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				 biografie 
                  
                Il sociologo in motocicletta 
                  
                di Diego Giachetti 
                    
                Le opere e soprattutto la vita di Charles Wright Mills, “cavaliere errante 
  della sociologia” alle prese con l'America degli anni cinquanta. Da una 
  vita accademica fuori dagli schemi ai rapporti con l'Unione Sovietica. 
                
                 
                  Alla biografia di Charles Wright 
                  Mills (1916-1962) si possono applicare i tre criteri fondamentali 
                  che, secondo lui, dovevano sempre informare l'analisi sociologica: 
                  la cornice storica di riferimento, la struttura sociale nella 
                  quale si opera, la biografia degli individui. La sua vita fu 
                  vissuta sull'onda dell'anticonformismo. Percorsa con un carattere 
                  forte e tenace, irriverente e poco propenso agli accomodamenti 
                  di circostanza, essa ha contribuito a costruire un'immagine 
                  “mitica” e romantica di Mills, un outsider, un lupo 
                  solitario, un cavaliere errante della sociologia. 
                  Mills nacque il 28 agosto 1916 a Waco nel Texas da una famiglia 
                  della classe media di origine inglese-irlandese, frequentò 
                  scuole confessionali cattoliche e scuole superiori pubbliche, 
                  poi passò all'università del Texas dove incontrò 
                  la filosofia, la sociologia e la politica nella variante della 
                  sinistra radicale. Erano gli anni segnati della grande depressione, 
                  dell'ascesa in Europa del fascismo e del nazismo, dell'affermazione 
                  dello stalinismo in Urss, della guerra civile spagnola e della 
                  preparazione della Seconda guerra mondiale. Quando nel 1935 
                  si iscrisse all'Università del Texas, negli Stati Uniti 
                  era in pieno corso il New Deal. La scoperta della sociologia 
                  avvenne in quel contesto. Fu un innamoramento senza riserve. 
                  Si laureò nel 1939 e due anni dopo conseguì il 
                  dottorato in antropologia e sociologia. Fu assistente di sociologia 
                  all'università del Meryland, poi passò alla Columbia 
                  University di New York. Erano gli anni cinquanta della Guerra 
                  di Corea, della Guerra fredda, della campagna inquisitoria di 
                  McCarthy, della resa degli intellettuali al potere dell'establishment 
                  politico, economico e militare. 
                  Spirito inquieto, ribelle e anticonformista si andò convincendo 
                  che l'uomo comune della società americana negli anni 
                  cinquanta fosse prigioniero di un potere invadente che lo costringeva 
                  a vivere in una società claustrofobica che aveva ridotto 
                  l'individuo a massa uniformandolo nei gusti e nelle aspettative. 
                  Una prospettiva per lui inaccettabile da cui derivò la 
                  necessità di riscoprire l'individuo pensante contro l'amministrazione 
                  burocratica e massificata dal senso comune, della ragione creatrice 
                  di libertà contro l'ossessione razionalizzatrice. 
                
 Il Trotsky del Texas 
                 Il primo strappo a questa regola uniformatrice iniziò 
                  nel comportamento quotidiano con l'adozione di uno stile di 
                  vita anticonformista, simile a quello di altri, pochi ribelli 
                  della cosiddetta beat generation e, prima di loro, dei pochi 
                  hipster – termine usato negli anni quaranta per descrivere 
                  gli appassionati di jazz e in particolare di bebop. Questa sottocultura, 
                  una sorta di esistenzialismo all'americana, assunse nuove forme 
                  dopo la Seconda guerra mondiale dando vita a una fiorente scena 
                  letteraria, la beat generation. Parallelamente alla critica 
                  che il giovane sociologo andò costruendo con le sue analisi 
                  e riflessioni sulla società americana, venne quindi l'assunzione 
                  di uno stile di vita fuori dalla norma. Le cronache raccontano 
                  del suo modo di presentarsi in facoltà. Capitava che 
                  arrivasse al college su una moto rombante, col giubbotto di 
                  pelle, così da sembrare appena uscito dal film Il 
                  selvaggio con Marlon Brando. Abiti sgualciti e sdruciti, 
                  stivali di cuoio schizzati di fango, occhiali da sole sgargianti 
                  e camicie a scacchi. Con i suoi studenti condivideva racconti 
                  di “notti brave”. Insomma, il prof. Mills era un 
                  elemento decisamente fuori dal coro nella società accademica 
                  e benpensante dell'America di quegli anni. Era un bohémien 
                  all'americana. Amava la vita, la musica, i balli, fu attivo 
                  nelle lotte studentesche, indagato come comunista, fu sottoposto 
                  a censure e lettere di richiamo da parte delle autorità 
                  accademiche. Ebbe una vita familiare viva e molteplice. Si sposò 
                  tre volte. 
