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			   à nous la liberté   
 
Festeggiamenti 
                  per il ritorno di chi non è mai partito 
                  
                a cura di Felice Accame 
                 
                   
                  1. 
                  Forse distratto, non mi ero accorto che se n'era andata – 
                  metaforicamente o no “in viaggio d'affari”, o per 
                  uno sfizio turistico, o per un tentativo di fuga –, ma, 
                  com'è e come non è, ora è di nuovo qui. 
                  E un comitato di accoglienza – costituito da Akel Bilgrami, 
                  Michele Di Francesco, Umberto Eco, Diego Marconi, Hilary Putnam, 
                  Massimo Recalcati, Carol Rovane e John R. Searle, capitanati 
                  da Mario De Caro e Maurizio Ferraris (i curatori) – è 
                  pronto ad ossequiarla con un corale Bentornata realtà 
                  (Einaudi, Torino 2012). 
                   
                  2. 
                  Prima di spiattellarci la sua soluzione, Umberto Eco si copre 
                  le spalle. Dice di saper qualcosa del “vetero-realismo” 
                  e, contando sulla complicità di un lettore che gli attribuisca 
                  maliziosa arguzia, fa notare che, in quanto teoria, accomuna 
                  Tommaso d'Aquino e Lenin. Qui, essendo giunto a conclusioni 
                  perfettamente analoghe analizzando il dibattito fra Lenin e 
                  Bogdanov (ne La funzione ideologica delle teorie della conoscenza, 
                  Spirali, Milano 2002) non posso che concordare con lui. Concordo 
                  anche sul modo di riassumerlo, questo “vetero-realismo”: 
                  è la tesi che sostiene che “il mondo sta fuori 
                  di noi indipendentemente dalla conoscenza che ne possiamo avere” 
                  e che “noi possiamo conoscerlo (questo mondo) quale è 
                  come se la nostra mente fosse uno specchio”, ovvero “per 
                  adequatio rei et intellectus”. Concordo con lui anche 
                  sulla constatazione che, “in opposizione al vetero-realismo 
                  abbiamo poi visto una serie di posizioni per cui la conoscenza 
                  non funziona più a specchio bensì per collaborazione 
                  tra soggetto conoscente e spunto di conoscenza con varie accentuazioni 
                  del ruolo dell'uno o dell'altro polo di questa dialettica”. 
                  Mi sembra che, grossomodo – trascurando il pensiero di 
                  qualche outsider, ovviamente –, questa storia può 
                  anche essere raccontata così. Capisco anche il suo imbarazzo 
                  allorché Eco deve registrare successive (o contemporanee, 
                  vorrei aggiungere) “forme di realismo temperato, dall'olismo 
                  al realismo interno” o altre variazioni sul tema che gli 
                  fan dire pensoso com'egli non veda “come possa articolarsi 
                  un cosiddetto nuovo realismo, che non rischi di rappresentare 
                  un ritorno al vetero”. Il fatto che Eco parli di “rischio” 
                  credo si possa legittimamente interpretare come un'ammissione 
                  di un difetto intrinseco del realismo (vetero e veterissimo, 
                  magari andando anche fino a Platone e ad Aristotele), così 
                  ovvio e risaputo da non dover neppure esser spiegato o rispiegato. 
                  Anche in ragione di ciò, d'altronde, è lui stesso 
                  a proporcene una forma monda. Evidentemente, al realismo ci 
                  tiene; presumibilmente, la mancata adesione al realismo comporta 
                  stigmi sociostorici che nessuno – e neppur lui – 
                  si vuole addossare; certamente, anche se “negativo” 
                  – Eco lo chiama così il suo, “realismo negativo” 
                  – un realismo può dunque rimanere tale. 
                  Questo realismo negativo lo riassume nella formula: “ogni 
                  ipotesi interpretativa è sempre rivedibile (…), 
                  ma, se non si può mai dire definitivamente se una interpretazione 
                  sia giusta, si può sempre dire quando è sbagliata”. 
                  Ci sarebbe “uno zoccolo duro dell'essere” (il cui 
                  resto, dico io, allora dev'essere molle), “tale che alcune 
                  cose che diciamo su di esso e per esso non possano e non debbano 
                  essere prese per buone”. Un esempio? Pronto: “poniamo 
                  che su quel muro sia dipinto uno splendido trompe l'oeil che 
                  rappresenta una porta aperta. Posso interpretarlo come trompe 
                  l'oeil che intende ingannarmi come porta vera (e aperta), come 
                  rappresentazione con finalità estetiche di una porta 
                  aperta, come simbolo di ogni Varco a un Altrove, e così 
                  via, forse all'infinito”. (Mi si passi un commento: se 
                  la mettiamo sui simboli, l'enfasi dell'infinito è giustificata: 
                  come dargli torto in assenza di un criterio che determini legittimità 
                  o illegittimità del simbolo?). “Ma”, eccoci 
                  al punto, “se l'interpreto come vera porta aperta e cerco 
                  di attraversarla, batto il naso contro il muro” e, pertanto, 
                  “il mio naso ferito mi dice che il fatto che cercavo di 
                  interpretare si è ribellato alla mia interpretazione”. 
                  Così si arriverebbe (sempre con qualcosa di rotto, dico 
                  io, se non è il naso è qualcos'altro) alla consapevolezza 
                  che “ci sono delle cose che non si possono dire” 
                  – e, soprattutto, fare (le aggiunte son sempre mie). Noi 
                  interpretiamo ma ci sono dei momenti in cui “il mondo 
                  ci dice NO” e questo No “è la cosa più 
                  vicina che si possa trovare (…) alla idea di Dio o di 
                  legge” – “un Dio che si presenta (se e quando 
                  si presenta) come pura negatività, puro limite, pura 
                  interdizione”. Le leggi che noi elaboriamo costituirebbero 
                  una “risposta a questa scoperta di limiti” anche 
                  se – ovviamente, ça va sans dire – “cosa 
                  siano questi limiti non sappiamo dire con certezza”. Allorché, 
                  infine, Eco si chiede se “questa idea minimale di realismo” 
                  sia “sufficiente”, afferma che “non ci garantisce 
                  che noi possiamo domani possedere la verità” – 
                  la metafora dello “zoccolo duro” non “può 
                  fare pensare che esista un nocciolo definitivo che un giorno 
                  o l'altro la scienza o la filosofia metteranno a nudo” 
                  –, “ma ci incoraggia a cercare ciò che in 
                  qualche modo sta davanti a noi”. 
                  Ai collezionisti di aneddoti della storia della filosofia non 
                  sarà sfuggita l'entità del progresso compiuto 
                  da Eco: al sasso calciato da Samuel Johnson per convincere il 
                  riluttante Berkeley della solidità del reale ha sostituito 
                  il trompe l'oeil – dal piede siamo passati al naso: le 
                  dimostrazioni filosofiche fondamentali sono comunque materia 
                  di pronto soccorso – e dalla proposizione numero 7 del 
                  Tractatus di Wittgenstein – “su ciò 
                  di cui non si può parlare bisogna tacere” – 
                  si è passati alla constatazione che “ci sono cose 
                  che non si possono dire” – da un divieto all'altro: 
                  l'odore di sagrestia permane. Mi soffermerei volentieri su certe 
                  metafore non consapevolizzate di Eco – come quella del 
                  “possedere” (“conoscere”) la “verità” 
                  – ma (presunti) altri (presunti) realismi urgono.  
                   
