Cento anni di canzoni – 3  
                  Gorizia contro il Piave
 a cura di Alessio Lega 
                  
                  L'autore E A Mario, oltre che 
                  per le canzoni “dannunziane” quali Vipera, 
                  i melodrammi lacrimevoli quali Balocchi e Profumi, viene 
                  ricordato per un brano che diventa subito uno dei più 
                  celebrati inni patriottici italiani. Scritto nelle ultime fasi 
                  della sanguinosa e stremante Grande guerra, nel giugno del 1918, 
                  dunque alcuni mesi prima della battaglia di Vittorio Veneto 
                  dell'ottobre dello stesso anno. Energica e ben costruita, di 
                  un dinamismo affrettato nell'esultanza e nell'esecrazione – 
                  attribuisce la disfatta di Caporetto a un non meglio specificato 
                  tradimento, e non al fatto che interi reparti dell'esercito 
                  italiano fossero stati liquidati con i gas letali – la 
                  Canzone del Piave, nel bene come nel male, vuol dipingere 
                  una guerra ardita, di avanzate e di disfatte, di movimenti di 
                  massa, di valore e di medaglie, di eroi ispirati dalla libertà 
                  che combattono contro il tiranno che siede sul trono asburgico: 
                  “l'impiccatore”. Se pure vi è un briciolo 
                  di malintesa onestà, in questo canto, è l'onestà 
                  di chi vede una guerra tutta immaginaria, lontano dal fronte, 
                  al caldo del sole di Napoli. Sappiamo che E A Mario si riteneva 
                  un fervente mazziniano, un repubblicano in pectore – 
                  e con una certa dose di sfrontatezza lo disse persino al re 
                  che lo insigniva di una decorazione proprio in quanto autore 
                  del Piave – e si figurava la guerra come un completamento 
                  degli ideali risorgimentali: l'annessione di Trento e Trieste. 
                  Col petto infuori, come un tacchino infervorato, emozionandosi 
                  sempre più di strofa in strofa – tanto da perdere 
                  il tempo cavalcando misure avanti dell'orchestra che gli arranca 
                  dietro – si può ancora sentire in una rara registrazione, 
                  l'autore stesso, interpretare con esplicito e comico pathos 
                  la sua leggenda guerresca. 
                   
                  Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio 
                  dei primi fanti il ventiquattro maggio: 
                  l'esercito marciava per raggiunger la frontiera, 
                  per far contro il nemico una barriera. 
                  Muti passaron quella notte i fanti 
                  tacere bisognava e andare avanti. 
                  S'udiva intanto dalle amate sponde 
                  sommesso e lieve il tripudiar de l'onde: 
                  era un passaggio dolce e lusinghiero. 
                  Il Piave mormorò «non passa lo straniero». 
                  Ma in una notte triste si parlò di tradimento, 
                  e il Piave udiva l'ira e lo sgomento. 
                  Ahi, quanta gente ha visto venir giù, lasciare il 
                  tetto, 
                  per l'onta consumata a Caporetto! 
                  Profughi ovunque dai lontani monti 
                  venivan a gremir tutti i suoi ponti. 
                  S'udiva allor dalle violate sponde 
                  sommesso e triste il mormorio de l'onde: 
                  come un singhiozzo in quell'affanno nero 
                  il Piave mormorò «ritorna lo straniero». 
                  E ritornò il nemico, per l'orgoglio e per la fame 
                   
                  volea sfogar tutte le sue brame 
                  vedeva il piano aprico di lassù, voleva ancora 
                  sfamarsi e tripudiare come allora . 
                  «NO» disse il Piave, «NO» dissero 
                  i fanti, 
                  «mai più il nemico faccia un passo avanti». 
                  Si vide il Piave rigonfiar le sponde! 
                  E come i fanti combattevan l'onde. 
                  Rosso del sangue del nemico altero, 
                  il Piave commandò «indietro va straniero!» 
                  E indietreggiò il nemico fino a Trieste, fino a Trento 
                  e la Vittoria sciolse le ali al vento. 
                  Fu sacro il patto antico tra le schiere furon visti 
                  risorgere Oberdan, Sauro e Battisti. 
                  Infranse alfin l'italico valore 
                  le forche e l'armi dell'impiccatore. 
                  Sicure l'Alpi, libere le sponde 
                  e tacque il Piave: si placaron l'onde. 
                  Sul patrio suol, vinti i torvi imperi, 
                  la pace non trovò né oppressi né stranieri. 
                   
