  
                   
                  Anna e Mélanie Una riflessione politica sulla comprensione del testo  
                  a cura di Felice Accame 
                 
                  1. 
                  Nel 1961, Susan Sontag pubblicò un saggio intitolato 
                  Contro l'interpretazione. Nonostante questo titolo (cui 
                  difficilmente, prendendolo alla lettera, si attribuirebbe un 
                  senso compiuto), le ambizioni della scrittrice erano più 
                  circoscritte. “La nostra”, diceva la Sontag, “è 
                  una di quelle epoche in cui l'idea dell'interpretazione è 
                  generalmente reazionaria e soffocante. Come le esalazioni dell'automobile 
                  e dell'industria pesante inquinano l'atmosfera, così 
                  le emanazioni delle interpretazioni artistiche avvelenano oggi 
                  le nostre sensibilità. In una cultura dove il problema 
                  ormai endemico è l'ipertrofia dell'intelletto a scapito 
                  dell'energia e della capacità sessuale, l'interpretazione 
                  è la vendetta dell'intelletto sull'arte”. La critica 
                  dei prodotti estetici – poesia, letteratura, pittura, 
                  musica –, insomma, costituiva un “impoverimento” 
                  dei prodotti estetici stessi e dunque, ad essa dovremmo rinunciare 
                  per tornare “a fare un'esperienza più immediata 
                  di ciò che abbiamo”. Lo scopo di qualsiasi commento 
                  relativo al prodotto estetico – questa era la sua conclusione 
                  – “dovrebbe essere oggi quello di rendere le opere 
                  d'arte – e per analogia la nostra stessa esperienza – 
                  più reali, e non meno reali, per noi. Funzione della 
                  critica dovrebbe essere quella di mostrare come mai è 
                  quello che è, o anche che è quello che 
                  è, e non che cosa significa”. Non avremmo 
                  bisogno, pertanto, di un'ermeneutica, ma di una “erotica 
                  dell'arte”. 
                  Ora, se di questa presa di posizione posso comprenderne le ragioni 
                  – una funzione sociale più e meno parassitaria 
                  e più e meno mercantile della critica, la miseria dei 
                  suoi apparati metodologici e la difficoltà intrinseca 
                  del suo compito –, purtroppo, ho anche la netta impressione 
                  che i termini con cui venne formulata questa denuncia non erano 
                  i più adatti allo scopo e, anzi, credo fossero più 
                  adatti a ottenere l'effetto contrario. 
                  Mi spiego. Innanzitutto, ritengo molto discutibile la dicotomia 
                  di base – da una parte l'intelletto, dall'altro il prodotto 
                  artistico –, come se una sorta di genialità indipendente 
                  possa bypassare allegramente il cervello dell'artista. Poi, 
                  ritengo senza speranza la pretesa di conferire uno statuto di 
                  maggiore “realtà” alle opere d'arte – 
                  come se fosse possibile “oggettivarle” alla sola 
                  condizione di ridurre al silenzio il critico. In terzo luogo, 
                  non posso esimermi dal rilevare come la predicazione della Sontag 
                  sia ben'altra cosa dal suo razzolamento: laddove si sofferma 
                  su “certi film di Bergman” – faccio un unico 
                  esempio – afferma che “benché infarciti di 
                  zoppicanti messaggi sullo spirito moderno, tali da provocare 
                  interpretazioni – riescono ugualmente a trionfare delle 
                  intenzioni pretenziose del regista”. Sarà anche 
                  “contro le interpretazioni”, ma, a quanto parrebbe, 
                  la Sontag è contro le interpretazioni altrui – 
                  non contro tutte le interpretazioni. 
                   
                  2. 
                  Onde evitare lo straparlare della critica nei confronti del 
                  prodotto estetico consiglio prioritariamente di dichiarare i 
                  propri criteri di indagine, di classificazione e di giudizio. 
                  È una decisione che, da un lato, mantiene aperta la relazione 
                  con l'altro – perché se un'opinione vien fatta 
                  discendere dall'applicazione di un criterio, ben diversamente 
                  dalla circostanza in cui si dichiara giudizi assoluti, è 
                  sempre possibile confrontarsi con il proprio interlocutore -; 
                  mentre, dall'altro, non può che promuovere la consapevolezza 
                  del proprio operare mentale e la scoperta delle proprie matrici 
                  culturali. In altre parole, suggerisco che l'attenzione di chi 
                  parla dell'opera d'arte si rivolga anche e soprattutto alle 
                  modalità con cui la guarda, senza pretendere di mettere 
                  in luce i tratti costitutivi dell'opera imponendoli all'interlocutore 
                  come i soli, fondamentali, oggettivi, indiscutibili, elementi 
                  dell'opera in se stessa – come se fosse possibile a qualcuno 
                  restituirla agli altri tale e quale indipendente da chi ne sta 
                  parlando. In gioco – eccone il nodo politico – c'è 
                  la scelta tra autorità e partecipazione, tra imposizione 
                  e confronto aperto. 
                   
