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				 interviste 
                  
                Noi registe 
                  
                interviste di Sandra D'Alessandro  a Marina Spada e di Isabel Pérez Ortega a Chus Gutierrez 
                  
                
                  Una regista italiana e una spagnola, 
                    due storie diverse, una comune sensibilità.  
                    
                   
                  
                        
                Il mio sguardo, altrove 
                  
                intervista di Sandra D'Alessandro a Marina Spada 
                    
                Avere attenzione e vibrare per il dolore dell'altro, agire 
                    per la giustizia sociale. 
                 
                  Ho incontrato Marina Spada un 
                  paio di mesi fa, alla Libreria delle donne, dove presentava 
                  il suo ultimo film, Il mio domani, del 2011, e ho colto 
                  al volo l'occasione per chiederle un'intervista per A; ha accettato 
                  subito con spontaneità e gentilezza. Marina non ama gli 
                  applausi, i complimenti, i riflettori; però è 
                  estremamente disponibile e i suoi lavori rivelano intelligenza, 
                  empatia e profondità dello sguardo. 
                  Ci incontriamo alla Fabbrica del vapore, una delle tre sedi 
                  in cui si sta svolgendo la rassegna di cinema delle donne Sguardi 
                  altrove. Diluvia, ed è un peccato, perché 
                  la pioggia battente e il freddo umido penalizzano la rassegna: 
                  chi può, se ne sta a casa. 
                   
                  Se sei d'accordo, Marina, comincerei dalla tua formazione. 
                  «Sono laureata in Lettere con indirizzo musicale, per 
                  la precisione in Storia della musica, perché qui a Milano 
                  era l'unica possibilità di studiare quello che mi interessava, 
                  o almeno credevo. Infatti al primo esame, quando il docente 
                  mi ha chiesto perché avessi scelto quel corso di studi, 
                  ho risposto che volevo fare la tesi sui Rolling Stones; al che 
                  lui mi dice: “Guardi che ha sbagliato, avrebbe dovuto 
                  iscriversi ad Antropologia culturale”! Ho deciso di continuare, 
                  perché comunque conoscevo molto bene l'opera, di cui 
                  mio padre era appassionato, e così mi sono ritrovata 
                  a studiare da Monteverdi, da cui è cominciato tutto, 
                  a Gianfrancesco Malipiero, ed è stato bello e interessante». 
                   
                  Hai studiato anche qualche strumento musicale? 
                  «No. Per qualche anno ho seguito le tournées di 
                  alcuni musicisti, ma non facevo niente di importante, aiutavo 
                  qua e là, dove c'era bisogno. Ho anche lavorato a canale 
                  96, la prima radio libera di sinistra in Italia». 
                
                   
                      | 
                   
                   
                    |   Marina Spada  | 
                   
                 
                 Come è avvenuto il passaggio al cinema? Hai studiato 
                  alla Scuola di cinematografia, qui a Milano? 
                  «No. Nel 1979 ho vinto un concorso in Rai e sono entrata 
                  come aiuto regista sia per programmi televisivi che film per 
                  la televisione, che allora si facevano internamente, ed è 
                  lì che ho imparato a fare cinema». 
                   
                  Caspita, hai fatto tutto prestissimo! 
                  «Nel 1983 ho lavorato anche con Benigni e Troisi alla 
                  lavorazione del film Non ci resta che piangere, ma è 
                  un' esperienza che non mi ha soddisfatto, non mi è piaciuto 
                  il modo in cui si lavorava a Roma: maschilista e direi anche 
                  vessatorio. Però a Milano c'erano poche possibilità 
                  di fare cinema, ecco perché sono entrata in Rai». 
                   
                  Se non sbaglio hai cominciato coi cortometraggi. 
                  «Sì, ma poi sono passata ai videoritratti. Il primo, 
                  C'era una volta l'America, del 1992, è dedicato 
                  a Fernanda Pivano: più che un documentario è una 
                  documentazione. Ho avuto solo tre ore di tempo, perché 
                  era già molto ammalata. Fernanda è stata un personaggio 
                  importantissimo, è lei che ha portato in Italia la poesia 
                  e la letteratura della Beat Generation, che è stata un 
                  faro per la nostra generazione, e anche per me naturalmente». 
                   