                  Ma la guerra non era questa, se non nella mente di qualche visionario 
                  imbevuto di patriottismo, e di molti squali, profittatori, mercanti 
                  d'armi. 
                  Cantare il proprio sangue 
                 Abbiamo, per altro verso, una straordinaria testimonianza 
                  cantata sulla grande guerra. Guerra sporca di trincee, guerra 
                  affogata nel sangue, guerra di autolesionismo – i soldati 
                  si sparavano da soli a una mano, a un braccio, a una gamba, 
                  pur di essere curati nelle retrovie e magari mandati a casa 
                  – di conseguenza, guerra di disertori processati e frettolosamente 
                  condannati, per l'esempio, alla decimazione di massa. In quella 
                  guerra si arrivò a fucilare al fronte più soldati 
                  di quanti ne morivano sotto il piombo nemico. Fuoco e mitragliatrici... 
                  e canti disperati. 
                   
                  Non ne parliamo di questa Guerra 
                  che sarà lunga un'eternità 
                  per conquistare un palmo di terra 
                  quanti fratelli son morti di già! 
                  Fuoco e mitragliatrici 
                  si sente il cannone che spara; 
                  per conquistar la trincea - Savoia! - si va. 
                  Trincea di raggi, maledizioni, 
                  quanti fratelli son morti lassù! 
                  Finirà dunque 'sta flagellazione? 
                  di questa guerra non se ne parli più.  
                  O monte San Michele 
                  bagnato di sangue italiano! 
                  Tentato più volte, ma invano, 
                  Gorizia pigliar.  
                  Da monte Nero a monte Cappuccio 
                  fino all'altura di Doberdò, 
                  un reggimento più volte distrutto 
                  alfine indietro nessuno tornò. 
                  Fuoco e mitragliatrici 
                  si sente il cannone che spara; 
                  per conquistar la trincea – Savoia! – si va. 
                   
                  Sono queste canzoni popolari a restituirci una verità 
                  dalla prima linea sulla guerra mondiale, sul fronte del Carso. 
                  Non voglio dire che questa sia l'unica verità, non mi 
                  azzardo a interrogare solo la tragica fonte che fa della propria 
                  stessa carne da macello materia e documento attraverso il canto. 
                  Forse chi studia quella storia tremenda dovrà leggersi 
                  i bollettini di guerra e la tronfia sgrammaticatura del proclama 
                  della vittoria firmato dal comandante in capo “I resti 
                  di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo 
                  risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano 
                  disceso con orgogliosa sicurezza”. Però – 
                  e forse per la prima volta – il lavoro di riscoperta e 
                  riproposizione fatto dai ricercatori degli anni '60, ci fornisce 
                  una presa diretta del popolo della trincea, che vede, commenta 
                  e giudica col proprio linguaggio impastato di musica e di sangue. 
                  Sono canzoni che disturbano per la propria verità, al 
                  pari delle opere colte, di quelle tracce disseccate delle prime 
                  poesie di Ungaretti o di quelle incandescenti del libro di Emilio 
                  Lussu Un anno sull'altipiano. Al pari di quelle opere 
                  d'ingegno e di studio, e forse anche più, colpiscono 
                  lo stomaco queste canzoni popolari, perché la loro espressione 
                  è collettiva: chiunque sia stato l'estensore dei versi 
                  che seguono, l'autore è un popolo, che in armi con orrore 
                  agonizza, l'autore è colui che ci narra in soggettiva 
                  la storia della propria morte, e al di là di questa maledice 
                  i generali e gli studenti “che hanno studiato e la guerra 
                  hanno voluto”. 
                   
                  Addio padre e madre addio, 
                  che per la guerra mi tocca di partire 
                  ma che fu triste il mio destino, 
                  che per l'Italia mi tocca morir. 
                  Quando fui stato sul fronte austriaco 
                  subito l'ordine a me l'arrivò, 
                  si dà l'assalto la baionetta in canna 
                  e addirittura un macello diventò. 
                  E fui ferito, ma una palla al petto, 
                  e i miei compagni li vedo a fuggir 
                  ed io per terra rimasi costretto 
                  mentre quel chiodo lo vedo a venir. 
                  «Fermati o chiodo, che sto per morire, 
                  pensa ho una moglie che piange per me» 
                  ma quell'infame col cuore crudele 
                  col suo pugnale morire mi fé. 
                  Sian maledetti quei giovani studenti 
                  che hanno studiato e la guerra voluto 
                  hanno gettato l'Italia nel lutto 
                  per cento anni dolore sentirà. 
                   
                  Inquieta e stranisce la maledizione che chiude il canto, perché 
                  noi siamo ormai abituati a pensare gli studenti come una delle 
                  categorie più progressiste e sensibili ai valori dell'antimilitarismo 
                  e dell'umanesimo. Non sempre fu così, all'epoca della 
                  prima guerra mondiale, gli operai e i contadini trascinati a 
                  morire in trincea disprezzavano gli studenti irredentisti, i 
                  figli di papà che teorizzavano “caldi bagni di 
                  sangue” per una palingenesi nazionale. Il canto che però 
                  ancor oggi più disturba – e che nel 1964 creò 
                  un putiferio vero e proprio durante la prima dello spettacolo 
                  Bella ciao al Festival dei due mondi di Spoleto – 
                  resta Gorizia. 
                
