cultura 
                  
                  
                 Buddhismo 
                  zen 
				fra osterie e bordelli  
				«Ikkyu non è affare per deboli di spirito. Gli 
                  osservanti del politicamente corretto, i rispettosi dei valori 
                  costituiti farebbero bene ad astenersi. Meglio che a varcare 
                  il limen di questa poesia sia solo chi è disposto 
                  a correre il più temibile dei rischi, chi può 
                  accettare di finire scaraventato nel malfermo territorio del 
                  dubbio». In questa maniera esordisce l'introduzione di 
                  Ornella Civardi, eccellente curatrice del volume Nuvole vaganti. 
                  La raccolta di un maestro zen di Ikkyu Sojun, (Astrolabio 
                  Ubaldini, 2012, pagg. 216, € 18,00) in cui sono antologizzati 
                  centocinquanta componimenti poetici del monaco zen giapponese, 
                  che, come una sorta di diario intimo, accompagnano l'indagine 
                  e la ricerca interiore dell'autore lungo le varie tappe della 
                  vita, dall'adolescenza alla vecchiaia. 
                  Ikkyu Sojun! Chi era costui? Vissuto fra la fine del trecento 
                  e la prima metà del quattrocento è considerata 
                  come una delle figure più significative dello buddhismo 
                  zen giapponese. Ad esempio Yasunari Kawabata – premio 
                  Nobel per la letteratura nel 1968 – ebbe a definirlo come 
                  «il più rigoroso e profondo dei maestri zen». 
                  È infatti fuori discussione la sua importanza come innovatore 
                  (seppur critico) e divulgatore della pratica zen, per non dire 
                  del suo ruolo di animatore di un cenacolo culturale da cui sono 
                  scaturite alcune fra le più elevate espressioni artistiche 
                  del tempo. Per il lettore di “A” si può a 
                  piena ragione aggiungere che Ikkyu trova adeguata collocazione 
                  all'interno di quella categoria/non-categoria che va sotto il 
                  nome di “anarchismo religioso”; intendendo quest'ultimo 
                  non come l'adesione da parte di uomini di religione a un'ideologia 
                  politica (l'anarchismo), bensì come l'espressione di 
                  una sensibilità religiosa libera da dogmi e imposizioni. 
                  Per riprendere alcuni versi di Ikkyu: «Secondo natura 
                  è la condotta / più giusta e senza leggi: / La 
                  saggezza di ieri / oggi è stupidità». O 
                  ancora: «Verità innata / è una grande illusione. 
                  / Innata illusione / è la vera accezione». D'altro 
                  canto Linji, il fondatore della scuola zen rinzai a cui apparteneva 
                  lo stesso Ikkyu così insegnava: «Se incontrate 
                  il Buddha, uccidetelo. Se incontrate un maestro uccidetelo». 
                  (Ciò ha fatto dire a Hakim Bey: «Il commento di 
                  Bakunin su Dio, che se esistesse dovremmo ucciderlo, dopo tutto 
                  passerebbe come pura ortodossia all'interno dello zen buddhista»).
                 
                 
                  Una vita in cammino 
                  Figlio illegittimo dell'imperatore Go Komatsu e di una dama 
                  di corte proveniente da un'antica famiglia caduta in disgrazia, 
                  andò a vivere sin da piccolo presso il tempio di Ankoku-ji, 
                  a Kyoto, per essere iniziato alla vita monastica. Già 
                  a quell'epoca il buddhismo zen aveva perso il contenuto delle 
                  origini, scegliendo di adagiarsi in una profittevole istituzionalizzazione 
                  in perfetta sintonia con l'establishment economico e 
                  politico del tempo. I maggiori monasteri, che già si 
                  trovavano in possesso di ingenti proprietà fondiarie, 
                  si premuravano di accumulare nuove fortune svolgendo l'attività, 
                  ampiamente remunerativa, del prestito a interesse. D'altro canto 
                  le più alte cariche religiose venivano acquisite o per 
                  lignaggio o per intrigo, tramite la complice approvazione del 
                  governo. Se per divenire priore di un tempio era necessario 
                  esibire un attestato di illuminazione, quest'ultimo si poteva 
                  sempre acquisire pagando oppure attraverso particolari favori 
                  o appoggi altolocati. 
                  Ben presto Ikkyu insorge contro “i venditori di zen” 
                  e contro ogni mercificazione dello spirito. Abbandona l'ambiente 
                  raffinato ed estetizzante dell'Ankoku-ji, scegliendosi maestri 
                  poveri e marginali. In seguito prediligerà lo stile di 
                  vita del monaco itinerante, in contatto con il popolo e la natura, 
                  alternando così i ritiri in qualche eremo malandato – 
                  raccolto nella pratica meditativa, nella composizione di poesie 
                  e nel lavoro della terra – all'immersione nella vita cittadina, 
                  frequentando taverne e bordelli, infrangendo, uno dopo l'altro, 
                  tutti i precetti della regola monastica, per dare in questo 
                  modo forma compiuta a una personalissima accezione dello zen, 
                  finalmente libera dai lacci e lacciuoli dei dogmi e delle convenzioni 
                  sociali. Lascerà scritto: «A furia di coltivare 
                  la testa / abbiamo smarrito il cuore». 
                  Verso i settant'anni incontra una cantante cieca di un tempio, 
                  di diversi decenni più giovane di lui, nei confronti 
                  della quale nutre, ricambiato, una passione ardente in grado 
                  di ridare nuova ricchezza alla sua vita, che volge ormai al 
                  tramonto. In verità poteva ben accadere che un monaco, 
                  infrangendo i voti, intrecciasse una relazione con una donna; 
                  ciò veniva tollerato a condizione che la relazione restasse 
                  segreta, salvaguardando così forme e apparenze. Per Ikkyu 
                  invece la resa all'amore è assoluta: fuori da ogni ipocrisia 
                  curiale e da ogni senso di colpa, egli canta l'amore come dono 
                  straordinario lungo il cammino di senso compiuto dall'uomo nella 
                  vita. Come in questa poesia: «La mia cieca la notte / 
                  viene a sentirmi far poesia. / Sotto le coltri chiocciamo / 
                  fitto fitto come due mandarine. / Sorgerà forse un giorno 
                  / un'alba di salvezza alle genti, / ma il decrepito dio che 
                  ho dentro / già diffonde sul mondo la sua primavera». 
                  Infine, a ottant'anni, un editto imperiale lo nomina priore 
                  del Daitoku-ji, uno dei più importanti monasteri zen, 
                  all'epoca distrutto a causa delle guerre che imperversavano. 
                  Egli riuscirà, prima di morire, nel portare a compimento 
                  la faticosa impresa di ricostruzione. Ai discepoli che l'avevano 
                  seguito prima di morire lascerà detto: «Dopo che 
                  me ne sarò andato, potrete ritirarvi sui monti o in un 
                  bosco, oppure mettervi a bazzicare bordelli e osterie. In entrambi 
                  i casi avete la mia benedizione. Ma quelli che pretenderanno 
                  di possedere lo zen, di sapere la Via, quelli saranno i veri 
                  impostori, i nemici della Parola». 
                