                  Quindi è questa la tua formazione letteraria? 
                  «Sì, e la poesia, per la quale ho una vera passione. 
                  Comunque il mio primo video, di solo 10 minuti, Anna dai 
                  capelli rock, è del 1981, e ha come oggetto le donne 
                  nelle bande giovanili a Milano. Purtroppo è andato perduto, 
                  non l'ho più neanche io, e mi dispiace moltissimo». 
                   
                  Sì, è un vero peccato, sarebbe stata un'importante 
                  documentazione storica, oltre che artistica. Gli altri videoritratti 
                  chi riguardano? 
                  «Lo scultore Arnaldo Pomodoro, lo scrittore Francesco 
                  Leonetti1, quello del Gruppo 
                  63 e poi di Alfabeta, amico della Morante, i fotografi Mimmo 
                  Iodice, Mario De Biase e Gabriele Basilico2. 
                  Con loro si parlava molto, cosa che oggi non si fa più, 
                  e mi hanno dato tantissimo, mi hanno formato culturalmente e 
                  come persona, soprattutto Gabriele Basilico. Gli facevo la posta 
                  dal 1982, dopo la mostra “Ritratti di fabbriche” 
                  alla Triennale. È stato in seguito invitato dal Datar 
                  (organo del governo francese per attuare la pianificazione statale), 
                  a documentare, insieme ad altri fotografi, le trasformazioni 
                  del paesaggio transalpino: le opere furono esposte a Tokyo nel 
                  1985 in una grande mostra collettiva. Ho sempre seguito il suo 
                  lavoro. Era di grande disponibilità e gentilezza d'animo; 
                  non l'ho mai sentito parlar male di nessuno, cosa rara negli 
                  ambienti artistici. La relazione con lui è stata fondante. 
                  Il mio sguardo deve molto al suo; andavamo in giro per Milano 
                  la domenica mattina all'alba, perché la città 
                  ci piaceva così, senza persone e senza macchine. Gli 
                  devo la progettualità dello sguardo su Milano, soprattutto 
                  nel mio secondo film, Come l'ombra. Gabriele diceva: 
                  “Milano è la palestra del mio sguardo”». 
                   
                  Come è nata l'idea dei videoritratti dei fotografi? 
                  Come sono stati finanziati? 
                  «Ho fatto undici videoritratti di grandi fotografi, e 
                  ho avuto modo di conoscerli bene; sono relazioni che restano. 
                  Li frequenti per un lungo periodo, parli, poi fai il video. 
                  Il culmine di questo percorso è Poesia che mi guardi 
                  sulla poetessa Antonia Pozzi, unica non vivente, prodotto da 
                  Renata Tardani. Trovare finanziamenti è stato un vero 
                  problema, ma lo rifarei: non sono una cui piace lamentarsi. 
                  Però un paese che non conserva la propria memoria e non 
                  ha rispetto dei propri artisti è allucinante. Un esempio 
                  è la fondazione Pomodoro, che ha dovuto cambiare diverse 
                  sedi; adesso è vicina al suo studio, ma è piccola. 
                  Fernanda Pivano aveva fotografie, carteggi, documentazione sulle 
                  proprie traduzioni e i titoli concordati con gli autori americani: 
                  tutta roba che stava prendendo il volo per l'America. Nessuno 
                  si occupava dell'archivio. Ora è proprietà di 
                  Benetton3». 
                   
                  Il tuo primo lungometraggio, Forza cani!, del 2002, è 
                  stato rivoluzionario sul piano della realizzazione. 
                  «È stato rivoluzionario su tutto. Per l'uso delle 
                  tecnologie digitali, ma anche perché è stato un 
                  vero modello di produzione indipendente: cercavamo finanziamenti 
                  anche su internet». 
                   
                  Le protagoniste dei tuoi film sono tutte donne: come mai? 
                  «Perché le donne sono diverse. È chiaro 
                  che anche gli uomini sono diversi. Ma per le donne è 
                  tutto più difficile. Parlo della loro solitudine». 
                
                   
                      | 
                   
                   
                    |   Claudia Gerini in una scena di Il mio domani  | 
                   
                 
                 A me è piaciuto moltissimo Come l'ombra, (lungometraggio 
                  del 2006, NdA) l'ho visto diverse volte. Mi emoziona. 
                  «A te emoziona. Gli uomini si annoiano, dicono che in 
                  quel film non succede niente». 
                   
