|   
				 società 
                  
                Il frantumarsi della coesione sociale 
                  
                di Antonio Cardella 
                    
                In pochi decenni, si è completamente disintegrato il modello urbano che delimitava e si riconosceva in un territorio ben definito. 
  Si deve partire da qui per comprendere i danni devastanti del modello dominante e le difficili vie da percorrere per opporvisi in pratica, anche nella vita quotidiana. 
                 
                  Le bombe esplose il 15 aprile scorso al traguardo della maratona di Boston, a 
  prescindere dalla matrice che le ha innescate, segnano di rosso sangue il percorso 
  di una transizione che proietta il mondo che conosciamo verso un avvenire difficile 
  da decifrare con le consuete categorie sin qui utilizzate per capire quanto 
  di futuro vi sia nel presente che viviamo. 
  Che vi sia una logica negli eventi che quotidianamente registriamo non può 
  essere messo in dubbio: la storia ha sempre individuato le connessioni tra ciò 
  che capita nel nostro quotidiano e quanto di nuovo e di diverso si attualizza, 
  passo dopo passo, nel disegno di lungo periodo. Sarebbe, quindi, esercizio stolto 
  il provare a individuare cosa ci aspetta dietro l'angolo: è possibile, 
  però, cogliere alcuni segnali che non ci facciano perdere del tutto la 
  bussola di ciò che dia senso al nostro essere al mondo, qui e adesso. 
  È inutile girarci attorno: viviamo in un'epoca che non riesce ad attribuire 
  ancora un senso alla sintassi di un discorso che reiteriamo dai tempi delle 
  democrazie, compiute o meno, dei conflitti egemonici, dei protagonismi politici. 
  È tramontata definitivamente l'idea di un allargamento dell'area di un 
  Occidente immaginato pacificato e benestante, veicolo di istanze di giustizia 
  e libertà; delle colonie, intese come presidi territoriali, nessuno vuol 
  più parlarne, tanto evidenti e incommensurabili sono i costi dei presidi 
  da attuare fuori dai confini nazionali. Anche le politiche che mirino a ridisegnare 
  assetti geopolitici a favore di questa o quella potenza tradizionale o emergente, 
  mostrano un respiro molto corto perché, quando non sfociano in vere e 
  proprie guerre combattute (e perse disastrosamente dai protagonisti attivi: 
  Vietnam, Afganistan, Iraq e via dicendo) si dimostrano paralizzanti per l'incrociarsi 
  delle possibili ritorsioni. Infine, per venire al discorso sul protagonismo 
  politico, la figura di un Obama è drasticamente ridimensionata rispetto 
  alle nuove difficoltà che la perdita di influenza degli Stati Uniti sul 
  piano planetario comporta, per non parlare delle crisi che investono i poteri 
  personali di quasi tutti i regimi, dittatoriali o meno, che costellano il mondo. 
  Se dovessimo limitare il nostro discorso alla disamina della situazione attuale, 
  potrebbe apparire come segno di un destino avverso ciò che grava sulle 
  spalle di un'umanità disorientata e sofferente. 
  Invece, se ci si distrae dal peso spesso insopportabile del quotidiano, un quotidiano 
  che non è di questa o quell'area geopolitica particolare, ma che investe 
  in misura e con modalità diverse tutte le realtà aggregate del 
  pianeta, ci si accorge che all'origine del crescente e diffuso disagio di vivere, 
  c'è il collasso di un'intera visione del mondo che ha privilegiato modelli 
  di sviluppo alla lunga insostenibili. 
                  Per un solido legame con il territorio 
				  