  Federico Battistutta
                 
                   
                 
                 Ricordi 
                  di 
                  un militante Br (e contadino)  
                 Parlare in un libro di vicende politiche non è facile, 
                  soprattutto se il libro in questione è la biografia di 
                  un brigatista (Prospero Gallinari, Un contadino nella metropoli, 
                  Bompiani, Milano 2006, pagg. 350, € 8,50). 
                  Prospero Gallinari, recentemente scomparso nella sua Reggio 
                  Emilia, è stato tra i fondatori delle Brigate Rosse e 
                  militante delle stesse fino al fatidico anno 1988 nel quale 
                  dichiararono definitivamente concluso il loro percorso politico. 
                  Responsabile del sequestro Moro e di molte altre azioni che 
                  gli valsero tre ergastoli, pena scontata con 17 anni di prigione 
                  e in seguito, con l'aggravarsi delle sue condizioni fisiche, 
                  con i domiciliari. 
                  Avevo in mente già da diverso tempo di scrivere del suo 
                  libro Un contadino nella metropoli e quando pochi giorni 
                  fa ho appreso la notizia della sua scomparsa, questo desiderio 
                  è divenuto una necessità. Prospero non lo ho mai 
                  conosciuto di persona, e di questo mi rammarico, ma leggendo 
                  il suo libro ho avuto modo di conoscere la sua vita, dalle origini 
                  contadine rivendicate più volte con sincero orgoglio, 
                  alla militanza politica con tutti i suoi retroscena. Certo l'approccio 
                  con un libro di questo genere non è facile, quantomno 
                  non lo è per me, c'è sempre il timore di trovare 
                  falsature o omissioni riportate dall'autore, accompagnate da 
                  pentimenti o da un ostinata retorica. Il libro di Prospero non 
                  è nulla di tutto questo. 
                  Ho conosciuto la vita di un uomo che ha vissuto come bracciante 
                  nelle campagne reggiane, dove il fermento politico era forte 
                  e ancora vivo era il ricordo della Resistenza tradita, il suo 
                  impegno e la voglia di riscattarsi con la politica e in seguito 
                  le delusioni, l'uscita dal Pci e la fondazione delle Brigate 
                  Rosse. 
                  La scelta della militanza armata, condivisa o no dal lettore, 
                  non viene giustificata con ragionamenti e scuse ipocrite da 
                  Gallinari, ma appare come un percorso della sua vita e del suo 
                  impegno politico, lascia così che sia la sua storia a 
                  giustificare tale scelta. 
                  Interessante è la descrizione dell'organizzazione e della 
                  gestione di tutte le “colonne” dislocate nella penisola, 
                  l'importanza dell'appoggio esterno di alcuni membri e le vicende 
                  che porteranno alla sua prima incarcerazione e in seguito alla 
                  sua evasione. Nel libro non mancano alcune sue riflessioni e 
                  dettagli descrittivi, che ci trasportano emotivamente nelle 
                  vicende narrate, dai momenti più ironici a quelli più 
                  tesi e intensi. 
                  In conclusione, trovo questo libro un appassionante testimonianza 
                  della vita di un uomo e allo stesso momento dell'Italia quegli 
                  anni, lo consiglio a chiunque crede che ogni evento nella storia 
                  sia frutto di un percorso e soltanto conoscendolo potremo dire 
                  di averlo compreso e aver appreso da esso qualche insegnamento, 
                  se dovessi descriverlo in una sola parola lo definirei onesto. 
                  Ogni umano ha diritto alla sua Utopia. 
                  Al libro di Prospero Gallinari è ispirata la canzone 
                  Martino e il ciliegio del rapper reggiano Murubutu, vi 
                  consiglio il suo ascolto. 
                 Giuseppe Di Giulio 
                   