                  Nell'insegnamento universitario preferiva i corsi riservati 
                  agli studenti del primo livello di laurea. Riteneva fosse più 
                  avvincente e interessante consumare le proprie capacità 
                  di professore con giovani menti aperte che non con poche persone 
                  già formate e cristallizzate dal procedimento accademico. 
                  Gli studenti lo amavano, il mondo accademico dei colleghi guardava 
                  a lui con sospetto e a volte ostilità. Non si dispiaceva 
                  per questo, anzi, preferiva la compagnia dei giovani a quella 
                  dei colleghi, li considerava arroganti, noiosi, privi di idee 
                  innovative e di immaginazione. Per l'accademia egli era un uomo 
                  scomodo e imbarazzante in tutti i sensi, e spesso la sua apparenza 
                  esteriore e le sue vicende biografiche fornivano pretesti alle 
                  ironie malevoli dei colleghi. 
                  Nell'ambito della ricerca sociale venne ad assumere il ruolo 
                  dell'outsider, del dissenter suscitando forti antipatie 
                  e simpatie. I critici conservatori del mondo degli affari, della 
                  politica e della ricerca accademica lo accusarono di cripto-marxismo, 
                  pronto a suscitare scandali con denunce e polemiche roventi 
                  per diffamare il proprio paese con argomenti inutilmente corrosivi, 
                  tesi a sovvertire il buon modello di vita americano. Si era 
                  in pieno maccartismo, lo denominarono il Trotsky del Texas. 
                  Oltre a guadagnarsi l'ostilità di quei sociologi che 
                  si rifiutavano di riconoscere l'apporto del marxismo alle scienze 
                  sociali, fu in parte circondato dalla diffidenza dei marxisti 
                  stessi, in generale sospettosi verso la sociologia, per i quali 
                  la sua posizione aveva certo un ruolo dissacrante e demistificante, 
                  ma si fermava lì. Non osava rompere con la sua formazione 
                  liberal-democratica e riformista, rimaneva nell'ambito di una 
                  nostalgia illuminista. Il suo radicalismo sociologico e culturale 
                  lo collocò nel filone della sociologia critica. Fu messo 
                  al bando dalla sociologia ufficiale, irritata dalle incursioni 
                  pungenti in campo metodologico e teorico, sostenute da uno stile 
                  tagliente, corrosivo, a volte canzonatorio, capace di scrivere 
                  su argomenti imbarazzanti in modo imbarazzante. Emarginato quindi, 
                  anche per sua scelta, in quanto sempre manifestò disinteresse 
                  e irrisione per i dibattiti della comunità dei sociologi, 
                  non prese mai in considerazione l'Associazione Americana di 
                  Sociologia che gli negò non solo l'affiliazione, da lui 
                  per altro mai richiesta, ma la stessa “patente” 
                  di sociologo. 
                  Non gli perdonarono neanche la sua prosa semplice e chiara, 
                  adottata per rivolgersi a un pubblico vasto, non solo accademico. 