                  
                      | 
                   
                  
                    Giuseppe 
                        Scalarini (1873-1948), La guerra (7 agosto 1914)  | 
                   
                 
                 La mattina del cinque d'agosto 
                  si muovevano le truppe italiane 
                  per Gorizia, le terre lontane 
                  e dolente ognun si partì. 
                  Sotto l'acqua che cadeva a rovesci 
                  grandinavano le palle nemiche 
                  su quei monti, colline e gran valli 
                  si moriva dicendo così: 
                  O Gorizia tu sei maledetta 
                  per ogni cuore che sente coscienza 
                  dolorosa ci fu la partenza 
                  e il ritorno per molti non fu. 
                  O vigliacchi che voi ve ne state 
                  con le mogli sui letti di lana 
                  schernitori di noi carne umana 
                  questa guerra ci insegna a punir. 
                  Voi chiamate il campo d'onore 
                  questa terra di là dei confini... 
                  Qui si muore gridando «assassini» 
                  maledetti sarete un dì. 
                  Cara moglie che tu non mi senti 
                  raccomando ai compagni vicini 
                  di tenermi da conto i bambini 
                  che io muoio col suo nome nel cuor. 
                  Traditori signori ufficiali 
                  voi la guerra l'avete voluta 
                  scannatori di carne venduta 
                  e rovina della gioventù. 
                  O Gorizia tu sei maledetta 
                  per ogni cuore che sente coscienza 
                  dolorosa ci fu la partenza 
                  e il ritorno per molti non fu. 
                  Gli inni contraffatti di Spartacus Picenus 
				  
                 Popolano poverissimo, nato nel 1890 in provincia d'Ascoli 
                  Piceno, ma romano d'adozione, Raffaele Offidani, orfano da subito 
                  di padre e presto anche di madre, venne allevato in un “protettorato”. 
                  Socialista interventista, contrasse gravi infermità sul 
                  fronte. Passato subito con gli scissionisti del Partito Comunista 
                  visse la sua vita osteggiato, quando non apertamente perseguitato, 
                  dai fascisti, traendo magri profitti da una piccola libreria 
                  che gestì fino alla morte. Supportato da un mediocre 
                  talento di versificatore, ma di un'immarcescibile fede comunista, 
                  fu un militante indefesso del canto sociale con lo pseudonimo 
                  di Spartacus Picenus. Abile e sopratutto velocissimo, adattava 
                  alle melodie delle canzonette di successo dei suoi tempi e agli 
                  inni russi composti per il coro dell'Armata Rossa (la sua vera 
                  passione) testi di propaganda e di denuncia, strofette e incitamenti 
                  alla rivoluzione. Sono canzoni per lo più grottesche 
                  e significative solo per l'incrollabile dedizione dell'autore 
                  alla sua causa. La loro virtù oggi è un umorismo 
                  involontario e – scavando un po' più a fondo – 
                  un corollario di influenze messianiche che rivela molto dello 
                  spirito di militanti privi di dubbi e innamorati dei loro leader 
                  “i miei inni che amo di più sono quelli dedicati 
                  a Stalin, che nel mio cuore rimarrà sempre il realizzatore 
                  del Socialismo [...] le accuse di Krusciov non possono convincermi 
                  [...] io rimarrò fedele a Stalin oggi come ieri, come 
                  domani, come sempre fino alla morte e anche oltre la morte” 
                  confessava candidamente in una breve nota autobiografica degli 
                  ultimi anni, all'indomani del XX congresso e della denuncia 
                  dei crimini staliniani. 
                  Sull'aria della celeberrima canzone Mamma di Bixio e 
                  Cherubini (Mamma solo per te la mia canzone vola) Spartacus 
                  scrisse 
                   
                  Quasi un ventennio è passato da quando sorse quaggiù 
                  Un genio atteso e adorato come un novello Gesù 
                  Ed ogni oppresso cantava non lacrimando già più 
                  Lenin, la tua dottrina si diffonde e vola 
                  Lenin, la tua parola è quella che consola [...] 
                   
                  Piomba la belva fascista contro la gran civiltà 
                  L'umanità socialista pur si accingeva a sbranar 
                  Un uomo tutto d'acciaio ad aspettarla era là 
                  Stalin, di Stalingrado la leggenda vola 
                  Stalin, fermava il mondo la tua forza sola 
                  Gloria sia a te in eterno 
                  Senza la tua grande vittoria 
                  Ritorna indietro la Storia 
                  Di due millenni o anche più 
                  Stalin, il degno erede del gran Lenin sei tu 
                  Due vostri pari sopra la Terra non verranno mai più. 
                   