                  A parte il fatto che non è vero che non succede 
                  niente: c'è una tragica storia di una donna sola, immigrata, 
                  che irrompe casualmente nella vita di un'altra donna, italiana, 
                  inserita ma altrettanto sola, della loro amicizia, e della solidarietà 
                  che porterà la protagonista a fare un viaggio nel paese 
                  d'origine della amica assassinata; non mi sembra poco. Forse 
                  gli uomini hanno bisogno dell'azione compulsiva e alienata del 
                  cinema americano? Comunque anche nei film di Wim Wenders non 
                  succede niente, eppure... 
                  «Appunto». 
                   
                  Non ti è mai venuto il dubbio che parlino così 
                  per invidia? 
                  «No. E poi, invidia di che? Non mi sono arricchita, non 
                  sono diventata famosa, e insegno ancora alla Scuola di cinematografia. 
                  Per carità, non rinuncerei mai a questo lavoro. Per me 
                  il rapporto coi ragazzi è fondamentale. E comunque il 
                  lavoro non è la vita. La vita è altro. Sono i 
                  rapporti con gli altri che contano». 
                   
                  Come l'ombra è un verso di una poetessa 
                  russa. 
                  «Sì, di Anna Achmatova. Sono stata a San Pietroburgo 
                  a visitare la sua casa. I versi che compaiono alla fine del 
                  film sono tratti dalla poesia A molti del 1922: “come 
                  vuole l'ombra staccarsi dal corpo/come vuole la carne separarsi 
                  dall'anima/così io adesso voglio essere dimenticata”». 
                  Tutti i titoli dei miei film sono tratti da poesie: Forza 
                  cani! è il titolo di una poesia di Nanni Balestrini; 
                  Il mio domani è un verso di Antonia Pozzi4: 
                  “Se chiudo gli occhi a pensare/quale sarà il mio 
                  domani/vedo una lunga strada/che sale/dal cuore di una città 
                  sconosciuta”. 
                   
                  Vuoi parlare un po' di Poesia che mi guardi? 
                  «È il mio ultimo videoritratto, del 2009, ed è 
                  stato un atto di coraggio decidere di produrlo, perché 
                  cosa poteva importare e a chi di una poetessa sconosciuta, morta 
                  suicida a 26 anni nel 1938? Mi interessava il suo isolamento 
                  come artista e come donna. A 17 anni era fotografa, scalava 
                  montagne, scriveva poesie. Nel video ho inserito i filmati di 
                  famiglia, il che ha permesso di avere come protagonista l'Antonia 
                  Pozzi vera, non una tizia qualsiasi che si aggira per il set 
                  vestita da Antonia Pozzi. Il titolo è tratto da Preghiera 
                  alla poesia». 
                   
                  La grande protagonista di tutti i tuoi film è la 
                  città di Milano. 
                  «Sono nata a Milano e non potrei vivere in nessun altro 
                  posto. A volte mi capita di dire che non mi sono spostata perché 
                  ero, e sono, innamorata di Milano e qui c'è la mia identità». 
                   
                  Le riprese sono davvero stupende. A volte la riconosci 
                  subito, altre volte sembra una qualsiasi metropoli del pianeta, 
                  come ne Il mio domani. Le immagini sono 
                  talmente belle che non c'è bisogno di commento musicale, 
                  anzi, a volte a me ha dato un po' fastidio, anche se la colonna 
                  sonora era di Paolo Fresu. 
                  «Anch'io mi chiedo sempre: ma ho bisogno della musica 
                  per esprimere ciò che desidero? Le immagini da sole non 
                  bastano? La risposta è: sì che bastano, e infatti 
                  di musica nei miei film ce n'è pochissima; la colonna 
                  sonora è forse una concessione che si fa allo spettatore, 
                  quando non strettamente necessaria». 
                   
                  A proposito, lavori come i tuoi devono avere difficoltà 
                  sia nella produzione che nella distribuzione. 
                  «Infatti. Da qualche anno però ho un produttore 
                  che è un vero professionista, un imprenditore serio, 
                  che dal suo lavoro si aspetta profitti perché deve distribuire 
                  stipendi; quindi le cose vanno molto meglio, rispetto al passato». 
                   
