rivista anarchica
anno 43 n. 378
marzo 2013


storia

Se avé passè Crispi, a passarem ench qvesta

di Massimo Ortalli


“Se abbiamo passato Crispi, passeremo anche questa”
suonava un antico detto romagnolo.
Andiamo a vedere che cosa ci stesse dietro a quel riferimento a Crispi.


Nella lunga storia della conflittualità fra anarchici e potere, le forme di controllo esercitate dagli organi dello Stato per sorvegliare, reprimere o depotenziare la proposta e l'azione degli anarchici si sono di volta in volta adeguate, con lucida intelligenza, alla varietà delle situazioni e allo spirito dei tempi. Oggi la mano ferma dello Stato è sempre pesante, ma non si può ignorare che il guanto nel quale si infila è di materia ben più sofisticata di quanto non fosse quello che si abbatteva su anarchici, sovversivi e oppositori in epoche più lontane. Risultati e obiettivi sono speculari, ma l'invasività dell'azione repressiva, fatte le note e drammatiche eccezioni, si nasconde dietro le apparenze della democrazia formale, della garanzia dei diritti, del rispetto delle regole: il recupero del dissenso sarà tanto più efficace quanto più “indolore” sia lo strumento utilizzato. A scanso di equivoci, comunque, occorre precisare che il carattere “indolore” della reazione è sempre proporzionato alla forza dell'attacco portato allo Stato, e non c'è bisogno di dire che, quando occorre, la mano del potere non è certo meno dolorosa oggi di quanto non lo sia stata in altri periodi storici.

Un livello di repressione dilettantesco. Poi però...

Per comprendere meglio la mutevole varietà degli strumenti di repressione e controllo messi in atto dallo Stato, è particolarmente significativo lo sguardo su uno dei periodi storici durante i quali più attenta e vigile è stata l'attenzione dello Stato sul movimento anarchico. Parliamo dell'ultimo decennio dell'800, il cosiddetto decennio crispino, detto anche, da altra prospettiva, il decennio degli attentati anarchici.
Negli anni precedenti, dalla nascita dell' Internazionale fino a tutti gli anni Ottanta dell'Ottocento, la mano della giustizia nei confronti del movimento anarchico e dei suoi affiliati si era mossa con strumenti non ancora sufficientemente idonei alla bisogna, anche perché la comprensione dell'urgenza della questione sociale non era adeguata alla realtà che si stava affermando; e il rifiuto di ammettere che interi settori della società potessero porre in discussione l'ordine costituito, per abbatterlo o riformarlo, rendeva meno efficaci le misure repressive messe a contrasto. L'esito dei primi famosi processi agli internazionalisti, nella contraddittorietà dei risultati e nell'incertezza che animava le istituzioni giudicanti stanno lì a dimostrarlo. Se nel processo contro gli internazionalisti imolesi e romagnoli che nel 1874, guidati da Bakunin e Costa, tentarono l'assalto alla città di Bologna, si arrivò a sentenze di assoluzione in primo grado, grazie alle decisioni della giuria popolare in Corte d'Assise, ancora più clamoroso fu l'esito del processo alla Banda del Matese, che vide assolti, sempre per decisione della giuria popolare, tutti gli imputati: nonostante questi avessero battuto in armi la campagna, ucciso un carabiniere in un conflitto a fuoco, distrutto archivi comunali e resi inutilizzabili i contatori dei mulini. Fatti che avrebbero reso plausibili ulteriori anni di galera in aggiunta alla lunga carcerazione preventiva.
Indubbiamente il problema di controllare e neutralizzare l'attività degli Internazionalisti si pose fin dal nascere della Prima Internazionale. E infatti lo strumento dell'ammonizione, una misura amministrativa aleatoria e discrezionale che permetteva ogni sorta di arbitrio all'autorità di pubblica sicurezza, era largamente e generosamente utilizzato, limitando pesantemente tanto l'agibilità politica quanto la vita quotidiana dei sovversivi. Sganciata da effettive motivazioni, applicata in base alla sola “colpa” di affiliazione all'Internazionale, infatti, tale misura sottoponeva l'ammonito al controllo delle autorità limitandone la libertà personale, tanto nei movimenti quanto nell'espressione del pensiero. La censura si abbatteva regolarmente sugli organi di stampa, le riunioni pubbliche erano sottoposte all'improvviso e immotivato scioglimento a seconda delle ubbie del questurino di turno, e il carcere si riempiva spesso e volentieri di sovversivi che avevano distribuito un volantino, affisso un manifesto, esposto una bandiera nella ricorrenza della Comune, intonato un canto, o “ruggito”, nel calore dell'osteria, un vigoroso e colorito “accidente” all'indirizzo del prete, del monarca o del presidente del consiglio. Per non parlare del domicilio coatto, strumento barbaro e inumano, che colpiva con cieca efficacia quanti il tribunale non poteva destinare al carcere. Ma, nonostante la durezza e la gratuità di queste disposizioni, si era ancora, se così si può dire, a un livello di repressione poco più che dilettantesco, improvvisato e spesso irrazionale, privo di quella necessaria coerenza operativa – riscontrabile anche nelle differenze di interpretazione fra le varie procure – che sarebbe stata richiesta dall'attacco alle istituzioni di un movimento anarchico sempre più organizzato.

