rivista anarchica
anno 43 n. 384
novembre 2013




Le scoperte dell'America
e i fossili culturali

a cura di Felice Accame


1.
In Scienza, Gilberto Corbellini dice che “la discussione sull'uso civile del nucleare fa prevalere le istanze emotive, ovvero il modo distorto con cui valutiamo i rischi”. Sarebbe altresì noto, secondo lui, che “psicologicamente diamo più peso ai rischi meno probabili e che causano nell'insieme meno danni, e meno peso a quelli più probabili e che causano danni maggiori”. Tanto gli è sufficiente per bollare l'opposizione alla produzione di energia nucleare come un'assurdità, il cui “massimo” – sebbene non sembri c'è una sua coerenza nell'argomentazione – si toccherebbe “quando sono in discussione, non dappertutto ma in paesi come l'Italia sì, la coltivazione e la commercializzazione degli organismi geneticamente modificati”. Questo suo modo di argomentare è un gioiello di retorica: della questione non si fa neppure cenno, mentre l'attenzione viene spostata sul modo con cui viene percepita; di scorie radioattive e di inquinamento del pianeta non si parla, ma di “psicologia” sì e, dimenticando il determinato – i danni certi –, la si butta sul calcolo delle probabilità e sul peso che un soggetto ignoto ed eletto a rappresentanza universale assegna ai risultati di questo calcolo. Anche se non si sapesse che Corbellini è al servizio di multinazionali e Confindustria, non mi si dica che questo – alla faccia dell'“obiettività della scienza” – non è un tipico caso di obiettivo negoziato “sulla base dei rapporti di forza politici ed economici”.

2.
Nello stesso libro, Corbellini trova modo di sfogarsi contro quella che lui ritiene essere la pericolosa concezione “costruttivista” della scienza che si baserebbe sulla convinzione che “non esiste una realtà data a priori”, “non esistono verità universali o indipendenti dai punti di vista”, “non ci sono fatti” ma “solo interpretazioni”. Va da sé che, usando i verbi “esistere” ed “essere” – ovviamente senza chiedersene il significato né, tantomeno, venendo sfiorato dal dubbio di doverne rendere conto –, Corbellini, sulla scia dei molti che l'hanno preceduto nella storia della filosofia, ottiene il risultato di ridicolizzare le tesi avverse. Ma non si ferma lì, perché, utilissima per la sua argomentazione, ci sarebbe anche una “versione culturale e sociale” di costruttivismo che “implica che ogni conoscenza è solo ciò che viene messo in pratica nei contesti quotidiani e istituzionali, ovvero nelle interazioni e nelle negoziazioni tra individui o comunità culturalmente situate”. Secondo questa versione, allora, la scienza sarebbe “un'impresa che mira al raggiungimento di obiettivi socialmente attesi e negoziati sulla base dei rapporti di forza politici ed economici” – ecco proprio il caso suo – e il suo scopo, allora, “non sarebbe il conseguimento di una conoscenza oggettiva”. Come evitare di concluderne che “l'epistemologia costruttivista è insensata”? Non solo: come evitare di far notare che questa “epistemologia” è “solo una forma più sofisticata di relativismo, cioè, in ultima istanza, di idealismo” e che, come tale, è “dannosa”?

3.
Per Corbellini, “il pensiero magico si sviluppa come un modo spontaneo di categorizzare i cambiamenti nell'ambiente sulla base dell'imprinting cognitivo che ci induce ad attribuire, in assenza di esperienze correttive, cause invisibili e animate ai cambiamenti nello scenario circostante” e la scienza “verosimilmente e almeno in parte” ne sarebbe una “continuazione” – nella sua forma “pura” sarebbe “un'invenzione di figure religiose dedite alla speculazione”. Ciò non ostante, il “metodo scientifico” consisterebbe in un processo “attraverso il quale degli individui operano per costruire una rappresentazione del mondo affidabile e intersoggettiva”. Sui criteri per stabilire questa affidabilità e questa intersoggettività, ovviamente, si tace, perché, in caso contrario, si verrebbe ad ammettere che un criterio di “oggettività” non è disponibile e, pertanto, si ridarebbe fiato alle istanze costruttiviste. Il problema di distinguere nettamente la “scienza” dalla “pseudoscienza” (o più semplicemente dalla non-scienza) se lo sarebbero inventato i “filosofi”, dal cui sapere gli scienziati sarebbero immuni.