                  Chi sono i tuoi registi preferiti? 
                  «Il giapponese Yasuj Ozu, Wim Wenders (che a Ozu ha dedicato 
                  nel 1985 il documentario Tokyo-Ga e che ebbe a dire: 
                  “La cosa più simile al paradiso che abbia mai incontrato 
                  è il cinema di Ozu”. NdA), Michelangelo Antonioni, 
                  soprattutto Il grido ma anche altri». 
                   
                  E Fellini ti piace? Io da giovane non lo potevo soffrire, 
                  ma ho rivisto tutti i suoi film lo scorso anno, e devo ammettere 
                  il suo genio. Credo di poter collocare il suo Casanova 
                  tra i top ten. 
                  «A me è successa un po' la stessa cosa. Non mi 
                  piace l'immagine che fornisce della donna, troppo maschilista. 
                  Ma La strada e ancor più Le notti di Cabiria 
                  li trovo straordinari». 
                   
                  Progetti per il futuro? 
                  «Sto lavorando a due videoritratti». 
                   
                  Visto che questa intervista sarà pubblicata su 
                  una rivista anarchica, vuoi dirci qualcosa sul tuo pensiero 
                  politico? 
                  «Penso che politica sia avere attenzione per l'altro. 
                  E avere attenzione per l'altro e vibrare per il dolore dell'altro, 
                  così come agire per la giustizia sociale è di 
                  sinistra». 
                 Grazie Marina. Vedremo con piacere i tuoi prossimi videoritratti. 
                 Sandra D'Alessandro 
                Note
 
                  - Nato nel 1924 a Cosenza, amico di Pasolini, con cui ha lavorato 
                    a due film e fondato la rivista Officina; ha fondato 
                    anche la rivista Che fare? e ha insegnato filosofia 
                    ed estetica dell'arte all'Accademia di Brera. 
                  
 - Nato a Milano nel 1944 e ivi morto lo scorso febbraio, è 
                  famoso per aver fotografato le periferie e le architetture industriali 
                  dimenticate, che il suo obiettivo fa assurgere a veri e propri 
                  reperti archeologici. Ha fotografato le più grandi città 
                  del mondo, nonché la città di Beirut distrutta 
                  dalla guerra.
                  
 - È attualmente in corso una contesa tra la fondazione 
                  Benetton e l'ex editore Michele Concina, erede legale della 
                  Pivano, per il possesso del materiale conservato nella biblioteca. 
                  In seguito a ciò, dal 1° gennaio 2013, i servizi 
                  al pubblico della Biblioteca Riccardo e Fernanda Pivano sono 
                  sospesi fino a data da destinarsi. (NdR)
                  
 - Milano, 1912-1938. Figlia di un avvocato e di una contessa, 
                  nipote di Tommaso Grossi. Frequentato il liceo classico, si 
                  laurea in filologia, con una tesi su Flaubert sostenuta con 
                  Antonio Banfi, docente di estetica. La famiglia negò 
                  il suicidio, considerato scandaloso, affermando che Antonia 
                  morì di polmonite.
  
                  
                  
                
                   
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                    |   Chus 
                        Gutiérrez durante la lavorazione di un film  | 
                   
                 
                 
                   
                Il cinema è potere e noi donne... 
                  
                intervista di Isabel Pérez Ortega a Chus Gutiérrez 
                    
                La società cambia attraverso l'immaginario e se l'immaginario 
                  lo costruiscono solo gli uomini, se la storia la costruiscono 
                  solo gli uomini, è molto difficile cambiare comportamenti, 
                  cliché, modelli di condotta.... 
                 
                  Chus Gutiérrez, classe 
                  1962, è una regista, produttrice, attrice, sceneggiatrice 
                  e musicista spagnola, da sempre impegnata nell'indagine della 
                  realtà e della società che la circondano: numerosi 
                  premi e riconoscimenti hanno confermato nel tempo l'apprezzamento 
                  del suo lavoro da parte di critica e pubblico. Negli anni '80 
                  studia cinema a New York, dove comincia a girare i primi cortometraggi, 
                  e sempre in questo periodo fonda il gruppo di flamenco-rap delle 
                  Xoxenees. Tornata in Spagna, si dedica a pieno al mondo del 
                  cinema e della televisione: dirige, recita, scrive e produce, 
                  non lesinando incursioni nella videoarte e nel teatro, collaborando 
                  anche a diversi progetti collettivi. Nel 2007 contribuisce alla 
                  creazione dell'Associazione di donne del cinema e dei mezzi 
                  audiovisuali (Cima). 
                   