                 
                 Il 
                  potere, i miti 
                  noi stessi  
                 Quando fu firmato il Trattato di Maastricht, nel 1992, sapevamo 
                  che stavamo consegnando le nostre vite nelle mani di un pugno 
                  di banchieri: un vero e proprio colpo di mano consumato nell'inconsapevolezza 
                  e nell'indifferenza dei più. Eppure anche i più 
                  accorti sono rimasti attoniti e sgomenti quando la troika formata 
                  da Fmi, Bce e Ue ha messo letteralmente in ginocchio un'intera 
                  nazione, la Grecia, con un'arroganza e una ferocia cui abbiamo 
                  assistito con un doloroso e frustrante senso di impotenza. E, 
                  nonostante siamo ormai esperti di analisi sul potere, ci siamo 
                  chiesti che volto abbia assunto ai giorni nostri: perché, 
                  se non lo si conosce e riconosce, diventa anche impossibile 
                  combatterlo, o quanto meno difendersene. 
                  È a questa vicenda che si ispira Marco Revelli nel suo 
                  ultimo saggio, I demoni del potere (Laterza, Bari-Roma, 
                  2012, pagg. 97, € 14,00), leggendola come una sorta di 
                  matricidio compiuto dall'Europa, le cui radici affondano appunto 
                  nella antica civiltà greca. E proprio da questa Revelli 
                  è voluto partire nella sua indagine sul potere, andando 
                  a rileggere due miti fondativi nel cammino dell'uomo verso la 
                  civiltà; un gioco, ci avverte, soltanto un gioco, considerato 
                  che i miti sono polisemantici e si prestano ad interpretazioni 
                  anche contrastanti. 
                  Entrambi i miti scelti da Revelli, “Medusa e Perseo” 
                  e “Ulisse e le Sirene”, possono essere letti come 
                  archetipi dei conflitti a volte mortali tra uomini e donne. 
                  Vediamo chi sono queste donne. Medusa è una bellissima 
                  fanciulla che Poseidone sedusse (o stuprò) nel tempio 
                  di Atena, la quale la trasformò in un mostro che pietrificava 
                  col proprio sguardo chiunque la guardasse. Questo in tempi molto 
                  remoti. Per Ovidio e Pindaro, invece, continua ad essere una 
                  fanciulla così bella che gli uomini, affascinati, guardandola 
                  restano pietrificati. Medusa è una delle Gorgoni: le 
                  sue sorelle, Euriale e Steno, che rappresentano rispettivamente 
                  la perversione sessuale e quella morale, sono immortali; lei, 
                  invece, è mortale, e rappresenta la perversione intellettuale. 
                  Il che significa che se gli uomini possono sopportare le perversioni 
                  sessuali e morali delle donne, visto il grande diletto che ne 
                  traggono, non possono invece accettare il loro modo di pensare, 
                  e quindi cosa c'è di meglio che tagliar loro la testa? 
                  Ed è esattamente quello che fa Perseo che, dopo averne 
                  fatto largo uso per liberarsi dei suoi avversari, la dona ad 
                  Atena (che simboleggia anche l'invidia delle donne verso le 
                  altre donne). La testa però resta viva, e il suo sguardo 
                  mortifero; Atena la fonde nel proprio scudo, così che 
                  i nemici, guardandola, restino pietrificati. 
                  Non è difficile riconoscere, in questo mito, la “demonizzazione 
                  della donna” che iniziò con la prima moglie di 
                  Adamo (vedi Renato Sicuteri: Lilith e la luna nera) e, 
                  attraversando allegramente i millenni, si insinuò nel 
                  topos della Belle dame sens merci (vedi Mario 
                  Praz: La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica), 
                  per entrare pimpante ed evergreen nel cinico e sgamato duemila. 
                  Mi concedo una pausa autobiografica: non più di un anno 
                  fa un amico che da anni cercava inutilmente di infilarsi nel 
                  mio letto, una volta, alzandosi di scatto dalla sedia, mi apostrofò: 
                  “Ma tu non sei una donna, sei il diavolo!”... 
                  Anche le Sirene, come le Gorgoni, sono delle figure ctonie, 
                  anticamente rappresentate con ali e testa di uccello, in seguito 
                  con la coda; simboleggiano la sessualità femminile che 
                  seduce e uccide. Afrodite, dea dell'amore, viene spesso raffigurata 
                  in forma di donna e pesce. Ancora oggi il termine sirena indica 
                  la donna fatale. 
                  Revelli, citando tra gli altri J.P. Vernant e Italo Calvino, 
                  ci offre una diversa interpretazione della Gorgone e del significato 
                  della sua uccisione da parte di Perseo. Medusa, in greco “colei 
                  che domina” o “La sovrana”, simboleggia il 
                  potere allo stato naturale; fissarla induce a “perdere 
                  se stesso, la propria capacità di guardare e di appartenersi: 
                  questo è lo sguardo terrifico del potere... in questa 
                  caduta in balia dell'altro sta la natura della pietrificazione”. 
                  Perseo è il fondatore di città, l'uccisore di 
                  mostri e, soprattutto, colui che usa degli artifici (nella lotta 
                  contro Medusa si tratta dello scudo in cui si riflette la sua 
                  immagine e che gli consente di tagliarle la testa senza guardarla); 
                  è l'eroe che doma le potenze infernali e le passioni 
                  in nome dell'ordine razionale istituito dalla polis. 
                  L'episodio di Ulisse e le Sirene si colloca nel canto centrale 
                  dell'Odissea, e “segna il passaggio (e il distacco) da 
                  un passato emotivamente intenso e l'inizio di un nuovo ciclo 
                  di avventure e di lotte”. Prerogativa delle Sirene è 
                  il loro irresistibile canto; “la trasposizione poetica 
                  di un passato di cui godere, in cui riconoscersi e, nel contempo, 
                  arrestarsi. Dunque morire”. Mentre con la Gorgone ci si 
                  perdeva guardando, con le Sirene è l'ascolto ciò 
                  che annulla, in un duplice senso. Da un lato le Sirene concedono 
                  a Ulisse un privilegio: la narrazione delle proprie gesta, e 
                  quindi la fama ottenuta da vivo. Ricorrendo come Perseo a un 
                  artificio (le corde per legarsi), sicuro del proprio passato 
                  e quindi della propria identità, Odisseo potrà 
                  presentarsi alla corte di Alcinoo come l'aedo di se stesso. 
                  Ma, come suggerisce Peter Sloterdijk, citato da Revelli, è 
                  la forma che la narrazione assume, cioè il canto, ciò 
                  che affascina e incanta nelle Sirene, cioè “la 
                  musica che assorbe le parole e in ragione di ciò riesce 
                  a forzare i confini dell'io... il codice comunicativo più 
                  efficace per abbassare le barriere di difesa nei confronti dell'altro”. 
                  Entrambi i miti, dunque, raccontano dell'io messo di fronte 
                  alla proprio doppio, che annienta. Sia Medusa che le Sirene 
                  non esercitano una potenza diretta ma quello che Revelli definisce 
                  un soft power, distruttivo quanto l'hard power, 
                  ma esercitato “a distanza”, senza spargimento di 
                  sangue. Soprattutto (qui Revelli cita Blanchot), il mito di 
                  Ulisse e le Sirene segna il passaggio dal mito al racconto, 
                  che si separa del proprio oggetto (l'evento narrato) e dal proprio 
                  soggetto (narrato), ponendosi come ente autonomo. 
                  Dopo un interessante passaggio dedicato alla storia, Revelli 
                  approda di nuovo ai giorni nostri, all'inenarrabile orrore che 
                  caratterizzò il '900, che già si era mostrato 
                  nella Grande Guerra, e che nel 1917 Kafka anticipò profeticamente 
                  in un suo scritto intitolato emblematicamente Il silenzio 
                  delle Sirene. 
                  Con la fine dell'800 le grandi narrazioni della letteratura, 
                  da Le opere e i giorni a Guerra e pace, che trasmettevano 
                  alle nuove generazioni le tradizioni e le esperienze del passato, 
                  scompaiono per lasciare il posto allo storytelling, racconto 
                  postumo, “che non racconta l'esperienza del passato, ma 
                  disegna i comportamenti, orienta i flussi di emozioni, sincronizza 
                  la loro circolazione [...] che produce il proprio ordine, creando 
                  un vissuto artificiale altro rispetto al soggetto... il mondo 
                  raccontato come unico mondo possibile”. Un esempio? La 
                  balla spaziale delle armi di distruzione di massa in Iraq, che 
                  “crearono” l'evento dei bombardamenti sulle città 
                  di quel martoriato paese. 
                  L'ultimo grande narratore che mostrò il volto pietrificante 
                  del potere fu Pasolini nel film Salò. Le centoventi 
                  giornate di Sodoma, il quale volle indagare “come 
                  agisce il potere dissociandosi dall'umanità e trasformandola 
                  in oggetto”. 
                  È un saggio impegnativo, I demoni del potere, 
                  e molto più di un gioco, ma al termine della lettura 
                  ne sapremo un po' di più non solo delle dinamiche del 
                  potere, ma anche di noi stessi: e questa è la cosa più 
                  importante. 
                 Sandra D'Alessandro 
                   
