rivista anarchica
anno 43 n. 382
estate 2013


rom/2

Cronache arbitrarie

di Francesca de Carolis


Guardandosi intorno, guardandosi dentro...
Quel trenino da Roma verso la periferia, le baracche distrutte, la festa degli zingari in Camargue, e poi....


Facendo il pendolare sul trenino che dal centro di Roma porta verso la periferia, c'è un punto sul quale sempre mi soffermo con lo sguardo. Un attimo prima di arrivare al ponte sul fiume, lì dove, sulla destra, una enorme baraccopoli confina con uno sfasciacarrozze e non si capisce dove finisce l'una e dove comincia l'altro, quello che è chiaro è che tutto quel mare di lamiere sembra pronto ogni momento ad affogare nel fiume. E sulla sinistra, dietro una rete di quelle modello pollaio (o forse è l'illusione di un intreccio di rovi trasmutati in recinto), c'è un campo di casupole e container, o qualcosa del genere, più o meno disordinato, più o meno confuso a seconda dei tempi e delle stagioni, comunque con la sua sbilenca fila azzurrina di gabinetti chimici... insomma una specie di campo attrezzato, come si dice. Magari tollerato, come si dice, immaginavo, se una delle prime volte che l'avevo notato, qualche anno fa, davanti ad una delle baracche una rosa era fiorita su una pianta composta di un unico stelo. E ho pensato alla mano che aveva avuto cura di piantarla accanto alla porta di casa. I fiori si piantano quando si sa di poterne attendere lo sviluppo, la crescita, le stagioni del suo fiorire. O almeno lo si spera.
E prima e dopo quel tratto di strada, piccoli assembramenti di illusioni di case compaiono e scompaiono tra i rovi. A seconda dei tempi e delle stagioni.
Una mattina, che l'inverno non era ancora passato, un'intera fila di quelle case era completamente rasa al suolo. Le pareti squarciate, lamiere e legni e cartoni squassati, tetti schiacciati, insomma, proprio come succede dopo il passaggio di una ruspa, e qualcuno, qualche adulto, qualche bambino, ancora vi si aggirava a rimestare...
Pensando alla semantica dei gesti e al Piano nomadi di Roma che va avanti. Con episodi di grande violenza. Ricordo solo quello denunciato dall'Associazione 21 luglio: lo sgombero dei genitori della bambina di 14 mesi che nel febbraio scorso era caduta nel Tevere ed è morta due giorni dopo in un ospedale. E quei genitori rom, ricorda l'associazione, “nei giorni successivi al decesso della bambina non hanno ricevuto alcuna assistenza e alcun sostegno dal comune di Roma e solo con l'aiuto di alcuni volontari dell'associazione stavano provvedendo alle pratiche per il funerale e il rimpatrio della salma”. Florin e Liliana, come in un copione che sempre si ripete, senza preavviso hanno visto la loro casa abbattuta e sono stati costretti ad allontanarsi in fretta con le loro cose, e i pochi ricordi della bambina morta. Loro che pure, raccontano le cronache, avevano donato gli organi della piccola, e per questo erano stati proprio dal comune elogiati. E così, ci ricorda l'Associazione 21 luglio, si è consumato il 510° sgombero del Piano nomadi.
Un gesto di una violenza inaudita. Il cui significato, il cui insegnamento, va ben oltre il momento di quell'atto.