                  3. 
                  Di Valentino Ronchi poeta, nel 2006, ho avuto l'occasione di 
                  leggere ed analizzare Canzoni della bella vita e, già 
                  in quella circostanza notai la preponderanza della struttura 
                  narrativa rispetto ad altre soluzioni poetiche. Voglio dire 
                  che, nella poesia di Ronchi, il racconto – lo sviluppo 
                  nel tempo di relazioni umane e vicende – è spesso 
                  palese – diversamente da quanto accade nell'espressione 
                  di altri poeti, dove la parola – ritmata, versificata 
                  – ricondensa gli eventi, arricchendoli magari di riflessione 
                  ma lasciandoli impliciti. All'epoca, misi innanzitutto in rilievo 
                  come l'unità narrativa fosse costituita attorno ad un 
                  io narrante, a personaggi ricorrenti, e, soprattutto, alla permanenza 
                  di una situazione-contesto all'interno della quale si dipanava 
                  una molteplicità di sviluppi. In secondo luogo, misi 
                  in rilievo la sintassi utilizzata da Ronchi – una sintassi 
                  che favorisce i toni bassi, da parlato, da parlato di una tipologia 
                  sociale particolare come può esserla quella dei giovani 
                  scolarizzati, ma senza le grandi pretese di intellettualità 
                  dominante. 
                  Facevo anche notare che, proprio a partire da questa sintassi 
                  – e non solo dalle altre forme della scrittura poetica 
                  (versificazione, cesure, qualche raro momento di condensazione 
                  delle tante particolarità in una sola generalità) 
                  – che mi sembra si crei quell'opportunità del respiro 
                  poetico classico – quello in cui ci si confronta con i 
                  grandi valori della vita o con quanto ci è spacciato 
                  per tale... 
                  In altre circostanze successive – a proposito di altre 
                  sue poesie disperse qua e là –, ho avuto occasione 
                  di soffermarmi più a lungo sulla forma del suo versificare 
                  e sull'insieme di elementi espressivi che ne costituiscono il 
                  suo specifico linguaggio complessivo. Non ci tornerò 
                  a proposito di un incantevole poemetto costruito con saggezza 
                  e bel gusto dell'architettura narrativa intorno alle due figure 
                  femminili di Anna e Mélanie. Dove – non 
                  per la prima volta – riemerge il tema culturale della 
                  dislocazione geopolitica nella binarietà di Italia e 
                  di Francia. Anche queste mie, beninteso, sono interpretazioni, 
                  ma, come tali, non credo affatto che possano “impoverire” 
                  il testo cui si riferiscono. 
                  A proposito di questo nuovo libro di Ronchi, munito di un solo 
                  criterio – rispondere ad una domanda tutta mia che scaturisce, 
                  però, da qualcosa che, irrimediabilmente, non può 
                  che essere anche suo – mi dedicherò ad alcune frettolose 
                  indagini nel suo atlante ideologico. 
                   
                  4. 
                  Gli elementi della struttura narrativa di Anna e Mélanie 
                  li riassumerei così: a) Anna e Mélanie nascono 
                  nel 1976 – lo stesso anno in cui nasce Valentino Ronchi. 
                  L'una occorre immaginarsela a Milano (qualche vacanza nelle 
                  Marche) e l'altra in Francia (soprattutto in Normandia, Villers, 
                  e a Pontoise, qualche gita a Parigi). Un io a ciascuna, raccontano 
                  di sé: infanzia e adolescenza; b) Nel 1992, tuttavia, 
                  s'intrufola un altro io, maschile – un maschio che scrive 
                  cartoline ad Anna e che, in Normandia, vede Mélanie; 
                  c) poi, riprende l'io di Anna – che non riceve più 
                  cartoline, che rimane incinta, che ha una figlia cui dà 
                  il nome di Francesca; mentre, all'epoca, Mèlanie – 
                  é sempre il suo io a raccontarlo – trova un impiego 
                  presso uno studio notarile e, en passant, l'amore di una sera; 
                  d) nel 2008, al bistrot della stazione Termini di Roma, l'io 
                  maschile, da spettatore, assiste all'unica fase di compresenza 
                  spaziotemporale di Anna e Mélanie – che non si 
                  incontrano, non perdendo né guadagnando alcunché. 
                  La struttura narrativa la farei tutta qui. Ma chi vuole può 
                  arricchirla. Sotto la forma letteraria delle “appendici”, 
                  ciascun io femminile si porta dietro un corredo: per Anna ci 
                  sono i ricordi di alcune chiese alla periferia di Milano; per 
                  Mèlanie ci sono i ricordi di un periodo in cui è 
                  ospite dell'amica Isa a Kreuzberg, un quartiere di Berlino. 
                   