                 
                 Quel 
                  maggio 
                  rampante italiano  
                 Chi, come colui che scrive, vive se stesso proiettato al futuro 
                  rischia di prestare meno attenzione di quanto meriti alla narrazione 
                  storica sulle recenti vicende e, in particolare, a quella che 
                  prende la forma della biografia e/o del romanzo storico. 
                  La rilettura recente di un libro che già decenni addietro 
                  avevo letto è stata, da questo punto di vista, decisamente 
                  utile a riflettere su quest'ordine di questioni. 
                  La prima edizione di Due di due di Andrea De Carlo (Bompiani, 
                  Milano, 2010, € 10,50) è del 1989. Non ricordo bene 
                  come mi capitò fra le mani, di regola non acquisto romanzi, 
                  se si escludono quelli di Vance et similia, di autori viventi. 
                  Sono certo di non averlo comprato né rubato e che non 
                  me l'hanno prestato, probabilmente mi è pervenuto in 
                  occasione di un trasloco, uno dei tanti che ho fatto o nei quali 
                  ho dato mano. 
                  Ammetto che non avevo alcuna notizia sull'autore ma, considerando 
                  che egli non ha presumibilmente alcuna notizia su di me, non 
                  credo di avergli fatto un gran torto. Era, per di più, 
                  di un genere che non amavo molto, un romanzo storico ambientato 
                  durante il maggio rampante italiano e avente a oggetto, fra 
                  l'altro, un romanzo di denuncia sulla natura mefitica di Milano 
                  ai tempi. 
                  Lo lessi insomma ma non lo amai, lo lessi per vedere, come avrebbe 
                  detto il Principe Antonio Foca De Curtis, come sarebbe andata 
                  a finire. 
                  Solo dopo averlo terminato, mi resi conto delle ragioni del 
                  mio fastidio. Mi ricordava singolarmente Il riposo del guerriero 
                  di Christiane Rochefort, un libro che avevo letto da fanciullo 
                  e che invece mi era piaciuto, forse perché ero meno coinvolto. 
                  Per chi non ne ricordasse la trama, basta sapere che tratta 
                  di una giovane signora di buona famiglia che rompe, per disgusto 
                  e noia, i rapporti con il suo ambiente e diventa l'amante fedele 
                  e appassionata di un alcolizzato con tendenze suicide. 
                  Il rapporto fra i due principali personaggi di Due di due, 
                  Mario, l'io narrante amico fedele e subalterno e Guido, il maudit, 
                  avventuriero, sciupafemmine, tormentato eroe del nostro tempo, 
                  è simile, ovviamente se si esclude la relazione erotica 
                  fra i due. 
                  Non saprei dire perché De Carlo non abbia reso la vicenda 
                  più intrigante introducendo un cotè omosessuale, 
                  in fondo Porci con le ali era già uscito. 
                  Il romanzo è diviso in due parti. Nella prima i due ragazzi, 
                  entrambi studenti del liceo classico Berchet di Milano, vivono 
                  gli altrettanto classici turbamenti adolescenziali, si trovano 
                  coinvolti con volenterosa disponibilità negli accadimenti 
                  del 1968, vivono diverse tumultuose vicende. Come si diceva, 
                  dei due la figura trainante è Guido, che legge, conosce, 
                  sperimenta, è un leader sia pur eretico del movimento 
                  degli studenti, Mario lo seconda. 
                  De Carlo pone l'accento sulla precoce fine della dimensione 
                  libertaria ed innovatrice del movimento degli studenti ad opera 
                  degli orridi gruppi marxisti leninisti, in particolare il Movimento 
                  Studentesco della Statale divenuto poi Mls. Io, che ero da quelle 
                  parti, posso per un verso confermare che tali gruppi tendevano 
                  all'orrido ma, soprattutto, rilevare che le dinamiche che si 
                  svilupparono anche nei primi anni '70 furono infinitamente più 
                  ricche ed interessanti della descrizione riduttiva e caricaturale 
                  che ne dà De Carlo. 
                  Guido, e Mario nel ruolo di ombra fedele, diventano anarchici, 
                  d'altronde potevano mancare gli anarchici? Dalla lettura del 
                  libro parrebbe che i due abbiano frequentato il Circolo Anarchico 
                  di via Scaldasole descritto come uno stanzone polveroso, cosa 
                  che effettivamente era. A questo punto del romanzo si dà 
                  un passaggio che oltre vent'anni addietro mi colpì molto 
                  e di cui allora, a differenza di oggi, non mi riuscì 
                  di darmi una spiegazione. Ritrovo, a pagina 104 della quindicesima 
                  edizione, quella del 2010, un'affermazione che trovai, e trovo, 
                  sgradevole: «I piccoli gruppi anarchici si sono dispersi, 
                  i loro membri mandati in prigione con accuse false o scappati 
                  o anche solo troppo demoralizzati per fare più niente». 
                  Andrea De Carlo tratta di quanto avvenne immediatamente dopo 
                  la strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969 e visto che 
                  il suo eroe, Guido, e l'io narrante, Mario, frequentano un circolo 
                  anarchico deve fornire una spiegazione del loro abbandono della 
                  “politica” che non contrasti con i caratteri propri 
                  dell'eroe e persino con quelli del più modesto io narrante 
                  e la fine del movimento anarchico gli pare efficace. Quando 
                  però si scrive un – sia pur modesto – romanzo 
                  storico una qualche attenzione ai particolari, soprattutto se 
                  non irrilevanti, sarebbe opportuna visto che, in realtà, 
                  il movimento anarchico, che certo non pretendeva di essere l'Orda 
                  d'oro, tenne botta. Visto che Guido viene presentato come uomo 
                  di carattere, il suo sparire nel vento nel momento di massimo 
                  pericolo sarebbe non coerente con il personaggio e, di conseguenza 
                  Andrea De Carlo fa sparire nel vento l'intero movimento anarchico. 
                  Una licenza letteraria notevole. 
                  La seconda parte del romanzo è invece dedicata alla trasformazione 
                  di Mario da studente svogliato in operoso contadino ecocompatibile 
                  nei dintorni di Gubbio, al suo divenire padre amoroso e critico 
                  intransigente della civiltà industriale, al suo inserirsi 
                  nella deriva che porterà all'attuale sviluppo dell'economia 
                  verde. 
                  Naturalmente Guido non scompare, anzi. Viaggia per il mondo, 
                  trova e lascia compagne, scrive, come già dicevo, un 
                  romanzo di denuncia contro Milano, l'inquinamento, il cemento, 
                  il ceto politico, la sua opera viene equivocata e mercificata 
                  e, alla fine, muore giovane lasciando, come si diceva ai tempi, 
                  un bel cadavere. 
                  Il cuore storico politico del romanzo, quello che più 
                  mi ha interessato, emerge da ciò che viene valorizzato 
                  e, ancora di più, da ciò che viene occultato. 
                  Invano si cercherebbe nell'opera un cenno anche marginale al 
                  conflitto di classe che pure qualche peso nel maggio rampante 
                  lo ebbe. La questione delle classi appare in qualche misura 
                  solo nella forma della relazione problematica fra Guido, figlio 
                  di una portinaia, e diverse delle sue socie di volo che, immancabilmente 
                  sceglie, chissà come mai?, fra borghesi affette da mal 
                  de vivre. Al contrario la partita si gioca sulla dialettica 
                  infelice fra tensione distruttiva, incarnata dal saturnino Guido, 
                  e tensione all'alternativa positiva, incarnata dallo scialbamente 
                  solare, mi si passi l'ossimoro, Mario. 
                  In altri termini, la passione sovversiva viene consegnata, e 
                  in questo modo liquidata, alla condizione giovanile e ad una 
                  critica estetica dell'orrore della civiltà urbano-industriale 
                  e la rivoluzione sociale si riduce ad una sperata rete di cooperative 
                  di produzione e consumo eque e solidali. Un triste e, spero, 
                  precoce funerale. 
                 Cosimo Scarinzi 
                   