Roma, 11 novembre 2009.
Lo sgombero del campo nomadi Casilino 700

Aria stanca e un po' indifferente

Abbattere una casa, davanti agli occhi di chi vi abita. è gesto che “educa” alla paura. Che educa a violenza e inumanità del sentire, instillate nell'animo di noi spettatori altri che queste scene abbiamo imparato a guardare con indifferenza, quando non con compiacimento. Essendo noi, abitanti di quest'altra riva, tutti buoni e puliti...
Non so se o a quale numero di sgombero risponda il risultato dello spianare di ruspe che ho visto quella mattina... Comunque, quella stessa mattina, sullo stesso tragitto, una ragazza è salita sul vagone chiedendo soldi. Come accade da qualche tempo, ultimamente saliva un ragazzo... Senza parlare ti lascia accanto, sul seggiolino, sul bordo del finestrino, un biglietto con su scritto: sono povero, ho due figli ecc... Distribuendone un po' percorre tutto il vagone e poi ritorna e, sempre senza parlare, raccoglie ciascun biglietto e, a volte, qualche soldo d'elemosina.
In genere si ha tutti l'aria stanca e un po' indifferente, fin dal viaggio d'andata, su quel trenino di pendolari, ma quella mattina il passaggio della ragazza (non importa chi fosse, se rom, se rumena, se di altra terra dalle parti dell'Est...) ha scatenato la polemica spietata e infastidita di due donne che, si poteva ben immaginare, dividono con zingari e quant'altri le paure e le miserie delle stesse periferie. Non la riporto. Non era più inarticolata dell'argomentare di tanta nostra gente che ci amministra. Né di tante persone, che pure ho sentito, asserragliate in belle case che proprio di periferia non sono.
Certo rubano. Riascoltando le parole di De André, nel cd Ed avevamo gli occhi troppo belli..., De André che dice, introducendo un suo concerto, “anche a me hanno rubato”. E ci ricorda che gli zingari rubano solo oro e non l'argento ad esempio, che lascia macchie scure, non porta bene... e in effetti pensandoci, solo oro e un computer anche a me hanno portato via...
Ma, sempre ci ricorda De André, c'è chi ci ruba l'aria, riempendola di veleni, chi ci ruba il lavoro. C'è, anche, chi ci ruba la vita sottraendo spazio che dovrebbe essere pubblico, e negando lo spazio privato che serve ad accudirla, la propria vita.
Certo la storia e le storie non sono per niente semplici. All'interno delle varie comunità, in rapporti e dinamiche che non ci appartengono, si consumano anche violenze. Ma questo non sembra mai interessarci.
Eppure, eppure, sempre torna l'eco delle parole di De André: “...dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior...” E a proposito di fiori nati fra il fango delle periferie romane, dunque, sempre a proposito di rom, lessi un libro un po' di tempo fa, che varrebbe la pena di andare a ritrovare. Chejà chelen, ragazze che ballano, libro edito da Sensibili alle foglie. Scritto da Vania Vancini, che zingara non è, ma al mondo rom dedica la vita. E, fra parentesi, mi piace ricordare che in qualche modo, a guardarla bene, qualcosa della luce selvaggia dei figli del vento è trasmigrata sul suo viso, gli occhi davvero troppo belli..., come capita succeda, fra persone che si sono amate e accompagnate a lungo. Vania Vancini si era occupata del progetto di scolarizzazione dei minori rom con l'Arci solidarietà Lazio, e in questo libro parla del loro mondo, come non è facile parlarne. Senza ipocrisie e senza nasconderne le asperità, ma pure con quella vera curiosità e quella passione dell'uomo con cui si capisce ha inseguito e costruito il suo progetto di vita. Convinta com'è, che ‘la verità non è mai da una parte sola'. Vania con le ragazze rom ha messo in piedi un corpo di ballo, le Chejà chelen del titolo del libro. E di loro, soprattutto, ne ha affollato le pagine. Rimangono nel cuore i racconti che, nelle interviste, piccole e grandi donne rom fanno di sé. Una frase, di A.H., che fa parte del gruppo di ballo e che ‘non è mai stata da nessun'altra parte': “Ci piace ballare con le amiche, sentiamo la musica, ci mettiamo i vestiti adatti... sono colorati, me li ha fatti mamma, ha comprato la stoffa a piazza Vittorio, luminosa, colorata, e li ha cuciti. Ci vogliono vestiti eleganti, che si vedano di notte e che facciano rumore”. Vestiti. Che si vedano di notte, e che facciano rumore... Chejà Celen, rimane, ancora oggi, una bella guida per addentrarsi nella periferia di Roma.
Ho accennato alle asperità di quel mondo che il libro non nasconde. Ma, a fare un po' di attenzione, si tratta di asperità e violenze che sono in qualche modo intrecciate alle nostre. Viene in mente una delle tante pagine di brutta cronaca. Fu sventata qualche anno fa sempre nella periferia romana un'organizzazione che “forniva” bambini rom a pedofili. Peccato, che i clienti eravamo noi... Fiori nel fango, ancora, il nome dell'operazione di polizia.
Ancora un'immagine e una riflessione sulla semantica dei gesti.

