli schemi interpretativi, a non categorizzare, a pluralizzare i punti di vista.
Dare a tutt* la possibilità di includere letture possibili di mondi “altri” è un primo passo per non stigmatizzarli. La sessualità dovrebbe altresì essere al centro di una sensibilizzazione di ampio respiro. L'autore stesso ravvisa l'assenza di leggi in tal senso, per un'educazione sessuale nella scuola pubblica. Ma rimane aperta la questione relativa ai luoghi, alle figure designate a parlarne, sempre più difficile in un contesto come quello italiano in cui sono forti le pressioni normative di Stato e Chiesa. Un'educazione sessuale e alla sessualità rischia di proporsi come una diseducazione, se non comprende anche il riferimento alla sfera emotiva degli affetti, dei sentimenti, se non contempla quantomeno la conoscenza di progetti altri, oltre la famiglia, il matrimonio, la coppia, se non affronta la questione della decostruzione dei generi. Perché, se è vero che dipendiamo dall' Altr* – ma chi è l'Altr*? – è giusto che l'Altr* ne sia reso partecipe.
Conoscere, riflettere, ma allo stesso tempo esercitare la sospensione del giudizio sarebbe un modo per contrastare in modo efficace gli stereotipi nei quali navighiamo, e non solo in modo metaforico, nella quotidianità. Cominciando dal ripensare la lingua italiana con la quale veicoliamo i nostri pensieri e idee, attraverso la quale si esprimono e condividono “utopie rinnovabili di un mondo migliore”, e nella quale prevale, incontrastato, il “maschile plurale”.

Claudia Piccinelli



Anarchismo/
Più idee che movimento

Immaginiamo che una porzione del suolo d'Inghilterra sia stata livellata perfettamente, e che in essa un cartografo tracci una mappa d'Inghilterra. L'opera è perfetta. Non c'è particolare del suolo d'Inghilterra, per minimo che sia, che non sia registrato nella mappa; tutto ha lì la sua corrispondenza. La mappa, in tal caso, deve contenere una mappa della mappa, che deve contenere una mappa della mappa della mappa, e così all'infinito”.
Josiah Royce, Il mondo e l'individuo, 1899

Il paradosso di Royce, a maggior ragione nel caso della mappa di un movimento politico, mappa che si propone di descrivere un fatto storico nello spazio e nel tempo, è a mio avviso particolarmente illuminante.
Il compagno che affronta questa impresa, non solo fa parte della mappa ma, mediante il proprio lavoro, concorre in misura superiore alla media a costruire l'oggetto della mappa stessa.
Ne consegue che ogni storia dell'anarchismo e ogni antologia di testi anarchici va valutata non solo col pur necessario rigore storico e filologico, ma in primo luogo come fatto politico.
Che cosa dunque caratterizza Anarchismo. Le idee e il movimento (Laterza, Bari 2013, pp. 164, € 12,00) di Gianfranco Ragona? A mio avviso un interesse non usuale che data da lungo tempo, per esperienze e vicende che altre, e pur pregevoli ricerche, non hanno esaminato.
Mi riferisco certamente al rapporto tra anarchismo ed ebraismo, sul quale l'autore ha scritto diversi testi, quale ad esempio “Storia di un incontro. Un convegno su anarchici ed ebrei” in Umanità Nova (LXXX, n. 18, 21 maggio 2000).
Soprattutto credo sia rilevante il lavoro di scavo e di approfondimento nel merito delle vicende del movimento anarchico di lingua tedesca, e in particolare sul contributo di Gustav Landauer alla teoria e alla prassi anarchica. Su Landauer, fra l'altro, Gianfranco Ragona ha recentemente pubblicato Gustav Landauer anarchico ebreo tedesco (Editori Riuniti University press 2010).
È mia opinione, come affermavo in premessa, che nelle ricerche serie, e quella di Ragona lo è, il lavoro di scavo intorno alle radici e alle vicissitudini del movimento anarchico è funzionale in qualche misura alla reinterpretazione dello stesso anarchismo e del suo ruolo qui e oggi e in prospettiva. Se assumiamo l'ipotesi, che può sembrare provocatoria, che non vi sia un anarchismo ma diversi anarchismi, certamente è dirimente il peso che si dà alle diverse vicende che l'anarchismo ha attraversato. Ragona sicuramente ha un interesse precipuo per la sfera etica e per i tentativi di contro società.
Non è casuale, credo, che l'esito della ricerca di Ragona valorizzi più la funzione di stimolo culturale, pur ricchissimo, della teoria, più che il movimento anarchico come soggetto sociale e politico. Un'ipotesi sulla quale ho i miei dubbi, ma che merita di essere presa in seria considerazione.

Cosimo Scarinzi