                 
                Lo scrittore Brassens, 
                  questo sconosciuto 
                  Un 
                  libero flusso di pensieri ed emozioni che raccontano del poeta 
                  Georges Brassens: ecco G. Brassens 5h40' (Riflessioni e appunti 
                  tra un treno, un pullman e una quenelle di quinoa) (Medea, 
                  Pavia, 2011, pagg. 300, € 18,00). 
                  L'autrice Daniela Soave Vighesso ripercorre la storia di questo 
                  cantautore utilizzandone le canzoni e raccogliendo appunti che 
                  ne indagano la personalità, cercando di scovare l'uomo 
                  dietro all'artista e dando libero sfogo a quello che appare 
                  come il suo intimo fantasticare su una diretta conoscenza con 
                  questo affascinante cantore. 
                  Un vero e proprio innamoramento, a tratti un po' celebrativo 
                  ma in alcuni casi più lucidamente analitico. Il racconto 
                  di un'esperienza assolutamente personale, con interventi e interpretazioni 
                  a volte intuitive e interessanti altre più arbitrarie 
                  e congetturate. 
                  È onesto il tentativo di riconoscere a Brassens un ruolo 
                  di apripista, più che di una personalità da idolatrare 
                  (salvo cadere in qualche contraddizione) e di tener conto della 
                  possibilità che vi siano stati anche artisti in grado 
                  di sviluppare meglio di lui i diversi spunti che egli stesso 
                  ha offerto. 
                  Tra una confessione e l'altra l'autrice rivela un'appassionata 
                  e intensa conoscenza dell'intera opera del cantautore (ma, forse, 
                  una meno puntuale conoscenza di altri artisti citati) e la mette 
                  a disposizione di chi legge, offrendo un'occasione per riflettere 
                  e per immergersi fra le canzoni di Brassens, anche in assenza 
                  di musica, o per immaginare una personalità in fondo 
                  sconosciuta. 
                  Probabilmente è un libro scritto più per sé 
                  che per chi lo leggerà, ma questo non impedisce di lasciare 
                  un prezioso contributo con la parte dedicata a Brassens scrittore, 
                  frequentemente liquidata dalla bibliografia già presente 
                  in italiano e considerata invece, all'interno di questi appunti, 
                  con attenzione e devozione. 
                 Elisa Sciuto 
                    
                 
                
                  
                     
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                      Bela Lugosi nei panni del Conte Dracula  | 
                     