Francesco Crispi

Associazione di malfattori

Se la destra liberale si era mostrata piuttosto inadeguata nella comprensione del problema, anche perché, dopotutto, continuava a considerare gli Internazionalisti non sempre malfattori comuni ma anche militanti politici e sociali, solo con il governo della Sinistra storica si assisterà alla graduale involuzione repressiva che troverà il suo apice nel periodo crispino. Già il 18 febbraio 1880, infatti, l'alta corte, non ritenendo credibile che un'associazione internazionalista composta da cinque o più persone, tanto più appartenenti alle “ultime classi sociali”, potesse riunirsi per puri scopi “speculativi”, stabilì che tali incontri dovessero configurarsi come una vera e propria associazione fra malfattori. Questa era la nuova arma giuridica attesa; anche in questo caso, infatti, si poteva essere condannati in assenza di reato, essendo sufficiente la prova che cinque o più persone si erano date convegno, magari, in osteria, e avevano espresso opinioni sovversive nei confronti dell'autorità costituita. Inizialmente poteva capitare che qualche giudice onesto non desse corso alla denuncia e mandasse prosciolti i denunciati, ma via via che l'anarchismo si diffondeva nel tessuto sociale, le condanne si facevano sempre più frequenti, per diventare poi la prassi nel “decennio degli attentati”.
Era infatti impensabile, per gli uomini della Sinistra storica, da Nicòtera a Crispi, da Depretis a Zanardelli a Cairoli, ex garibaldini ed ex rivoluzionari che tanto si erano impegnati per la costruzione della Nazione, che si potesse essere contro la Nazione stessa e contro lo Stato. Ecco, dunque, affermarsi il concetto secondo il quale l'anarchismo era un delitto in quanto tale, indipendentemente dagli eventuali reati commessi; e l'imparzialità del Diritto, se mai era esistita, doveva essere piegata alla ragion di Stato. L'obiettivo, il fine ultimo, era togliere ogni valenza sociale alla propaganda anarchica privandola dei suoi postulati sociali, per assimilarla al puro e semplice delitto; e non, come in passato, al delitto politico ma, più volgarmente, al delitto comune. A dar manforte alla repressione della giustizia, ecco intervenire la scienza, che trovò nel positivismo lombrosiano e nell'antropologia criminale un nuovo strumento di criminalizzazione e delegittimazione. Tanto più credibile quanto più apparentemente progressista. L'ipotesi scientifica, infatti, si abbinava “felicemente” a quella sociologica che interpretava la teoria anarchica come materia delinquenziale e vedeva nei suoi militanti le tabe della degenerazione fisica e morale: i sempre più frequenti internamenti in manicomio di sovversivi e “diversi” non furono che un'ipotesi di “lavoro” che avrebbe trovato la sua tragica realizzazione negli anni cupi del terrore stalinista.