4.
Giusto a questo nodo – scienza e non-scienza, oggettività dei suoi risultati, realismo e costruttivismo (non caricaturale) – si riferisce ancora Lucio Russo ne L'America dimenticata. Se n'era già ampiamente occupato ne La rivoluzione dimenticata di cui quest'ultimo libro può essere considerato un importante corollario. In entrambi i libri dimostra brillantemente come, ad un dato punto della storia dell'intreccio tra scienza e filosofia, enti di cui c'era piena consapevolezza in ordine alla loro teoreticità siano stati spacciati per concretezze di realtà indipendenti da noi che li categorizziamo come tali. E in entrambi i libri la tesi è sempre quella: grazie ai romani e ai cristiani il sapere accumulatosi fino a tutta l'età ellenistica – o fino al secondo secolo prima di Cristo – è andato perduto. Oltre alla svista di prendere lucciole per lanterne (o mappe per territori, più esattamente, svista in cui cade ancor oggi un Corbellini), in questo sapere c'era, per esempio, la sfericità della Terra e la sua corretta misurazione e il sistema eliocentrico di Aristarco di Samo. La tabula rasa voluta da romani prima e cristiani dopo ha fatto sì che ci si ritrovasse con la Terra al centro dell'universo, piatta e ridotta nelle sue dimensioni, nonché con le Colonne d'Ercole invalicate e invalicabili. Così è stato possibile costruire il mito di Colombo che scopre un'America che, invece, era stata scoperta e riscoperta più volte ben prima di lui. Che il mito di Colombo, poi, sia servito ad alimentare racconti di ordine consolatorio e fomentatori di razzismo non ha fatto che promuoverlo ulteriormente. Che la Storia che ci è propinata non stia in piedi – che troppe testimonianze di comunicazioni debbano essere ignorate o mal interpretate (Russo riferisce dell'umoristico caso degli ananas: raffigurazioni romane del terzo secolo dopo Cristo rappresentano chiaramente ananas insieme ad altri frutti e, tuttavia, è stato dimostrato che gli ananas sono originari del centro America. Come fanno ad essere lì dove stanno ben prima che Colombo “scoprisse” l'America? Gli storici “benpensanti”, quelli che non vogliono trovare crepe nel paradigma che prescrive la mancanza totale di contatti pre-colombiani, spiegano la cosa adducendo l'inettitudine degli artisti romani, che, “in realtà”, avrebbero voluto rappresentare altri frutti ma non ci sono riusciti. Gli ananas, dunque, sarebbero frutti di un errore ripetuto, peraltro, più volte) – non sembra preoccupare più di tanto coloro che usano di questa Storia ai fini della propaganda ideologica.

5.
L'analisi di Russo costituisce un ottimo esempio di come porti lontano una correzione apportata alla Storia. Se gli “antichi contatti transoceanici” sono dimostrati (i Vichinghi in America settentrionale intorno all'anno 1000, per esempio) si viene ad eliminare “il principale pilastro a fondamento della teoria dello sviluppo parallelo di tutte le civiltà attraverso le stesse fasi”, ovvero l'idea di una storia umana consistente di una “serie di evoluzioni parallele, progressive e lineari, rette da leggi definite” in ragione della quale “tutte le culture sarebbero ordinabili secondo una scala universale, ottenuta trasferendo in impliciti giudizi di valore un dato virtualmente cronologico (un po' come si fa parlando di 'età mentale' dei ragazzi)”. Dall'accettazione della tesi, infatti, discenderebbe che sarebbe “naturale” considerare “primitive” le culture diverse dalle nostre – che sarebbero, allora, perlopiù, “ritardatarie”; dal suo rifiuto – dalla sua confutazione – discenderebbe, invece, che “le civiltà diverse della nostra” non possono più “essere valutate in base a quanti elementi comuni ai nostri posseggono”, ovvero paradigmate su di noi. In gioco, allora, ci sono le fondamenta di ogni determinismo biologico. Russo osserva in proposito che “se si è convinti che tra due civiltà non vi sia stato alcun contatto, la presenza di elementi condivisi può sempre essere considerata un effetto dello scarso numero di possibilità a disposizione dell'uomo e del peso delle caratteristiche biologiche della specie umana nella costruzione della cultura. Ogni scoperta di un elemento comune può essere usata sia per difendere l'ipotesi dei contatti sia a favore del determinismo biologico”, ma è chiaro, aggiungo io, che se gli elementi comuni sono sistemati in un contesto cronologico, ovviamente, le possibilità interpretative si restringono.