                   
                  Letteratura gotica/ 
                  Sul concetto di “normalità”  
                Sfogliando un qualsiasi dizionario della lingua italiana potrebbe 
                  facilmente accadere di imbattersi nel termine “normale” 
                  e di leggervi accanto una definizione più o meno di questo 
                  tipo: “conforme alla consuetudine e alla generalità, 
                  regolare, usuale, abituale”. Ciò che ho finora 
                  detto non rappresenta una novità per nessuno, ma vale 
                  la pena interrogarsi più a fondo su questo termine e 
                  sulle ripercussioni che esso genera sulle nostre esistenze. 
                  Innanzitutto sorge spontaneo domandarsi da dove nascano e su 
                  quale base siano concepiti tutti quei paradigmi e modelli di 
                  normalità a cui ognuno di noi cerca quotidianamente di 
                  uniformarsi con lo scopo di garantirsi un ruolo nella comunità 
                  umana. Va chiarito il fatto che la normalità, così 
                  come noi siamo abituati a concepirla, non è assolutamente 
                  un “fatto naturale”, ma soltanto un mero prodotto 
                  culturale, un insieme di regole non scritte che quotidianamente 
                  la società ci propina e che noi inconsapevolmente introiettiamo 
                  e proiettiamo sul nostro corpo: ad aver intercettato tutto questo 
                  sono stati vari autori inglesi dell'800 che per primi hanno 
                  introdotto i concetti di “artificialità della natura 
                  umana” e di “essere umano come prodotto culturale”; 
                  il ricorrere nei loro romanzi di un certo tipo di tematiche 
                  ha portato, negli anni, a definire l'insieme di queste opere 
                  con il nome di letteratura gotica. 
                  Fin dalla sua nascita il gotico si è posto come genere 
                  portatore di critica culturale e sociale in grado di mostrare 
                  quanto falso fosse il mito del progresso; è un genere 
                  che sostanzialmente dà voce alle “alterità” 
                  e le esalta a tal punto da rendere visibile a tutti il meccanismo 
                  della loro marginalità e la “fabbrica dei criteri” 
                  che si cela dietro a tutto questo. Senza nemmeno rendercene 
                  conto siamo proprio noi, attraverso i nostri giudizi e le nostre 
                  azioni quotidiane, che permettiamo a questi criteri di prosperare, 
                  di perpetrare e di radicarsi in maniera sempre più irrimediabile 
                  nella società: non facciamo altro che comportarci come 
                  ingranaggi e, per citare Michel Foucault, come “cinghie 
                  di trasmissione del potere”. 
                  Uno di questi autori è senza dubbio Edgar Allan Poe, 
                  che nel suo racconto del 1840 intitolato L'uomo interamente 
                  consumato ci descrive un generale John A.B.C. Smith come 
                  un modello di perfezione, un uomo che incarna perfettamente 
                  la categoria del “consueto”; tuttavia, con l'evolversi 
                  del racconto, si scoprirà che quest'emblema della normalità, 
                  così come ci è stato descritto, in realtà 
                  non è che un ammasso di protesi artificiali. In questo 
                  modo Poe ci sta dicendo che un uomo è tanto più 
                  “normale” e risponde tanto più alle aspettative 
                  del potere quanto più il suo significato di “essere 
                  umano” viene meno. Ad aver tracciato il sentiero seguito 
                  poi da Poe è stata sicuramente Mary Shelley nell'opera 
                  del 1818 intitolata Frankenstein in cui, per la prima 
                  volta, si parla di una vita artificiale e di un corpo-macchina. 
                  Altro autore che mira a scardinare le fondamenta su cui poggia 
                  il concetto di normalità è senza ombra di dubbio 
                  Bram Stoker che nel 1897 con Dracula ci racconta di un 
                  vampiro che esercita il suo fascino indistintamente su uomini 
                  e donne. Parlandoci della sessualità polimorfa e sregolata 
                  del vampiro, l'autore non fa altro che parlarci del terrore 
                  dell'epoca (spesso rintracciabile anche ai nostri giorni) nei 
                  confronti di quelle sessualità che si discostano rispetto 
                  alla “consuetudine” (eterosessuale e finalizzata 
                  alla procreazione). Così facendo l'autore sembra voler 
                  attaccare anche l'unico modello sociale legittimato dal potere, 
                  e cioè quello familiare. 
                  L'ossessione instancabile del potere finalizzata all'affermazione 
                  della normalità si è tradotta in passato anche 
                  nella creazione di vere e proprie discipline scientifiche che 
                  si occupassero di individuare e analizzare le diverse “categorie” 
                  di esseri umani: fra queste la fisiognomica, che attraverso 
                  i suoi studi mirava proprio a creare modelli “più 
                  conformi” rispetto ad altri. 
                  Stabilendo dei modelli di normalità in ogni sfera della 
                  vita si genera ghettizzazione, conflitto e odio; si trasforma 
                  in questo modo una risorsa così preziosa come la diversità, 
                  capace di arricchire tutti coloro che ne sanno cogliere il vero 
                  significato, in un qualcosa di negativo, in un qualcosa capace 
                  di generare odio tanto più profondo quanto più 
                  è ampia la differenza rispetto al modello da imitare. 
                  I criteri di normalità hanno lo scopo di rendere gli 
                  uomini dei corpi privi di anima e destinati alla semplice produzione, 
                  di imbrigliare la mente e di renderci dei gusci vuoti totalmente 
                  impotenti e alienati, proprio come degli zombie. 
                  In questo modo il corpo si devitalizza e diviene cosa: questo 
                  è quanto ci dice anche Oscar Wilde nel suo celebre Ritratto 
                  di Dorian Gray, con cui vuole rompere il concetto di autenticità, 
                  defininendoci “nient'altro che copie”, copie di 
                  modelli preesistenti e da cui siamo stati influenzati, dei “prigionieri 
                  all'interno di un copione già scritto”. 
                  L'unico modo per essere davvero liberi è rimuovere quel 
                  filtro che trattenendo “l'insolito” lascia passare 
                  soltanto il “consueto”; una volta conseguito questo 
                  nuovo stato di visione del mondo potremo aspirare ad un cambiamento 
                  che porti finalmente alla vera eguaglianza sociale! 
                 Alessio Gentili 
                    
                 
                 La 
                  fame 
                  è un bel gioco  
                Per una volta partiamo dalla coda: “Quiz finale” 
                  a pagina 113 (vi dirò dopo di che libro si tratta). “Semplici 
                  domande” che servirebbero a valutare se lettori-lettrici 
                  hanno ben capito le 112 pagine precedenti ma io ve le giro “al 
                  buio”. Sarebbero 8 quesiti ma io mi limito ai primi 4. 
                  Vediamo quante risposte pensate di sapere. Il criterio però 
                  non è il “giusto” ma ciò che accade 
                  in questo XXI secolo. 
                   
                  1. La finanza è:
				   
                  - Un mezzo al servizio dell'economia produttiva e dell'insieme 
                  della società.
                  
 - Il mercato dei soldi.
                  
 - Un fine in sé, per fare soldi dai soldi nel più 
                  breve tempo possibile.
                  
 - Un divertente gioco di società in cui vincono tutti 
                  e i soldi si creano dal nulla per magia.
  
                  2. L'agricoltura:
				  
                  - Serve a dare un reddito dignitoso ai contadini e alle loro 
                  famiglie, e a sfamare le persone tutelando l'ambiente e la biodiversità.
                  
 - Serve a produrre quelle cose che bisogna aggiungere ai conservanti, 
                  pesticidi e coloranti prima di venderli sui banconi dei nostri 
                  supermercati.
                  
 - Serve a produrre cibo, il cui unico scopo è costruirci 
                  sopra derivati e altri strumenti finanziari sempre più 
                  complicati in modo da poterci guadagnare su.
                  
 - È una cosa superata, qui pensiamo a far soldi, non 
                  certo a perder tempo nel mangiare.
  
                  3. Che cosa dovremmo fare?
				  
                  - Regolamentare la finanza, proibire derivati speculativi e 
                  scommesse sul cibo, tassare le transazioni finanziarie.
                  
 - Raggiungere la sovranità alimentare per ogni popolo 
                  del pianeta.
                  
 - Abolire le ultime regole e controlli in vigore nella finanza 
                  internazionale.
                  
 - Giocarci fino all'ultimo euro nei mercati finanziari perché 
                  siamo più furbi di tutti.
                  
  
                  4. Nel solo 2009 Goldman Sachs ha ottenuto più 
                  di un miliardo di dollari e Barclays 340 milioni di sterline 
                  grazie agli scambi su materie prime e cibo. Da dove vengono 
                  questi profitti?
				  
                  - L'operazione ha creato ricchezza reale. Le banche hanno guadagnato 
                  ma hanno tirato l'economia e contribuito al benessere di tutti. 
                  Che bello il mondo in cui viviamo.
                  
 - Sono soldi creati dal nulla. Non fanno nessun danno, anzi 
                  è un gioco di prestigio molto divertente.
                  
 - Se le banche hanno vinto è scommettendo contro qualcuno 
                  che evidentemente ha perso, probabilmente tanti piccoli risparmiatori 
                  che si sentono molto furbi e comprano Etf e Etc.
                  
 - Le operazioni che hanno fatto aumentare i prezzi del cibo 
                  e il guadagno vengono da lì, a rimetterci sono le persone 
                  che testardamente insistono a usare il cibo per mangiare.
                  