                  Sceneggiatrice, attrice, produttrice, regista... Con quale 
                  lavoro ti diverti di più? 
                  «Con tutti, ora sto tenendo un corso che mi sta anche 
                  divertendo molto. Alla fine è tutto connesso. Il lavoro 
                  di creazione ha molto in comune con la necessità di comunicare, 
                  di inventarsi storie. Credo che tutto il lavoro creativo abbia 
                  molto in comune. Dato che abbiamo solo una vita, non c'è 
                  tempo per fare tutto quello che vorresti. Quello che mi piace 
                  di meno è la produttrice, lo faccio per necessità, 
                  è l'unico modo per portare avanti alcuni prodotti». 
                   
                  Esiste il cinema delle donne? 
                  «È più facile dire che il cinema delle donne 
                  non esiste, no? L'altro giorno sul País è uscita 
                  una notizia: al Festival del cinema di Berlino è stato 
                  convocato un incontro fra cineaste, francesi e tedesche, per 
                  discutere del perché il cinema diretto dalle donne è 
                  il 5 virgola qualcosa per cento, quando noi donne siamo la metà 
                  della popolazione». 
                   
                  Da qui la necessità di produrre determinate cose, 
                  suppongo... 
                  «Mah, credo di sì, ha a che vedere con questo, 
                  sì...» 
                   
                  Quali sono i tuoi registi/le tue registe di riferimento, 
                  le tue influenze? 
                  «Be', ci sono persone di cui mi piace il percorso in generale, 
                  ma credo anche che ci siano più pellicole che mi hanno 
                  segnata, che mi sono piaciute nel tempo e che in alcuni momenti 
                  possono ispirarmi. Ma me ne piacciono alcune di Woody Allen, 
                  non tutte, mi piacciono alcuni film di Wintterbottom, mi piace 
                  Jane Campion, soprattutto i primi film, mi piace Lezioni 
                  di piano, mi piace Taxi driver, mi piace Blade 
                  runner, mi piacciono un'infinità di film. Casablanca... 
                  Non so, è che a volte e all'improvviso dici: Ah, che 
                  film meraviglioso! 
                  Mi è piaciuto molto Amour, di Haneke. Ma può 
                  essere una fonte di ispirazione anche andare a un concerto o 
                  a vedere una mostra d'arte o un'opera teatrale... l'arte è 
                  tutta interconnessa.» 
                   
                  Avere un gruppo musicale con delle amiche, scrivere sceneggiature 
                  con amici e amiche, recitare in film di amici/amiche1 
                  o fondare una casa di produzione con anche amici/amiche. Casualità 
                  o scelta di vita e professionale? 
                  «Normalmente lavori con le persone che conosci e con cui 
                  hai punti in comune, no? C'è sempre un rischio a lavorare 
                  con amici/amiche, a volte puoi assumerti il peso dell'amicizia. 
                  Comunque, se si dosa bene, io preferisco, sono più a 
                  mio agio a lavorare con persone che conosco». 
                   