                  5. 
                  Tra il tanto di parcellizzato, nel brodo di cultura dei tre 
                  protagonisti ci si può individuare alcuni ingredienti 
                  ancora riconoscibili. In Anna, c'è il dizionario di greco 
                  di Lorenzo Rocci – un'espansione organica del “buon” 
                  liceale –, c'è Steinbeck e Saroyan a rappresentare 
                  le letture preferite, Froebel e Minkowski a rappresentare la 
                  psicopedagogia e perfino Trotsky trascinatoci per i capelli 
                  (fuor di metafora: si parla di qualcuno che portava i capelli 
                  “à la Trotsky”). In Mèlanie c'è 
                  Hemingway (Fiesta – Il sole sorgerà ancora, 
                  che è del 1926), Valery Larbaud, Emile-Auguste Chartier 
                  detto Alain (per i Cento e un ragionamenti), la Jean 
                  Seberg di A but de souffle di Jean Luc Godard (che è 
                  del 1960) e il più aggiornato Houellebecq. Nell'io maschile, 
                  infine, c'è l'Amanda Langlet che, nel 1982, interpreta 
                  la Pauline à la plage di Rohmer. 
                  Di Pauline, parliamone. Un'estate da quindicenne, in attesa 
                  dell'amore, e messa a dura prova dai fallimenti degli amori 
                  altrui, di chi – più adulto –, ciascuno a 
                  suo modo, vuole insegnarle qualcosa. Di lei ricordo la goffaggine 
                  e l'inermità del corpo – pur desiderabilissimo 
                  e desiderato – di Amanda Langlet; il suo caschetto di 
                  capelli castani, il mento un attimo prima del broncio che si 
                  appoggia sulle mani intrecciate, la sua andatura sgraziata, 
                  la sua canottiera, il suo costume intero a rigoni bianchi e 
                  celesti, il suo bikini chiaro; le sue ossa che ne escono come 
                  in un'articolazione ancora incerta; la sua carne non ancora 
                  modellata dal mercato dell'ideologia. Tutto ciò fa parte 
                  dei miei ricordi di spettatore cinematografico. E Ronchi – 
                  voglio dire – tutto questo l'ha visto. Anche lui – 
                  nonostante la differenza di età. 
                   
                  6. 
                  L'andirivieni tra l'Italia e la Francia mi è familiare. 
                  E il cinema, in questo processo, non ha avuto un ruolo di poco 
                  conto. Educato alla commozione amorosa de Les enfants du 
                  paradis di Carné, cresciuto nel mito della Nouvelle 
                  Revue Française, ansiosamente in cerca di avanguardie 
                  che logorassero il perbenismo borghese – trovata e amata 
                  la mia Zazie nel metro sia nelle parole di Queneau che 
                  nel montaggio cinematografico di Malle – mi sono poi riequilibrato 
                  nella lettura di Proust e di Anatole France – alla faccia 
                  dell'iconoclastia surrealista che li avrebbe voluti cancellare 
                  dalla memoria collettiva. Mi rendo conto che dico banalità 
                  quando dico che certi film li si può ideare e produrre 
                  solo in Francia, ma, alla finfine penso che in queste banalità 
                  qualcosa di vero ci sia. L'avremmo mai potuto produrre noi L'anno 
                  a scorso a Marienbad di Resnais? No. E ho l'impressione 
                  che Ronchi – che sa guardare “sotto i tetti di Parigi” 
                  (è il titolo di un film di René Clair) e le ragazze 
                  che vi si sbrigano – anche questo lo sappia. 
                   