                  Lo definirono un giornalista più che un sociologo. Scriveva 
                  per le persone tutte, non per la sola accademia e diceva ai 
                  suoi studenti: «Per superare la prosa accademica 
                  devi prima superare la posa accademica». Anche 
                  nelle sue opere più sostanziose e “accademiche” 
                  lo stile rimase sempre divulgativo, una narrazione scorrevole, 
                  ricca di immagini, coinvolgente, accattivante, una specie di 
                  romanzo sociologico. Uno «stile costantemente turgido 
                  e polposo che incalza senza posa il lettore», scrisse 
                  Luciano Gallino, che proseguiva: dopo aver letto i suoi libri, 
                  si ha viva l'impressione «d'aver visto finalmente il back-yard 
                  della società americana, il cortile sudicio di una bella 
                  casa borghese: e, insieme, di aver capito come stia veramente 
                  la questione del potere». 
                 
                Nuovo ceto medio...  
                
  Negli anni cinquanta pubblicò una serie di libri che lo resero celebre, 
  in particolare Colletti bianchi, uno studio sui nuovi ceti medi americani, 
  e L'élite del potere, un'analisi della classe dominante americana, 
  considerata nella sua tripartizione di potere: economico, politico, militare. 
  La ricerca sul nuovo ceto medio era collocata entro un quadro storico sociale 
  di riferimento inerente i mutamenti strutturali della società americana 
  e, più in generale, dei sistemi sociali a capitalismo avanzato. Il quadro 
  di riferimento storico-interpretativo era dato dalle trasformazioni della struttura 
  proprietaria nell'economia. Finita l'epoca dei produttori indipendenti, delle 
  imprese a proprietà familiare, tipica del XIX, a partire dalla Prima 
  guerra mondiale l'assetto economico si caratterizzò per la presenza di 
  grandi imprese oligopolistiche nei settori della produzione, del consumo, della 
  finanza, della vendita all'ingrosso e per l'estendersi dell'apparato amministrativo 
  e burocratico dello Stato. Migliaia e migliaia di “colletti bianchi” 
  dipendevano da questi settori. Erano impiegati, tecnici, ingegneri, dirigenti. 
  Erano dei lavoratori dipendenti e ricevevano un salario. La loro condizione 
  lavorativa e la collocazione nei rapporti di produzione e potere li rendeva 
  del tutto simili ai proletari; erano cioè lavoratori espropriati dei 
  mezzi di produzione e dal controllo di essa. 
  Mills tratteggiò psicologia e carattere del “colletto bianco”. 
  Si trattava di soggetti quasi del tutto privi di una coscienza propria; la percezione 
  di sé era ricavata dalla realtà costituita dall'uniformità 
  della società di massa che li aveva modellati e li manipolava per fini 
  che erano loro sconosciuti. La società di massa moderna americana era 
  descritta con tonalità orwelliane: imperava l'organizzazione burocratica, 
  la manipolazione. Dai “colletti bianchi” non c'era da aspettarsi 
  nulla di buono in termini di presa di coscienza e di sviluppo di forme antagoniste 
  e di lotta, comprese quelle minime sindacali. Essi erano bollati come «le 
  truppe di retroguardia del capitalismo, con il loro “squallido” 
  modo di vivere, le loro malsane aspirazioni, il loro essere un coro troppo timoroso 
  di lamentarsi, troppo isterico negli applausi». Erano un predicato incapace 
  di diventare un soggetto: «sono entrati silenziosamente nella modernità. 
  Se hanno avuto una storia, essa è priva di eventi; se hanno interessi 
  comuni, non sono tali da farne una classe omogenea; se avranno un futuro, non 
  sarà certo opera loro. Sono costretti a dipendere da forze più 
  grandi di loro». 