Errico Malatesta

Contro il “delitto” anarchico e contro la lotta di classe

Per amministrare la giustizia nei casi di insorgenza sociale e per controllare più efficacemente il dissenso, il potere ha sempre avuto a disposizione tre strumenti, la cui sinergia si è rivelata fondamentale in determinate occasioni: le norme amministrative vere e proprie (quali lo scioglimento di gruppi o associazioni sovversive, il deferimento dei membri ad organi speciali, le misure preventive come il domicilio coatto, ecc.), gli strumenti giudiziari straordinari (ovvero le leggi speciali elaborate eccezionalmente in situazioni di particolare gravità), infine gli strumenti giudiziari ordinari, quelli che dovrebbero dare le maggiori garanzie ai fini della repressione, in quanto capaci di offrire uno spettro più ampio di reati da colpire.
Come si è visto a proposito dei primi processi all'Internazionale, il terzo strumento, quello ordinario, si prestava a interpretazioni discrezionali, per cui, in un “ammirevole” sforzo di razionalizzazione, la sinistra storica nel 1890 diede corpo a un nuovo Codice di diritto penale, il codice Zanardelli, apparentemente più liberale dei codici preunitari e di quello del 1859, ma nei fatti molto più sofisticato (e anche malleabile) nell'organizzare il controllo sociale. Tanto più in quanto era accompagnato da disposizioni di pubblica sicurezza che colpivano la libertà di riunione (con l'obbligo del preavviso di 24 ore all'autorità) e la semplice espressione di pensiero, e conservava, al tempo stesso, disposizioni particolarmente severe quali il domicilio coatto e l'istituto dell'ammonizione. Puntualmente mirati furono alcuni degli articoli destinati a colpire sia i singoli individui (come l'art. 246 che sanciva il reato di “istigazione a delinquere” e il 247 che prevedeva i reati di apologia, eccitamento alla disobbedienza, eccitamento all'odio fra le classi sociali), sia gli associati, con il famoso art. 248 che introduceva il reato di associazione per delinquere in quanto tale (quando cinque o più persone si associano per commettere delitti…) e il 251, che puniva la creazione di una associazione diretta a compiere i reati previsti dall'art. 247.
Inizialmente, comunque, l'interpretazione giuridica fu particolarmente controversa (soprattutto in riferimento all'art. 248), a seconda di come e a chi si dovesse applicare, ma dopo un breve periodo di “rodaggio”, la si intese in senso sempre più restrittivo tanto che, negli ultimi anni del secolo, arrivò a colpire anche le associazioni socialiste legalitarie. A dimostrazione che l'intento non era di frenare solo il “delitto” anarchico ma anche la diffusione della lotta di classe e l'organizzazione delle masse proletarie. Famose, al proposito, restarono le arringhe, poi raccolte in opuscolo, di Pietro Gori, chiamato a più riprese nei tribunali d'Italia a difendere gli anarchici dall'articolo 248.