                  Perché c'è bisogno di un'Associazione di 
                  donne cineaste (Cima)? 
                  «Per ciò di cui abbiamo parlato all'inizio. Quando 
                  sono entrata nel cinema nei primi anni '90 vivevamo un periodo 
                  energetico, la fine della dittatura, l'inizio della democrazia, 
                  era in atto un cambiamento sociale e politico. In un certo modo, 
                  noi donne in quel momento – e i numeri lo dimostrano – 
                  abbiamo sentito che potevamo fare quello che avremmo voluto, 
                  non avevamo paura, potevamo sognare di fare le registe e quel 
                  sogno si poteva realizzare. E davvero in quel momento spuntarono 
                  come una valanga un sacco di registe. In quel decennio abbiamo 
                  diretto il nostro primo film in 30 o 40 donne, che per quello 
                  che avevamo alle spalle era incredibile. Ma in poco tempo, finiscono 
                  gli anni '90 e torniamo un'altra volta al deserto del Sahara. 
                  Con un gruppo di registe cominciamo a incontrarci, parliamo 
                  e ci accorgiamo che non abbiamo alcun rilievo, non ci sono giovani 
                  donne registe dietro di noi, quella fantasia per cui le donne 
                  sarebbero state partecipi della direzione cinematografica, della 
                  sceneggiatura... La società si cambia attraverso l'immaginario, 
                  e se l'immaginario lo costruiscono solo gli uomini, se la storia 
                  la costruiscono solo gli uomini, è molto difficile cambiare 
                  comportamenti, cliché, modelli di condotta... 
                  Ci siamo guardate attorno, e abbiamo visto che molte di quelle 
                  che avevano diretto qualcosa negli anni '90 avevano realizzato 
                  un solo film, e non avevano mantenuto una continuità 
                  nelle proprie carriere. Abbiamo deciso di unirci e provare a 
                  far sì che dal lato istituzionale si sostenesse il cambiamento: 
                  il tema delle quote rosa, le cose non cambiano se non per imposizione, 
                  no? Ci siamo unite in un'associazione e abbiamo cominciato a 
                  lavorare sul piano politico. Abbiamo provato a far sì 
                  che per i nuovi registi ci fosse una clausola per cui se eri 
                  una direttrice donna ti avrebbero dato dei punti, o cose così... 
                  si è cercato di fare un lavoro istituzionale perché 
                  venisse dato un chiaro appoggio alle donne registe. 
                  Veniva anche considerato il numero di donne che partecipavano 
                  al progetto, non solo come registe ma anche come sceneggiatrici, 
                  come produttrici. Siamo state in tutte le televisioni: abbiamo 
                  portato avanti un'attività istituzionale e questo è 
                  il risultato. Anche questo ci ha unite, ci ha fatto condividere 
                  esperienze, ha portato alla creazione di un database di donne 
                  cineaste: se una direttrice cerca una montatrice, la può 
                  trovare facilmente. Adesso si sta creando la Rete europea di 
                  donne cineaste (Ewa) – ossia abbiamo già varcato 
                  i confini nazionali –, e anche la Rete ispanoamericana 
                  (Mica). L'associazione di donne cineaste non è servita 
                  solo per lavorare all'interno dello spazio nazionale, ma anche 
                  per lavorare a un livello più globale». 
                   
                  Come vedi il tema delle disuguaglianze per ragioni di 
                  sesso nel tuo ambito professionale? 
                  «Allo stesso modo che in qualsiasi altro ambito: noi donne 
                  lavoriamo molto bene, siamo sempre qui, alla base, siamo molto 
                  brave nella produzione, ma quello che è difficile è 
                  sempre arrivare al potere. E il cinema è potere, perché 
                  è raccontare una storia attraverso il tuo punto di vista. 
                  E tu sei una donna. Il cinema è una rappresentazione 
                  del resto del mondo lavorativo: siamo in molte donne, ma c'è 
                  anche uno sbarramento2 come 
                  nell'Fmi, o nelle direzioni delle grandi aziende, guardi le 
                  loro foto e capita che non ci sia neanche una sola donna». 
                