                  7. 
                  La poesia di Ronchi mi risulta così partecipabile, allora, 
                  così nutrita di un patrimonio di esperienza apparentemente 
                  condiviso, che uno come me – lettore renitente, testimone 
                  riottoso – è fin disposto ad accettare come lettera 
                  scrupolosamente esatta il refuso di pagina 40. È disposto 
                  a non considerarlo tale – è disposto a misurarcisi: 
                  “la mia bellezza sono i capelli/ o almeno così 
                  mi pare, né biondi né scuri/ ne predi un po' fra 
                  le dita e non sai neanche/ descriverne il colore”. Ovviamente, 
                  “predi” sta per “prendi”, ma – 
                  nonostante sappia bene quanto l'uso del verbo “predare” 
                  esuli dalla gomma semantica masticata da Ronchi – sono 
                  ben disposto riguardo ad entrambe le soluzioni – perché 
                  l'una mi arricchisce l'altra. 
                  Posso poi anche perdonargli quello che considero un errore vero 
                  e proprio. Nel suo preambolo, allorché riconduce il personaggio 
                  di Mèlanie a quella sorta di prototipo che è Amanda 
                  Langlet, chiede al suo lettore se “per caso” ha 
                  visto Pauline à la plage “in qualche sperduto 
                  cineforum”. Mi chiedo cosa ci sia, invece, di più 
                  “sperduta” di una multisala cinematografica (dove, 
                  lì sì, ci si sente sperduti, mentre nel cineforum 
                  è più probabile che, proustianamente, si ritrovi 
                  qualche brandello di tempo perduto) – e mi dico che, ben 
                  di rado, per fortuna, anche Ronchi può cader vittima 
                  della dozzinalità del frasario. 
                   
                  8. 
                  Mi chiedo, allora, come la lievità, declinata nel tempo, 
                  si traduca in strazio transitando da chi scrive a chi legge. 
                  Perché la domanda cui cerco di rispondere, sfrugugliando 
                  nel suo atlante ideologico, è proprio questa: perché 
                  mi parla questo poeta, perché parlando dice cose che 
                  comprendo, perché queste sue cose – lievi, delicate, 
                  questo suo annotare da antropologo del garbo, dell'educato, 
                  del leggero, del piccolo, del minuscolo, del deciduo – 
                  mi commuovono profondamente? Perché pur segnati da età 
                  diverse – avendo vissuto esperienze diverse – condividiamo 
                  ugualmente tanto? Rispondermi – come sempre quando si 
                  tratta di spiegare un'attenzione o una disattenzione verso l'altro 
                  – non è facile. Non so bene il perché, ma 
                  è come se quel che ho visto io – e non solo visto, 
                  ma categorizzato –, in virtù di chissà quali 
                  studi – di chissà quali attenzioni verso il mondo 
                  e verso gli umani che lo animano –, in virtù della 
                  sua capacità-disponibilità di immergersi in storia 
                  in apparenza non propria, l'avesse visto anche lui. Visto e 
                  categorizzato allo stesso modo. Incasellato sotto gli stessi 
                  nomi, rintuzzato nelle sue implicazioni di angoscia con le stesse 
                  tecniche. 
                  Perché mi coinvolge e mi si traduce ben presto in pena 
                  dolorosa? Perché la tentazione – come quando ci 
                  si capisce, una volta tanto – è quella di dire 
                  che, allora, ci si può capire tutti. Ci si può 
                  capire, ma, perlopiù, la fatica relativa viene evitata. 
                  A tutto scapito del senso della relazione umana. 
                  Come quando quell'io maschile – quello di Valentino Ronchi, 
                  ma anche il mio – vede la possibilità dell'incontro 
                  tra due altre persone e non può che lasciarla svanire. 
                  Può solo tornare ad alambiccarsi sulle vite altrui, a 
                  ricreare i propri ricordi e a trascriverli – “fino 
                  a che un giorno il tempo sarà/ passato del tutto – 
                  e non così a piccoli tratti –/ e tutto sarà 
                  per allora di colpo semplice/ semplice e facile da capire”.
                
  Felice Accame
                  Note 
                  Contro l'interpretazione di Susan Sontag è stato 
                  pubblicato da Mondadori, nel 1967. Le due raccolte poetiche 
                  di Valentino Ronchi sono pubblicate da Lampi di Stampa, a Milano. 
                  Di suo è stato pubblicato di recente anche un romanzo 
                  Vecchi libri per quest'epoca incerta (Foschi editore, 
                  Forlì).
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