  ...e élite del potere 
  Chi erano queste forze più grandi? Chi governava negli Stati Uniti e 
  più in generale nelle società industriali avanzate? Nel dare una 
  risposta a questa domanda opera in due direzioni: la definizione concettuale 
  di cosa si intende per potere, attraverso una rivisitazione dei classici della 
  sociologia, e la raccolta di dati statistici, documentari, biografici riguardanti 
  le persone che esercitano potere. Il risultato fu il libro L'élite 
  del potere, del 1956. Fin dal titolo era rintracciabile il concetto chiave, 
  élite, che reggeva la sua esposizione mutuato dalla lettura di quanto 
  i classici della sociologia avevano scritto in proposito. La classe dominante, 
  intesa come relazione tra gruppi di individui che hanno in comune il controllo 
  sulla proprietà dei mezzi di produzione, gli parve un concetto parziale, 
  utile per individuare un gruppo di persone dominanti in ambito economico, ma 
  incapace di spiegare, se non stabilendo relazioni meccaniche tra economia e 
  società, altre forme di potere inerenti l'ambito politico, statuale, 
  militare, istituzionale. Di Max Weber gli sembrò utilissima la teoria 
  della burocrazia come processo decisionale amministrativo e tecnico che non 
  solo prosciuga la fonte che alimenta la democrazia partecipativa e sostanziale, 
  ma crea, con l'aumento della presenza dello Stato nella società, nuovi 
  gruppi di potere. Rivolse anche la sua attenzione ai teorici dell'élitismo: 
  Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto che avevano introdotto nell'ambito della sociologia 
  politica una serie di concetti classificatori per definire i ruoli di potere 
  nella moderna vita istituzionale e sociale. Tutte queste letture erano condotte 
  al fine pratico di trovare un quadro concettuale che permettesse di capire i 
  meccanismi attraverso i quali gruppi di individui ottengono il potere, lo mantengono 
  e lo ampliano. Definì l'élite in termini istituzionali: gruppi 
  di persone che occupano posizioni di primo piano nella grandi imprese economiche 
  e finanziarie, nelle forze armate, nel governo, nell'amministrazione, nei mezzi 
  di comunicazione. Indagò gli elementi che legavano i tre “ordini” 
  di potere. Li definì gruppi aperti, nel senso dell'interscambio di personale 
  e di risorse tra gruppi di potere diversi; si entrava e si usciva dai comitati 
  direttivi secondo il sistema delle porte girevoli. Si accedeva all'élite 
  per cooptazione o per riproduzione interna. 
  L'analisi della élite del potere era collegata alle caratteristiche che 
  aveva assunto la società americana negli anni Cinquanta: una società 
  di massa, fondata sull'atomizzazione del pubblico. La massa trionfava sull'individuo. 
  Il trionfo dell'uomo-massa era anche la risultante dalla perdita di sostanza 
  e pregnanza del movimento operaio. Negli Stati Uniti il venir meno di questo 
  soggetto, unito alla rapida degenerazione dei sindacati di massa e all'assenza 
  di un partito dei lavoratori, era una delle cause del degrado della democrazia 
  sostanziale, della trasformazione delle elezioni in farsa, del monopolio delle 
  élite sui mezzi di comunicazione, della riduzione di milioni di lavoratori 
  ad “automi” con pensieri e gusti prefabbricati. Gli individui non 
  avevano più opinioni proprie, erano diventati dei recettori passivi delle 
  opinioni altrui diffuse dai grandi strumenti d'informazione: stampa, radio, 
  televisione, cinema, pubblicità. L'atomizzazione del pubblico era la 
  causa e la conseguenza dell'affermazione delle élite del potere. Il corpo 
  politico, legislativo ed esecutivo, quello che garantiva il consenso allo Stato 
  liberale, tramite il rapporto con gli elettori, diventava succube del potere 
  e, alleandosi «con gli ordini militari e aziendale, la direzione politica 
  diventava corpo non democratico». Nel capitalismo moderno subentrava una 
  democrazia puramente formale. Le masse dei cittadini altro non erano che un 
  vasto mercato al quale i monopolisti dell'informazione vendevano le opinioni 
  al pari delle automobili e dei dentifrici. Il potere di prendere decisioni si 
  concentrava sempre più nelle istituzioni militari, politiche ed economiche: 
  «i gruppi che detengono il potere prendono le loro decisioni (o non le 
  prendono), gli intellettuali elaborano e giustificano, l'opinione pubblica e 
  le grandi masse accettano fatalisticamente».