                   
                      | 
                   
                   
                    |   Una scena del film Return to Hansala  | 
                   
                 
                 A confronto con gli anni '80, quando con le Xoxonees 
                  hai fatto irruzione nel panorama musicale, credi che abbiamo 
                  fatto passi avanti o indietro sui temi dell'uguaglianza? 
                  «Credo che l'uguaglianza sia un processo molto lento, 
                  mi sorprende quanto lo sia, credevo che sarebbe stato più 
                  veloce. Però guardi la società e ti accorgi che 
                  non siamo cambiati molto, andiamo avanti nella medicina, nel 
                  mondo dei satelliti, nelle conoscenze, ma l'essere umano, il 
                  suo progresso emotivo, è molto lento, possiamo dire che 
                  in questo stesso momento siamo quasi come nel Medioevo. Nonostante 
                  i progressi abbiamo ancora schiavitù, fame, sete, indici 
                  di povertà incredibili, non solo in paesi in via di sviluppo, 
                  ma anche nel nostro stesso paese. Non avanziamo secondo una 
                  progressione logica né in linea retta, andiamo avanti 
                  in alcuni aspetti e retrocediamo in altri. Ma l'uguaglianza, 
                  be', la donna lavora fuori casa e a casa, eppure continuiamo 
                  a non avere le armi per realizzare davvero cambiamenti profondi 
                  nella società, a non avere accesso al potere, e ci sono 
                  anche molte donne che imitano modelli patriarcali. Le donne 
                  molte volte non hanno modelli di riferimento, non come gli uomini 
                  che ne hanno in ogni ambito: nell'arte, nella politica, nella 
                  scienza... Non abbiamo donne a cui possiamo assomigliare, in 
                  cui possiamo specchiarci, dobbiamo costruire il nostro proprio 
                  e individuale modo di affrontare tutto questo. Per questo il 
                  cinema e la letteratura, la narrativa, la televisione sono così 
                  importanti: aiutano a costruire nuovi modelli. Se analizziamo 
                  i personaggi femminili del cinema, della narrativa, molte volte 
                  non hanno un nome, sono le fidanzate, le amanti, le madri, le 
                  figlie dei personaggi maschili, ma ci sono davvero ben pochi 
                  personaggi femminili padroni delle proprie decisioni, che siano 
                  come la maggior parte delle donne, con i loro errori, le loro 
                  decisioni, che siamo eroine, scellerate... Ci sono pochi personaggi 
                  nella narrativa completamente femminili. È come se si 
                  trascinassero sempre dietro quelli maschili, che sono quelli 
                  che decidono. Le donne hanno un ruolo congiunturale o aneddotico 
                  nella narrativa. Se leggi spesso la pagina degli spettacoli 
                  teatrali, e guardi ogni opera, c'è una percentuale incredibile 
                  di personaggi maschili e femminili, e allo stesso modo ci sono 
                  cinque protagonisti maschili e una sola protagonista femminile. 
                  È sempre così, noi donne non abbiamo modelli. 
                  E continuiamo con le principesse che si innamorano dei principi 
                  e le sputtanano... be', a volte prima le salvano e poi le sputtanano. 
                  È bizzarro che quando un uomo dirige un film nessuno 
                  gli chieda se sta mettendo la sua visione maschile nei personaggi, 
                  e ogni volta che è una donna a dirigere sembra che debba 
                  far passare la sua visione del mondo attraverso il personaggio 
                  della donna. Ma il mondo è universale, è una visione 
                  universale. A noi donne chiedono sempre il nostro punto di vista, 
                  non un punto di vista universale, ma lo sguardo di una donna, 
                  ed è una cosa che ti dà fastidio, no? È 
                  già dividere, e dire: tu sei diversa». 
                   
                  A quali progetti stai lavorando ora? 
                  «Ora stiamo girando una serie web, che è un corso 
                  che ho messo insieme, e che avrà un ottimo risultato, 
                  perché ho alcuni alunni e alcune alunne meravigliose. 
                  E in questo periodo ho anche girato un film che si chiama Droga 
                  oral, che è la seconda parte di Sexo oral. 
                  Il tema della droga continua a essere un tabù, tutti 
                  si drogano in un modo o nell'altro, con sostanze legali o proibite, 
                  ma è qualcosa che fa del tutto parte della nostra vita, 
                  e non c'è una comunicazione chiara a riguardo, soprattutto 
                  per i giovani, che sono i più esposti. Mi interessava 
                  parlare di questo tema, di come le persone si relazionano con 
                  le droghe in un modo o nell'altro. Sto anche girando un documentario 
                  nel Sacromonte, a Granada, con le persone più anziane 
                  della zona, si chiama I saggi della tribù. Lo 
                  scopo è parlare, attraverso la memoria delle persone 
                  che lì hanno vissuto, di com'era la vita. Nel '63 ci 
                  sono state alcune inondazioni e sono stati sfollati tutti. Quello 
                  che voglio è, attraverso la memoria, ricostruire com'era 
                  quel quartiere, la trasmissione dell'arte fra le persone, come 
                  gli uni imparavano dagli altri. Sto anche lavorando a un progetto 
                  che probabilmente gireremo in Colombia, a Cali, e che si chiama 
                  Delirio». 
                   