Lo stato d'assedio, per due volte

Ma l'inasprimento della legislazione non si rivelò sufficiente a imbrigliare le lotte popolari, e infatti il 1894 vide una intensa conflittualità sociale, culminata nel movimento dei Fasci siciliani e nei moti della Lunigiana. Causati dall'inasprimento delle già misere condizioni di vita dei ceti popolari, e dalla diffusa insofferenza nei confronti della repressione “preventiva”, tali momenti insurrezionali misero talmente paura nelle classi dirigenti, culturalmente impreparate ad affrontare la nuova situazione, da spingere il governo Crispi a promulgare per ben due volte lo stato d'assedio, affidando i pieni poteri ai comandi militari, quasi si trattasse di combattere contro un esercito invasore. In base a “quella legge che è la necessità e la salute della patria” vennero soppresse le libertà civili e affidati pieni poteri al generale Morra di Lavriano in Sicilia e al generale Huesch in Lunigiana: la repressione fu spietata, con centinaia di morti e migliaia di anni di carcere, spesso comminati senza prove e con totale discrezionalità da parte dei tribunali militari. Esemplarmente indicativa la sentenza contro l'avv. Luigi Molinari, il propagandista anarchico che più tardi avrebbe fondato l'Università Popolare, condannato a 24 anni per aver tenuto una conferenza nel carrarese prima dello scoppio dei moti, durante i quali era già rientrato da tempo nella natia Mantova. Tale abnorme retroattività nelle imputazioni viene “giustificata” dalla Cassazione perché “sarebbe ingiusto sottrarre costoro alle conseguenze della disposizione rigorosa dello stato d'assedio di cui furono causa, e sottoporvi invece soltanto coloro che agiscono di poi trascinati da essi. Ciò sarebbe un colpire la mano che eseguisce e non la mente, non la volontà iniziale che la dirige”.

Pietro Gori

Le cannonate di Bava Beccaris, poi Gaetano Bresci

Ma poiché, a fronte dell'insorgenza sempre più pressante della questione sociale, non sembrarono sufficienti né la legislazione ordinaria né gli stati d'assedio, il governo Crispi inasprì la stretta repressiva promulgando tre nuove leggi speciali (le ricordiamo le leggi speciali dei nostri anni Settanta?). Chiamate col nome del loro ideatore, ma note anche, per suggerimento dello stesso Crispi, come leggi “antianarchiche”, le tre leggi eccezionali disciplinavano il possesso di materiali esplodenti, inasprivano le pene per i reati a mezzo stampa e l'apologia di terrorismo, vietavamo riunioni e associazioni aventi a oggetto il sovvertimento dell'ordinamento sociale, prevedendo il domicilio coatto per gli accusati. In pratica, gli articoli del codice Zanardelli venivano utilizzati in maniera estensiva, in modo che potessero “essere adoperati come armi insidiose a colpire nella stampa e nella parola la libertà di pensiero e la libertà di associazione”. Veniva ulteriormente inasprito il reato di “associazione di malfattori” (ora era sufficiente essere solo in due e non più in cinque per essere “associati”) e gli anarchici in quanto tali venivano sottoposti con estrema leggerezza a provvedimenti restrittivi quale il carcere o il domicilio coatto. Come prevedibile, le isole si riempirono di coatti (non mancavano, comunque, i socialisti e qualche repubblicano) e per alcuni anni in Italia non poté uscire un solo foglio anarchico. E chi conosce la costanza con la quale gli anarchici di tutte le tendenze pubblicano i loro giornali, potrà capire l'eccezionalità di una simile contingenza. Del resto la azzardata e fallimentare politica colonialista dell'Italia non intendeva subire la ficcante critica antimilitarista e internazionalista del movimento anarchico e, al tempo stesso, l'enormità delle folli spese militari sostenute per le conquiste africane e il clamore degli scandali finanziari, su tutti quello della Banca Romana, non potevano permettere che il malcontento popolare si trasformasse in organizzazione sociale.
I fatti di Milano nel 1898, l'ennesimo stato d'assedio e le cannonate del generale Bava Beccaris contro il popolo milanese, le centinaia di morti e il consueto accanimento giudiziario saranno il suggello di un'epoca nella quale il potere statale ed economico si sono accaniti con deliberata ferocia contro gli avversari. Ci avrebbe pensato Gaetano Bresci, il 29 luglio del 1900, nel parco reale di Monza, a pareggiare il conto. E dopo, fra i detti popolari, entrava a buon diritto anche quello citato all'inizio, che ancora non molti anni orsono faceva parte della saggezza popolare dei vecchi imolesi.

Massimo Ortalli