6.
“La nozione di sfericità della Terra”, spiega Russo, “non svolgeva alcun ruolo nell'Europa medievale, che ignorava la cartografia scientifica, le coordinate geografiche e la possibilità di tracciare rotte marittime su base teorica”. Casi di questo genere sono molteplici. La rivoluzione dimenticata annovera fra gli altri casi che riguardano l'uso del vapore, la misurazione del tempo, i cannocchiali o le consapevolezze euclidee circa la relatività del moto. Tutti risultati destinati ad essere “riscoperti” come nuovi, “inventati” successivamente. Rende bene l'idea l'analogia con l'evoluzione biologica, dove “capita spesso che in una specie persistano organi o strutture che hanno perso del tutto la funzione che avevano in un antenato”. Sono “elementi vestigiali” – come, nell'uomo, l'appendice o il coccige – e, dice Russo, se “in una cultura si trova un elemento suscettibile di svolgere un ruolo importante, ma ciononostante completamente inutilizzato si può essere certi che si tratta di un relitto proveniente da una cultura diversa”. In un altro libro – Flussi e riflussi – in pratica era riuscito a dimostrare che il rapporto tra teoria corretta delle maree e teoria della gravitazione universale andava rovesciato, perché erano state le idee relative alle prime a favorire la seconda e non viceversa. Si può dunque parlare di fossili culturali, di conoscenze fossili che, ogni tanto, casualmente, possono riemergere dal buio della storia illuminandoci all'improvviso sul corso di una storia che, allora, diventa più coerente e più comprensibile. E qui finisce l'analogia tra evoluzione culturale ed evoluzione biologica, perché ogni processo di fossilizzazione, nella prima, non è privo di responsabili. Resta da considerare, infatti, il ruolo di chi, ad un certo tipo di sapere, si oppone con tutti i mezzi che ha a disposizione. O in nome o per conto del potere dei pochi – dei pochi autorizzati a sapere “come stanno le cose” –, ogni accenno di costruttivismo, nella storia delle idee, è stato ostacolato sul nascere, cancellato, sepolto accuratamente, occultato alla vista dei tanti – ridotto a fossile culturale da parte dei Corbellini di turno.

7.
Su molte versioni di costruttivismo – su quelle che possono più o meno esser rappresentate come le ha rappresentate Corbellini –, ovviamente, non si può che esser d'accordo con lui. Ma se a rappresentare le istanze di fondo del costruttivismo – quelle che partono dalla autocontraddittorietà della filosofia del conoscere e del realismo che, come dogma religioso, è chiamato a metterci una pietra sopra – fossero espresse altre tesi – per esempio, quelle che, liquidata ogni forma di filosofia, partono dalle necessità dell'analisi dei rapporti tra linguaggio e pensiero e della riconduzione a operazioni mentali dei significati – ecco che il giudizio cambierebbe. Il costruttivismo di cui parla Corbellini è una caricatura di comodo ben funzionale all'imposizione del realismo ed alle forme di potere che viene a legittimare.
L'impostazione metodologica di Lucio Russo può essere definita costruttivista già nel fatto del suo interrogarsi costante sull'origine delle categorie e dei nomi che in qualche modo (a volte davvero alla meno peggio) le rappresentano cui andrebbe aggiunto il suo atteggiamento critico nei confronti degli usi realistici di enti teorici (quindi “costruiti”) come nei confronti delle ricadute idealistiche di certa fisica novecentesca. Tuttavia la sua concezione della “scienza” mi lascia perplesso. Per esempio, lui dice che “il fatto che nessun'altra civiltà abbia reinventato indipendentemente il metodo scientifico, riapparso solo dove è stato possibile recuperare testi dell'antica scienza” (ellenistica, in parte, II secolo aC) “depone (…) a favore dell'ipotesi che tale metodo avrebbe potuto essere perduto definitivamente, come si può immaginare sia avvenuto in passato per altre conquiste”. È chiaro, allora, che anche lui – come coloro che lo ascrivono a questo o a quello, vuoi che sia Anassimandro o vuoi, in una versione popolarissima e truffaldina, che sia Galileo – vincola la nascita della scienza ad un posto e ad un momento dovendo dunque poi ipotizzare il perché proprio di questo posto e di questo momento fra i tanti. In un modo o nell'altro, dunque, prefigura una sorta di discontinuità. Riconducendo, invece, la procedura scientifica alla sanatura delle differenze da un paradigma – e alla coerenza con le sanature poste in precedenza –, nonché alla sua riducibilità ad istruzioni positive e non metaforiche, come tali trasmissibili ed eseguibili da chiunque, ecco che non ci sarebbe più bisogno di circostanze speciali per spiegarne la nascita. Il procedere di chi si accinge a preparare un piatto di spaghetti è scientifico quanto quello del chimico e del fisico alle prese con reazioni più e meno a catena, mentre – con buona pace del “progressista” Corbellini – non è scientifica affatto la procedura della magia vincolata com'è, poco democraticamente, alla specialità della persona che la esercita.

Felice Accame

Nota
Scienza di Gilberto Corbellini è stato pubblicato da Bollati Boringhieri, Torino 2013. Dell'autore mi sono già occupato in Il maoista platonico e l'etologo (“A”, 38, 339, novembre 2008). L'America dimenticata di Lucio Russo è stato pubblicato da Mondadori Education, Milano 2013; La rivoluzione dimenticata e Flussi e riflussi sono stati pubblicati da Feltrinelli, Milano, rispettivamente nel 1996 e nel 2003.