                  “...e meno male!” ci viene da aggiungere subito. 
                  La prima intuizione (si fa per dire) su come contraffare i canti, 
                  per tirar acqua al proprio mulino, Spartacus la ebbe proprio 
                  mentre era in ospedale, convalescente di guerra, quando un volenteroso 
                  infermiere lo assillava cantandogli e ricantandogli La leggenda 
                  del Piave, fu allora che lui scrisse La leggenda della 
                  Neva 
                   
                  La Neva contemplava della folla umile e oscura 
                  il pianto silenzioso e la tortura. 
                  La plebe sanguinava come Cristo sulla Croce 
                  svenata dalla monarchia feroce 
                  che non paga di forche e di Siberia 
                  volle ancor della guerra la miseria... 
                  Ma sorse alfin un uomo di coraggio 
                  che infranse le catene del servaggio 
                  e sterminò le piovre fino in fondo. 
                  Quell'uomo fu Lenìn, liberator del mondo. 
                  [...] 
                   
                  Là, sulla sacra Neva sta Lenìn che ansioso 
                  osserva 
                  se la plebe latina è ancora serva. 
                  Compagni, su mostriamo ai fratelli bolscevichi 
                  che noi non siamo più gli schiavi antichi! 
                  E le campane pur suonino a festa 
                  per salutar la plebe che s'è desta! 
                  Noi dei tiranni il cuore ed il cervello 
                  frantumeremo a colpi di martello. 
                  Si appressa il giorno del fraterno amore. 
                  Muor con la tirannia il regno del terrore. 
                  Un riscatto a suon di tammurriata 
				  
                 Ci pare giusto testimoniare però come il vecchio E 
                  A Mario – l'autore dell'Inno patriottico per eccellenza 
                  che citavamo più su – si sia congedato dalla storia 
                  della canzone con un brano tardo (del 1945), scritto in coppia 
                  con l'amico Edoardo Nicolardi, che essendo direttore di un ospedale 
                  a Napoli aveva assistito alla nascita di molti bambini di pelle 
                  scura da madri partenopee. 
                  Testimonianza, comica e disperata assieme, delle conseguenze 
                  della prostituzione cui erano ridotte dalla fame molte popolane 
                  di quartieri sottoproletari all'epoca dello sbarco degli alleati. 
                  Il testo è modernissimo: un montaggio di anonime voci, 
                  con ironie e battute ci pone nel bel mezzo di un “vascio”, 
                  di un vicolo del porto, dove si commenta l'accaduto. La melodia 
                  sospesa sui semitoni, si avvolge in melismi arabegianti, per 
                  esplodere in un ritornello carico assieme d'ironia e di pietà. 
                  La canzone è una pietra miliare, uno degli ultimi classici 
                  napoletani universalmente noti, ma anche un testo oggettivamente 
                  smitizzante, antiretorico, un vero antidoto, che ci fa perdonare 
                  in corner l'autore delle strofe retoriche del Piave, 
                  il triste inno guerresco che – come mio nonno mi raccontava 
                  – i soldati imbarcati sulle navi verso il fronte greco-albanese 
                  cantavano nel lividore della partenza. 
                    
                  Io nun capisco 'e vote che succede 
                  e chello ca se vede nun se crede, nun se crede.  
                  È nato nu criaturo, è nato niro, e 'a mamma 
                  'o chiamma Ciro, sissignore, 'o chiamma Ciro.  
                  See, vota e gira, see... see, gira e vota, see 
                  ca tu 'o chiamme Ciccio o 'Ntuono, 
                  ca tu 'o chiamme Peppe o Ciro, 
                  chillo 'o fatto è niro niro, niro niro comm'a cche... 
                   
                   
                  S'o contano 'e cummare chist'affare 
                  'sti cose nun so' rare se ne vedono a migliare. 
                  'E vvote basta sulo 'na 'uardata, 
                  e 'a femmena è rimasta sott'a botta 'mpressiunata. 
                   
                   
                  See, 'na 'uardata, see... see, 'na 'mprissione, see va truvanno 
                  mò chi è stato, 
                  c'ha cugliuto buono 'o tiro chillo 'o fatto è niro 
                  niro, niro niro comm'a cche...  
                  E dice 'o parulano, embè parlammo, 
                  pecché si raggiunammo chistu fatto ce 'o spiegammo. 
                  Addò pastin' 'o grano, 'o grano cresce 
                  riesce o nun riesce, semp'è grano chello ch'esce. 
                   
                   
                  Mee, dillo a mamma, mee... mee, dillo pure a me conta 'o 
                  fatto comm'è ghiuto 
                  Ciccio, 'Ntuono, Peppe, Ciro 
                  chillo 'o fatto è niro niro, niro niro comm'a cche... 
                 Alessio Lega 
                  alessio.lega@fastwebnet.it 
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