Sulla spiaggia della Camargue

Sempre sullo stesso trenino che porta fuori Roma. Un pomeriggio sale sul vagone una giovane donna. Forse trent'anni. Forse molti di meno. Perché la vita, si sa, sul volto delle zingare, lascia presto i suoi segni più profondi. Accanto ha il suo bambino. Vivacissimo, con dei grandi occhi neri. Sconfinati, mi sembrano, mentre mi guarda con aria monella. Ha una brutta tosse. Ma si muove e saltella e si alza e si risiede con l'energia curiosa dei bambini della sua età. Tre anni, mi dice la madre. Che lo afferra, lo lascia, lo riacciuffa, lo bacia. Ancora gli sfugge, lui mi sfiora. E, “non disturbare” lo sgrida lei. Il bambino mi fissa. Un'ombra di paura, e poi guardando la madre punta il dito verso di me: “Polizia?” chiede. Tre anni e, mi chiedo, quali e quanti gli orchi delle sue fiabe... “Polizia?” insiste. Quanti e quali gesti lo hanno già educato alla paura.
Ancora.
Ripensando a un viaggio fin nel cuore della Camargue, fino a Saintes Maries de la Mer, per il grande raduno della Festa degli zingari. Un giorno di fine maggio di un anno che non ricordo più. Tempo anche di furti e quant'altro, lessi in seguito in un tuonante articolo su un giornale della zona, diventata anche ben “attraente” con il suo turbinare di curiosi e più o meno ricchi turisti. Ma molto più forte è rimasto il ricordo dell'affollatissima festa delle tre Marie degli zingari. Sara, Maria di Betania, Maria Salomè. Che si narra fuggite dalla Terrasanta su una piccola barca, che è poi approdata sulla spiaggia della Camargue dopo un volo sul mare. Due Marie bianche e una, Sara, dalla pelle nera. Tutte e tre veneratissime. Ma è Sara che portano in processione ogni anno, a fine maggio, quando la primavera già sfoca nell'estate, fino alla spiaggia, per bagnarla con l'acqua del mare che a quella terra e agli zingari, insieme alle altre, l'ha donata. Una cerimonia bellissima, come la leggenda di quel volo sul mare ( e chi non desidera volare in barca sul mondo?). Difficile dimenticarne gli echi, di preghiere, balli e canti. Da quella riva. Lontanissima. Che ritorna qualche volta alla mente, quando, al capolinea del sopracitato trenino che mi porta al lavoro, assisto ad una scena che si ripete ogni mattina. Ecco.
Arrivano con le prime corse. In gruppi di dieci, dodici, e anche di più. Scendono dai vagoni lanciandosi fra loro poche parole, che sembrano d'intesa. Più spesso in silenzio. Gli occhi che frugano lontano. Magari, il sospetto è forte, anche nel tempo. Ma chissà se sia il passato o il futuro, quello che vedono. Gli uomini, vecchi e giovani, quasi tutti dotati di stampella. Le loro donne, in genere sono molte di più, tutte, vecchie e giovani, con i bambini. Spinti in carrozzelle, tirati per mano, avvolti in pezze annodate, a sacca, al collo. Ti aspetti che scompaiano subito nel fiume dell'altra gente. Invece prima di puntare all'uscita della stazione le donne si fermano. Come a un comando dell'anima, in un movimento che è, vi assicuro, coreografia di passo di danza: tutte insieme ruotano verso il muro, sul fondo della stazione, dove c'è un'edicola della Madonna. Quella dei ferrovieri. Mezzo giro di gonne, un inchino, il segno della croce e un bacio mandato alla Madonna.
Con una preghiera, che si legge nell'aria. Per un istante sospese nell'aria anche loro, quelle donne, con le gonne a un soffio da terra, come ai tempi in cui avevano le ali. Sì, gli zingari, l'ho letto da qualche parte, avevano le ali e per vivere non dovevano mendicare e rubacchiare. Volavano, con gli altri uccelli, e quel che mangiavano gli uccelli mangiavano anche loro. Ma questo, oggi, non lo ricorda più nessuno. E comunque l'idea di troppa libertà, sempre darebbe un po' fastidio...

Roma, 11 novembre 2009.
Prima dello sgombero, il campo Casilino 700 ospitava
circa 400 persone, tra cui circa 140 bambini

La capacità di relazione

Più di un volta ho visto inchinarsi e segnarsi anche qualche uomo. Prima di avviarsi al lavoro. Sì perché penso proprio di lavoro, e ben faticoso, si tratti. Provando a immedesimarsi un po': dopo essersi svegliati all'alba per raggiungere dal fango delle periferie l'asfalto del centro, stare ore ed ore su un marciapiede, al caldo o al freddo, immobili o tremolando su stampelle. E se pure quello zoppicare fosse finzione, proviamo a immedesimarci un po', nella fatica di tenere per ore e ore una posizione innaturale e torta. E chiedere la carità che è sempre un mortificarsi, ancora più terribile quando non c'è la risposta nemmeno di uno sguardo. Ed è fatica, questo umiliarsi, anche quando la vita indurisce al punto da non saperlo più... A volte, penso, meriterebbero uno stipendio.
Ecco, solo alcune immagini di cronache, lo ammetto, assolutamente arbitrarie. Ma rimane, vero, il significato dei gesti. E ce ne è uno che in particolare penso sempre vada fatto. Il gesto dell'elemosina, per quanto (mi si passi la contraddizione) vi sia “ideologicamente” contraria, perché ritengo che la società che si fa Stato debba creare le condizioni perché nessuno, per vivere, sia ridotto ad affidarsi alla generosità dei singoli. Ma è un gesto che ancora compio, perché è gesto che apre alla relazione. E forse lo faccio anche per me. Perché è la capacità di relazione, il mondo complesso e pur contraddittorio che ne nasce, quello che ci fa umani.