  
                  
                Se le domande e soprattutto le possibili risposte vi sconcertano, 
                  il mio suggerimento è di andare in una buona libreria 
                  o su www.altreconomialibri.it/libri 
                  e di acquistare Il grande gioco della fame (Altreconomia, 
                  2011, pagg.128, € 8,00) – sottotitolo: “Scommetti 
                  sul cibo e divertiti con la finanza speculativa” – 
                  di Andrea Baranes che, fra l'altro, è attivo nella Campagna 
                  per la riforma della Banca mondiale (www.crbm.org) 
                  e autore di Come depredare il Sud del mondo edito appunto 
                  da Altreconomia. 
                  Non so se conoscete Modesta proposta di Jonathan Swift 
                  (sì, proprio l'autore de I viaggi di Gulliver 
                  che in Italia gira perlopiù in edizione ridotta così 
                  che viene spesso scambiato per una favola o un libro d'avventura): 
                  questo feroce pamphlet spiega, in modo freddamente scientifico, 
                  come risolvere il problema della miseria... mangiando i bambini 
                  (irlandesi) poveri. In qualche modo Andrea Baranes espone con 
                  la stessa tranquilla ferocia come la finanza internazionale 
                  usa il cibo per far soldi: un gioco vero, con milioni di morti 
                  veri che corrispondono agli utili. 
                  Crudele. Ma purtroppo vero. Il gioco (orribile ma efficace) 
                  è provare a essere come “loro”. Scrive Baranes: 
                  «Il ruolo più divertente da scegliere resta probabilmente 
                  quello dello speculatore [...] Grazie a queste semplici linee-guida 
                  potrete trarre il massimo del divertimento dal gioco e incontrare 
                  nuovi amici che – come voi – realizzano enormi profitti 
                  e impongono prezzi insostenibili a persone che stanno morendo 
                  di fame». Divertente. Da morire. 
                 Daniele Barbieri 
                    
                 
                 L'anarchia 
                  spiegata dal buon Malatesta  
                 La giovane e vivace casa editrice Nova Delphi Libri (info@novadelphi.it 
                  / www-novadelphi.it) 
                  ripubblica, nella collana Ithaca, due classici scritti dell'anarchico 
                  Errico Malatesta: L'anarchia e Il nostro programma, 
                  che costituiscono il titolo di questo libretto (pagg. 112, € 
                  8,00). Ne ripubblichiamo qui l'introduzione di Paolo Finzi, 
                  della redazione di questa rivista. 
                   