   
 Il ruolo della ricerca sociale 
                Nella società di massa la condizione dell'intellettuale e dello scienziato 
                  era sempre più assimilabile al ruolo del “tecnico”, 
                  dipendente dai committenti, cioè dai centri di potere 
                  istituzionali delle élite. Diventava quindi un produttore 
                  di idee commissionate dai committenti, un “salariato” 
                  privo della propria indipendenza di ricerca e di giudizio in 
                  quanto lavorava con mezzi di produzione non suoi e divulgava 
                  le conoscenze attraverso un sistema di distribuzione che non 
                  controllava. L'intellettuale veniva meno alla funzione di essere, 
                  secondo la tradizione ereditata dall'Illuminismo, depositario 
                  della ragione umana, di educatore della coscienza del pubblico. 
                  Per il semplice fatto di esistere la sociologia e i sociologi 
                  non potevano esimersi dall'essere coinvolti «nel conflitto 
                  fra illuminismo e oscurantismo. Praticare le scienze sociali 
                  significa innanzi tutto, in un mondo come il nostro, praticare 
                  la politica della verità». Intellettuali e sociologi 
                  dovevano tornare a interrogarsi sul ruolo della ricerca sociale 
                  prendendo spunto dalla tre scelte possibili prospettate già 
                  nel Settecento per l'intellettuale: diventare dei re-filosofi 
                  nella convinzione che il trionfo della ragione coincida con 
                  l'affermazione dell'uomo di ragione; diventare consiglieri del 
                  re schierandosi con una «delle tante correnti della società 
                  moderna, che fanno dell'individuo una parte della burocrazia 
                  funzionalmente razionale, isolandosi nella sua specializzazione 
                  in modo tale da non doversi occupare esplicitamente della struttura 
                  della società»; oppure, come consigliava Mills 
                  nel libro L'immaginazione sociologica, «rimanere 
                  indipendenti nel fare il proprio lavoro, nello scegliere i propri 
                  problemi, mirando al re, ma facendo si che tale lavoro giunga 
                  anche al pubblico». 
                  Mills non aderì ad alcun movimento politico, la sua posizione 
                  politica può essere definita un impasto tra liberalismo 
                  radicale e socialismo democratico. Sicuramente antistalinista, 
                  quanto insofferente per l'anticomunismo di maniera e intransigente, 
                  osservò con interesse quanto stava avvenendo in Urss 
                  e nelle Democrazie dopo il XX Congresso del 1956. Si andò 
                  convincendo della necessità di fondare una nuova sinistra, 
                  dopo che quella basata sulla «metafisica della classe 
                  operaia» aveva esaurito le sue potenzialità e messo 
                  in luce tutti i suoi limiti analitici e politici. Non contribuirono 
                  a renderlo un personaggio gradito la sua critica alla famiglia 
                  dei Kennedy, i suoi viaggi in America Latina, in Europa nel 
                  1960, in Unione Sovietica, dove si fece curare i suoi disturbi 
                  cardiaci in una clinica sul Volga suscitando malintesi e osservazioni 
                  malevole nel suo paese. Nell'agosto del 1960 si recò 
                  a Cuba, interessato osservatore delle giovane rivoluzione castrista. 
                  Pubblicò quindi un libro nel quale illustrò con 
                  entusiasmo le realizzazioni della rivoluzione e condannò 
                  fermamente le scelte della politica estera americana. Nuove 
                  critiche e polemiche anche aspre si riversarono su Mills e andarono 
                  ad aggiungersi allo stato di salute precario a causa del disturbo 
                  cardiaco, al ritmo di lavoro intenso cui si sottoponeva e alle 
                  vicende famigliari. Riuscì a concludere la sua antologia 
                  su Marx e i marxisti, senza vederne però l'edizione in 
                  quanto un nuovo attacco di cuore lo stroncò a New York 
                  il 20 marzo 1962 a soli 46 anni. Sulla sua tomba fu posto un 
                  epitaffio, scelto dal suo amico Ralph Miliband, tratto dal suo 
                  ultimo libro, I marxisti: «Ho cercato di essere 
                  obiettivo. Non pretendo di essere distaccato».
                  Diego Giachetti
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