                Ormai appare sempre più chiaro che l'evoluzione del 
                  modello capitalistico (che purtroppo contamina plaghe molto 
                  più estese di quelle che lo hanno concepito e attuato) 
                  ha provocato disastri naturali e sociali incommensurabili. La 
                  crescita esponenziale di dinamiche finanziarie con traiettorie 
                  distinte e opposte rispetto alle economie reali, ha travolto 
                  il senso di un'umanità equa e solidale, che sia artefice 
                  di una produzione e distribuzione delle risorse in base alle 
                  esigenze reali delle popolazioni e attenta alla riproducibilità 
                  di tali risorse con la tutela dell'ambiente e il corretto impiego 
                  del lavoro umano. 
                  In pochi decenni, si è completamente disintegrato il 
                  modello urbano che delimitava e si riconosceva in un territorio 
                  ben definito, sul quale, e nel rispetto di definite peculiarità, 
                  si disegnavano i centri abitativi e gli spazi di vita collettiva. 
                  Stiamo attenti: non sto idealizzando le virtù delle piccole 
                  comunità a cultura prevalentemente contadina che la modernità 
                  ha quasi completamente sepolto. Anche nelle pieghe di quelle 
                  esistenze si annidavano le ingiustizie, le molte facce del razzismo 
                  e la repressione violenta del dissenso. Dico solo che il solido 
                  legame con un territorio ritenuto patrimonio comune consolidava 
                  rapporti umani e, in una certa misura, riduceva a dimensione 
                  umana anche l'esercizio del potere, costretto a confrontarsi 
                  giorno dopo giorno con una collettività che lo apostrofava 
                  con nome e cognome, un potere che non poteva scagliare la pietra 
                  e nascondere la mano. 
                  Del resto, ancora oggi, in un paese come il nostro, segnato 
                  da catene montuose interminabili che lo solcano interamente 
                  in latitudine e longitudine, il frazionamento della popolazione 
                  in una moltitudine di piccoli (spesso piccolissimi) e medi centri 
                  abitati, è una realtà obiettiva, che emerge in 
                  tutta evidenza, purtroppo, in occasioni di catastrofi che, molto 
                  impropriamente, chiamiamo naturali: in alcuni dei grandi terremoti 
                  che nel corso del secolo scorso e in questo appena iniziato 
                  hanno devastato la penisola (il Belice, l'Irpinia, il Friuli, 
                  l'Abruzzo e l'Emilia-Romagna, per citare solo i principali), 
                  si sono materializzate comunità vitalissime e coese, 
                  pronte a rimboccarsi le maniche per ripristinare la funzionalità 
                  di un territorio, assunto come patria, senza attendere l'intervento 
                  del potere centrale, quasi sempre assente e comunque sempre 
                  intempestivo. 
                  Sentieri impervi e sconosciuti 
				  La filosofia che prevale largamente nel nuovo concetto di abitare è 
  all'opposto di quella di cui abbiamo appena parlato. Tutti i grandi centri urbani 
  tendono a trasformarsi in megalopoli, con enormi periferie-ghetto (quando non 
  addirittura bidonville) destinate a ricevere flussi di urbanizzati per 
  disperazione: un'umanità strappata ai territori di appartenenza ormai 
  desertificati dalla miseria e dalle leggi di un mercato che, con lo sfruttamento 
  spesso disumano del lavoro, monopolizza la produzione e la distribuzione delle 
  risorse, in specie di quelle destinate alla sopravvivenza delle popolazioni 
  più povere. Si fugge così dalle campagne e si confluisce nei centri 
  urbani più vicini, alla ricerca di una sempre più improbabile 
  occupazione o di qualunque altra occasione per sbarcare un lunario per precario 
  che sia. 
  Così le maggiori città del pianeta, che annoverano spesso decine 
  di milioni di abitanti, si sono trasformate in enormi buchi neri che ingoiano 
  quotidianamente flussi di un'umanità nomade alla ricerca disperata di 
  consumo. Buchi neri che, al contrario di quelli in agguato nell'universo, restituiscono 
  puntualmente, al calar del sole, la stessa quota di disperati ingeriti al mattino. 
  Il risultato è una realtà urbana attraversata e devastata da scorrerie 
  incontrollabili e da assetti sociali liquidi che sempre meno rispondono 
  ai richiami di una qualsiasi autorità che tenti di imporre leggi e regolamenti. 
  Sono profondamente convinto che questo espianto violento dell'uomo dal proprio 
  territorio, questo costante sottrargli gli spazi fisici nei quali si configura 
  e si sostanzia il corretto concetto dell'abitare, sia all'origine della 
  più devastante forma di alienazione della vita contemporanea. Necessitati 
  a trovare altrove la possibilità della propria sopravvivenza, i profughi 
  o gli esodati imboccano e percorrono, in solitudine e frustrati, sentieri impervi 
  e sconosciuti, avviati a mete ignote e, in ogni caso, ostili. 
                  