                  Errico Malatesta è morto nel 1932, 19 anni prima che 
                  io nascessi. 
                  Eppure è stato un mio compagno di vita quotidiana per 
                  almeno un ventennio, a partire da quando – nel 1967 – 
                  lo incontrai in alcuni articoli sulle pagine del settimanale 
                  anarchico Umanità Nova e poi l'anno successivo 
                  – il mitico 1968 – negli opuscoli e nei libri che 
                  ebbero a suggerirmi, e poi a vendermi o a prestarmi, gli anarchici 
                  del Circolo “Ponte della Ghisolfa” e in particolare 
                  Pino Pinelli, che del serrvizio-libreria e della biblioteca 
                  di quel circolo era l'appassionato responsabile. 
                  In quel periodo di entusiastica adesione al movimento anarchico 
                  e ai movimenti di lotta dell'epoca, nell'ambito della preparazione 
                  culturale e storica che tanti di noi giovani sentivano come 
                  un “dovere” e che comunque ci veniva proposta dai 
                  vecchi (e il quarantenne Pinelli, nato 23 anni prima di me, 
                  era nella mia percezione assolutamente un vecchio, penso mi 
                  sembrasse il nonno che non avevo), mi lessi più o meno 
                  tutti i classici dell'anarchismo, da Bakunin a Kropotkin, da 
                  Galleani a Gori, da Fabbri a Malatesta. L'età giovanile, 
                  con i suoi entusiasmi e l'eccitazione della “scoperta”, 
                  mi portavano ad apprezzarli tutti, ognuno con le proprie caratteristiche. 
                  Mi riconoscevo allora anche nel linguaggio di un Galleani, che 
                  più avanti mi sarebbe sembrato irrimediabilmente “datato”, 
                  con quel suo infarcire a volte i propri scritti di citazioni 
                  latine o comunque “classiche”, con quella retorica 
                  roboante. E anche il Gori del terribile “Al tuo amor fanciulla 
                  cara, ben altro amor io preferia, è un'idea l'amante 
                  mia...”, che certo non corrispondeva alla situazione ormonale 
                  e ai desideri di un ragazzo che aderiva all'anarchismo senza 
                  per questo escludere di trovarsi una concreta e carnale “amante 
                  mia”: insomma anche quel Galleani e quel Gori mi andavano 
                  benissimo. Ora un po' meno, per certi aspetti molto molto meno. 
                  Ma Malatesta era un'altra cosa. Quello fu sì “amore 
                  a prima vista”. Uno che era morto quasi 40 anni prima 
                  di quando iniziai a leggere i suoi scritti non poteva certo 
                  essere considerato un contemporaneo. Ed era morto prima della 
                  rivoluzione spagnola, della seconda guerra mondiale (quindi 
                  di Auschwitz e Hiroshima, tanto per citare due luoghi-simbolo 
                  di un “mai più” etico che fatica anche solo 
                  a sopravvivere), della coscienza ecologista, del femminismo, 
                  ecc.. 
                  Eppure in quegli anni Malatesta si presentava agli occhi di 
                  tanta parte dei giovani che si avvicinavano all'anarchismo come 
                  un pensatore “attuale”. Uno che intanto scriveva 
                  bene, con semplicità (che è tutt'altra cosa dalla 
                  superficialità e dalla banalità): senza concessioni 
                  al lirismo e alla retorica – anche alla sua epoca tanto 
                  in voga – con uno stile al contempo asciutto ed essenziale, 
                  ma mai freddo. Mi colpì in tanti suoi scritti l'uso della 
                  parola “amore”, come riferimento etico ma non solo. 
                  Una parola e un concetto essenziali in Malatesta e che solo 
                  per questo uso (mai abuso) già marca la differenza con 
                  altri pensatori anche anarchici. E ancora una volta non è 
                  tanto la frequenza della parola nei suoi scritti, quanto la 
                  sua positività fondante, nella vita dei singoli come 
                  della società. 
                  D'altra parte lo slogan degli anni '70 “il personale è 
                  politico”, con tutto quello che gli sta dentro, è 
                  presente e a tratti visibile negli scritti del rivoluzionario 
                  campano. E, credo, lo sia stato in alta misura nella sua stessa 
                  vita, per quanto se ne possa sapere. Personalmente mi sono occupato, 
                  proprio in quei primi anni '70, di ricostruire sette mesi della 
                  vita militante di Malatesta, in particoare del periodo che va 
                  dal suo rientro in Italia nel dicembre 1919 fino al congresso 
                  dell'Unione Anarchica Italiana a Bologna nel luglio 1920: una 
                  lunga sfilza di comizi, articoli, la fondazione del quotidiano 
                  Umanità Nova, i rapporti con socialisti, repubblicani, 
                  Ordine Nuovo: uno dei periodi in cui maggiormente appare 
                  come un personaggio di statura nazionale, un protagonista - 
                  assolutamente a suo modo – delle vicende sociali del Paese. 
                  Eppure anche in quel periodo così “politico”, 
                  se non si riesce a leggere in filigrana la sua prorompente ed 
                  equilibrata umanità, la sua concezione concreta della 
                  vita e delle relazioni tra le persone, non se ne può 
                  cogliere – a mio avviso – la vera cifra: quella 
                  di un progetto di vita e di lotte che, anche se pudicamente 
                  espresso meno esplicitamente di quanto la mia sensibilità 
                  di oggi richiederebbe, si basa sull'etica, sull'etica che non 
                  credo improprio definire innanzitutto un'etica fondata sull'amore. 
                  E anche oggi, a più di ottant'anni dalla sua morte, è 
                  questo uno dei suoi lasciti più belli. 
                  Per almeno un ventennio gli scritti di Errico Malatesta – 
                  in particolare i mitici tre volumi curati da Luigi Fabbri e 
                  pubblicati poco dopo la sua morte e quindi ripubblicati “a 
                  cura del Movimento Anarchico Italiano” a metà degli 
                  anni '70 – hanno fatto bella mostra di sé sul comodino 
                  accanto al mio letto. Li leggevo, li rileggevo, e poi articoli 
                  su di lui, tante conferenze in giro per l'Italia, i rari incontri 
                  con anziane compagne e compagni che l'avevano visto e conosciuto. 
                  Un rapporto intenso, quotidiano, che si intrecciava con il diuturno 
                  impegno sociale (e redazionale) mio e di tutta una generazione, 
                  anzi di più generazioni di militanti anarchici. 
                  D'altra parte, visti dall'interno dell'anarchismo, alcuni temi 
                  fondamentali sono da sempre gli stessi: la questione dell'organizzazione, 
                  il sindacalismo, la violenza, l'individualismo, ecc.. Su tutti 
                  questi temi, Malatesta ha scritto pagine di mirabile chiarezza, 
                  che si possono condividere o meno, ma restano un esempio di 
                  lucidità di pensiero, trasparenza espositiva e serenità 
                  d'animo. A questo proposito, è importante rilevare che 
                  non esiste un “pensiero unico” malatestiano, perché 
                  il suo pensiero è in continua evoluzione ed esperienze 
                  e riflessioni lo portano ad aggiustamenti e anche a cambi di 
                  prospettiva. In Malatesta c'è, a mio avviso, una coerenza 
                  di fondo che attiene all'etica, alla scelta dei valori e della 
                  parte da cui stare e lottare, ma dentro questa coerenza di riferimento 
                  ci sono – e guai se non ci fossero – differenze 
                  anche grosse. 
                  Malatesta è stato di sicuro la figura storicamente più 
                  rilevante dell'anarchismo di lingua italiana e una delle principali 
                  a livello mondiale. Ma appartiene non solo al filone di pensiero 
                  e al movimento cui ha dedicato tutta la propria esistenza, a 
                  costo di sacrifici notevoli e prolungati che sono stati propri 
                  di intere generazioni di anarchici. 
                  Era un uomo aperto, attento agli altri, e in lui la convinzione 
                  per le proprie idee (accentuata dalle necessità della 
                  “propaganda”: lui scriveva articoli per orientare 
                  le lotte, non saggi accademici) non diventava mai sottovalutazione 
                  o peggio disprezzo per le altre. E anche questa è una 
                  piccola lezione, in realtà per niente piccola. 
                  Dicevo all'inizio che Malatesta è stato un mio quotidiano 
                  compagno di vita per un ventennio. Proprio leggendolo e rileggendolo, 
                  ho maturato a un certo punto un'esigenza di distacco, di approfondimento 
                  di altri personaggi e tematiche. Sul mio comodino i tre volumi 
                  dei suoi scritti hanno lasciato spazio ad altre letture, anarchiche 
                  e spesso non-anarchiche. 
                  Come un figlio che fisiologicamente senta la necessità 
                  di “separarsi” da un padre “troppo” 
                  (troppo bravo, troppo giusto, comunque ingombrante), ho in qualche 
                  modo guardato “altrove”. E ho trovato tanti pensatori, 
                  esperienze storiche, riflessioni personali, confronti, dibattiti, 
                  tante cose interessanti che in Malatesta non c'erano e non potevano 
                  e non possono esserci. 
                  Il mondo, la cultura, tutto scorre, si arricchisce di nuovi 
                  capitoli, idee, lotte. E guai a chiudersi in se stessi, in rigide 
                  e rassicuranti certezze, che impediscono di “stare sui 
                  tempi”, di cogliere il nuovo che sempre c'è anche 
                  se spesso non vogliamo coglierlo. 
                  Dopo essermi definito per tanti e tanti anni “malatestiano”, 
                  oggi mi rendo conto che gran parte del merito del mio attuale 
                  rifiuto di definirmi in relazione a chicchessia (compreso Malatesta) 
                  è proprio di quel piccolo grande uomo, che di fronte 
                  al vero e proprio coro di consensi, a tratti adulatori, con 
                  cui venne salutato al suo rientro in Italia nel dicembre 1919 
                  e nel ciclo di comizi e conferenze che subito intraprese, scrisse 
                  poche righe sul quotidiano Umanità Nova di cui 
                  era il direttore: e il titolo è già un programma, 
                  “Grazie ma basta”. 
                  Quindi, paradossalmente, anche nel rifiutare l'auto-definizione 
                  di “malatestiano”, mi ritrovo sulla stessa lunghezza 
                  d'onda di Errico Malatesta e del suo rifiuto del culto della 
                  personalità. 
                  Mettiamola così: se per un attimo io accettasi di definirmi 
                  in relazione ad una persona, l'unica con cui potrei farlo resta 
                  Errico Malatesta. 
                  E la lettura dei suoi scritti riproposti in queste pagine, al 
                  contempo così datati e così universali, ci rende 
                  un Malatesta con cui credo che sempre dovremo fare i conti, 
                  nell'affannata e profonda ricerca delle vie migliori e più 
                  efficaci per rendere più umano, libero e solidale il 
                  mondo che ci circonda. In altre parole, per avvicinarci alla 
                  realizzazione di quel sogno anarchico di cui il buon Malatesta 
                  è stato uno degli espositori più lucidi e uno 
                  dei realizzatori più efficaci. 
                 Paolo Finzi 
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