Francesca de Carolis


Roma/Dopo il fallimento dell'“emergenza nomadi”

Il Piano nomadi di Roma nasce dopo l'emanazione del decreto che dichiarava lo stato d'emergenza in relazione agli insediamenti di Campania, Lombardia e Lazio, che seguì al rogo, nel maggio del 2008, dei campi rom del quartiere Ponticelli a Napoli (una vicenda ancora poco chiara. L'unica cosa su cui molti concordano è che su quella zona si concentrasse un groviglio di interessi per un terreno da rendere edificabile...). Lo stato d'emergenza, previsto per un anno, fu poi prorogato ed esteso a Piemonte e Veneto. In seguito ad un ricorso presentato da European roma rights centre e da una famiglia rom, una sentenza del consiglio di stato del novembre 2011 ha statuito l'illegittimità di quel decreto. Contro questa sentenza il governo italiano ha presentato ricorso presso la corte di cassazione, ricorso infine nel maggio scorso rigettato dalla corte suprema.
Anche il governo italiano, impegnandosi ufficialmente in sede europea per l'attuazione della “Strategia nazionale per l'inclusione di rom, sinti e caminanti”, ha di fatto riconosciuto il fallimento delle politiche emergenziali nei confronti delle comunità romanì.
Nell'annunciare la chiusura dell'“emergenza nomadi”, l'Associazione 21 luglio ha ricordato che per il Piano nomadi a Roma sono stati spesi più di 62 milioni di euro. Inoltre, se il piano prevedeva la chiusura di 101 insediamenti e la sistemazione di 6000 rom in 13 villaggi attrezzati entro il 2011, a quasi quattro anni dall'avvio del piano, i villaggi attrezzati sono otto, mentre gli insediamenti a Roma si sono quintuplicati, diventati più di 500 nonostante i 536 sgomberi forzati.
Altri dati: più di 4000 rom vivono nei “campi formali” di Roma e Milano, campi attrezzati e autorizzati dalle autorità (a questi si aggiungono i campi “tollerati” e gli insediamenti abusivi). Eppure, secondo quanto denuncia una ricerca del Centro europeo per i diritti dei rom condotta su sei campi formali, molti problemi proprio da questi campi nascono. Chi vi abita non ha contratto d'affitto, ma solo un verbale di consegna che stabilisce condizioni ma non dice nulla sulla durata della permanenza. I campi si trovano generalmente in aree insalubri, isolate e segreganti. Estremamente difficile l'accesso ai servizi sociali, la tutela della salute, l'accesso all'istruzione. A Roma, ad esempio, a Camping River e Castel Romano non sono disponibili bus scolastici, nonostante la fermata di autobus più vicina disti rispettivamente a tre e a quattro chilometri. I bambini rom che vi vivono soffrono per le inadeguate condizioni abitative, per la mancanza di garanzia del possesso dell'alloggio, per la paura degli sgomberi. La condizione abitativa a cui si è costretti ha impatto anche sulla salute mentale: uso di alcol, droghe e problemi psicologici sono largamente diffusi nei campi osservati.
Secondo una ricerca condotta in Italia dall'Agenzia dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, il numero dei rom che si dichiarano disoccupati è fino a quattro-cinque volte superiore rispetto ai non rom. A Milano, ad esempio, dei 112 rom adulti nel campo di Chiesa Rossa, solo sei hanno un lavoro regolare. A Camping River, vicino Roma, su 289 solo 20 hanno un lavoro. Rivelare la propria etnicità è spesso ulteriore barriera all'impiego.
Ultima nota: rom, sinti e caminanti nella maggior parte sono cittadini italiani. Nella quasi totalità non sono nomadi. Le famiglie che ancora viaggiano in carovana rappresentano solo il 2-3 per cento dei rom in Italia, che in tutto sono 170-180mila.

FdC

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