                  Non si può dire che tu perda tempo. 
                  «Sono rimasta ferma per molto tempo, e ora sembra che 
                  comincino a venir fuori delle cose...» 
                   
                  Cosa ne pensi dell'attuale momento di mobilitazioni che 
                  stiamo vivendo? Il 23 febbraio c'è stata una riunione 
                  di Mareas (letteralmente “maree”, raduni collettivi 
                  autorganizzatisi che riuniscono diversi gruppi e associazioni 
                  di protesta), non si sa se a livello statale o nelle principali 
                  città. Credi ci sia bisogno di altro? 
                  «Non ci siamo resi conto del potere che abbiamo. Credo 
                  che il popolo abbia tutto il potere, siamo la maggioranza. Se 
                  prendessimo decisioni che avessero davvero un risultato, per 
                  esempio una disobbedienza fiscale. Decidiamo tutti di essere 
                  disobbedienti fiscali... lo stato crolla in 5 minuti! Dobbiamo 
                  prendere coscienza del nostro reale potere. Scendere in strada 
                  va benissimo, ma dobbiamo fare azioni concrete, perché 
                  se scendiamo in strada, scendiamo, passiamo tutto l'anno in 
                  strada. Da luglio ci sono state oltre un migliaio di manifestazioni 
                  a Madrid, è impressionante, ma non succede nulla. Tutti 
                  i partiti politici che negli anni sono stati al potere hanno 
                  davvero il controllo, hanno la sfacciataggine di fare le cose 
                  in modo del tutto oscurantista, non puoi fidarti di nessuno. 
                  Quello che stiamo vivendo in politica è qualcosa di disastroso. 
                  Questo sistema che abbiamo messo in piedi, che chiamiamo democrazia, 
                  quello che fa è far lavorare i partiti politici per quattro 
                  anni. Non c'è un lavoro in profondità per cambiare 
                  la situazione. Succeda quello che succeda e costi quello che 
                  costi, lavorano per i prossimi quattro anni, per vedere se li 
                  voti. Non c'è un lavoro in profondità su nulla, 
                  mettono delle pezze, cambiano delle piccole cose, ma a livello 
                  generale, le cose sono sempre le stesse. Come tutti hanno qualcosa 
                  da nascondere, perché non so cosa sia successo in questo 
                  paese, ma evidentemente siamo un paese un po' disonesto, lo 
                  stiamo vedendo, si coprono tutti a vicenda. L'alternativa politica 
                  in questo momento è disastrosa, non abbiamo neanche speranza. 
                  Deve nascere un partito nuovo con professionisti di comprovata 
                  onestà, che fin dal primo giorno espongano pubblicamente 
                  tutte le loro proprietà, e che facciano lo stesso una 
                  volta saliti al governo. Non dico che tutti i politici siano 
                  uguali, ma la politica è stata usata come il cortile 
                  di una portinaia, sono stati usati metodi molto discutibili». 
                   
                  Eh sì, e ora vediamo i risultati. Ci sono organizzazioni 
                  e associazioni che sono anni che lo fanno vedere, ma non ci 
                  si fa caso perché sono la minoranza. 
                  «È importante che siano corretti nella riscossione 
                  fiscale. Ci mettiamo da parte un sacco di soldi». 
                   
                  È evidente che riscuotono bene... 
                  «Ma anche di più, se poi ci lasciano tutti e tutte 
                  in pace. Che gli paghino uno stipendio decente, che si sentano 
                  soddisfatti, che lavorino molto e che non ci rubino più 
                  nulla». 
                   
                  Grazie Chus, continua con tutti i tuoi progetti, che ti riescano 
                  splendidamente e ancora per molti anni. 
                 Isabel Pérez Ortega 
                  traduzione di Giuditta Grechi 
                  dal n.266 del mensile anarcosindacalista spagnolo Rojo 
                  y negro, marzo 2013  (rojoynegro.info) 
                Note
                  - In originale “amigxs”.
                  
 - L'originale riporta l'espressione, non diffusa in italiano, 
                  “techo de cristal”, preso dall'inglese “glass 
                  cieling” (soffitto di vetro) per indicare le situazioni 
                  latu sensu aziendali e istituzionali in cui le donne 
                  potrebbero accedere per qualificazione ai piani più alti, 
                  li vedono, ma non possono di fatto fare carriera.
  
                  
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