                Ripartire dalla periferia (dell'Impero)   
				  
                È il frantumarsi della coesione sociale. Separare l'uomo 
                  dal suo contesto abituale significa non solo destinarlo a un 
                  solipsismo annichilente, ma significa anche demolire quell'impianto 
                  di norme etiche e di civile convivenza che lo hanno reso socialmente 
                  rilevante. Se mi consentite un paragone musicale (la musica 
                  e il pensiero libertario sono stati e sono le passioni prevalenti 
                  della mia vita), se mi consentite – dicevo – il 
                  paragone, è come se in un madrigale polifonico di Gesualdo 
                  da Venosa si estrapolasse la partitura del soprano e si costringesse 
                  l'esecutrice a proseguire da sola, senza l'apporto degli altri 
                  musicisti. Immediatamente la poveretta si smarrirebbe, e con 
                  il suo smarrirsi, perderebbero di senso le modalità, 
                  il cromatismo, il contrappunto, i silenzi e le dissonanze che 
                  costituiscono il corpo stesso della composizione. Crollerebbe, 
                  insomma, l'intero edificio. Non solo, ma si finirebbe col perdere 
                  anche la dimensione storica della transizione che, nello specifico 
                  del paragone, Gesualdo segna dalla musica rinascimentale alla 
                  barocca. 
                  Questo dissolversi della dimensione sociale, questo progressivo 
                  regredire dell'uomo verso un egoismo individuale che contribuisce 
                  ad accentuare la sua solitudine, questo ridursi degli spazi 
                  collettivi, ha finito col modificare la tipologia operativa 
                  dei poteri che contano. Sul territorio, quello fisico, il mondo 
                  reale dove gli uomini esprimono impotenti il loro disagio di 
                  vivere, non è più necessario (fatta eccezione 
                  per i presidi militari) un controllo diretto da parte del potere 
                  centrale (il modello esemplare è quello dell'assetto 
                  comunitario europeo). Sono cadute le resistenze; le opposizioni 
                  organizzate (il mondo operaio, i sindacati, i movimenti, la 
                  base dei partiti di massa) si sono ridotte a combattere lotte 
                  estenuanti contro mulini a vento: i falsi scopi che i poteri 
                  erigono perché la rabbia popolare si sfoghi senza provocare 
                  danni significativi. In caduta libera sono i tradizionali partiti 
                  della sinistra (Hollande è all'11 per cento del gradimento 
                  popolare; più o meno al 9 per cento sono i socialdemocratici 
                  nord europei, per non parlare di Spagna e Grecia). 
                  Così, sollevati dall'onere di dover presidiare le nuove 
                  colonie (a questo si sono ridotte la nazioni europee, nessuna 
                  esclusa), i poteri veri, quelli che controllano tutti gli snodi 
                  dell'economia e della politica, arretrano e si concentrano: 
                  i nuovi santuari sono Bruxelles, Amsterdam, Francoforte, attorno 
                  ai quali, con pesi diversi e poco più che nominali, ruotano 
                  Berlino, Parigi, Roma e, in qualche misura, Londra. Gli stati 
                  nazionali, quelli che eravamo abituati a riconoscere sino a 
                  qualche decina di anni fa, sono stati progressivamente privati 
                  delle loro principali prerogative e sostanzialmente ridotti 
                  a garantire la quiete e l'ordine perché le decisioni 
                  del Centro si applichino senza traumi. 
                  In poche parole, il Potere si arrocca sempre di più moltiplicando 
                  le sue energie e si allargano a dismisura le plaghe soggette 
                  al suo dominio. 
                  Se le cose stanno così – e io credo che le cose 
                  stiano così – occorre riverificare e correggere 
                  la filosofia di approccio e le procedure operative che noi anarchici 
                  abbiamo sin qui privilegiate. Se continuiamo a credere di poter 
                  aggredire il sistema di potere sul suo stesso terreno (quello 
                  degli assetti consolidati: le strutture sopranazionali, i centri 
                  normativi, le borse, le banche centrali e via dicendo), potremmo 
                  nella migliore delle ipotesi aggredirlo sul piano teorico, che 
                  è certamente esercizio utile e meritorio, ma non riusciremmo 
                  mai a ricostituire la forza che necessita perché in un 
                  futuro prossimo si possano aprire spiragli di speranza. 
                  Quello che voglio dire è che dobbiamo ripartire dalla 
                  periferia dell'Impero, convincendo il nostro prossimo, a partire 
                  da quello che ci è fisicamente vicino, che il nostro 
                  destino non è abbaiare alla luna, ma ritrovare la capacità 
                  di ricostruire passo dopo passo una comunità di donne 
                  e di uomini che condividano con noi le istanze di libertà 
                  e giustizia e siano disposti a iniziare, con noi, il percorso 
                  per realizzarle.
                  Antonio Cardella
                |