                  3. 
                  È da un bel po' che i filosofi (ne cito uno, esemplare, 
                  George Edward Moore) hanno inventato conto terzi una filosofia 
                  – diciamo meglio, una teoria della conoscenza – 
                  che conviene loro. L'hanno chiamata “realismo del senso 
                  comune” e, visto e considerato che nessuno può 
                  protestare – è “comune”, quindi è 
                  “di tutti”, quindi è “di nessuno” 
                  –, gli han fatto dire questo e quello. Quando è 
                  toccato a Mario De Caro, gli è stato fatto dire che sono 
                  “reali le entità postulate dalle nostre pratiche 
                  ordinarie” e che “la percezione ci mette in contatto 
                  con il mondo esterno così come esso è veramente, 
                  indipendentemente dal fatto che noi lo percepiamo” – 
                  con le dovute eccezioni, però, perché anche il 
                  “realista del senso comune” sa che potrebbe anche 
                  esser vittima di “illusioni ottiche” o di “situazioni 
                  in cui le condizioni percettive non sono ottimali”. 
                  Occhio e croce, allora, visto che del tutto scemi non lo sono, 
                  a costoro vien fatto assumere l'aspetto dei “compagni 
                  che sbagliano” e, infatti, poi, De Caro non esita a denunciarne 
                  la strana tendenza – strana lo dico io – “ad 
                  assumere un atteggiamento antirealistico nei riguardi della 
                  scienza o, più precisamente, nei riguardi delle entità 
                  non osservabili contemplate dalle teorie scientifiche (come 
                  gli elettroni, le radiazioni o i buchi neri)” – 
                  tutte teorie che (e qui De Caro diventa caritatevole) risulterebbero 
                  “empiricamente adeguate” (fra virgolette), “ma 
                  non vere”. Su questa figura un po' equivoca di fiducioso 
                  io non metterei la mano sul fuoco, ma non posso nemmeno escluderla 
                  del tutto dal novero dell'umano. Mi sembrerebbe tuttavia piuttosto 
                  paradossale che, dovendo aggiungere quotidianamente qualcosa 
                  al suo elenco di “cose sicure” – del tipo 
                  dei tavoli e delle melanzane ma anche delle onde elettromagnetiche 
                  – non abbia perlomeno riflettuto sul fatto che il suo 
                  uso del verbo “esistere” va esteso di continuo e 
                  mai può limitarsi ad un catalogo permanente. Ma andiamo 
                  avanti. 
                  Avanti, dove, per l'appunto, c'è posto per il “realismo 
                  scientifico”. Il quale, “in nome della realtà 
                  dell'ontologia scientifica”, “tende a negare che 
                  gli oggetti ordinari siano veramente come appaiono al senso 
                  comune” e, laddove il “tende” diventerebbe 
                  una palla al piede – ovvero “nelle sue espressioni 
                  più risolute” –, “destituisce (…) 
                  di fondamento l'atteggiamento realistico del senso comune, in 
                  base all'idea che le uniche entità che esistono sono 
                  quelle contemplate dalla scienza, e forse dalla sola fisica” 
                  (idea per un concorso: il milione del signor Bonaventura per 
                  chi spiega meglio quel “forse”) – perché, 
                  come dice Wilfrid Sellars, “la scienza è la misura 
                  di tutte le cose, di quelle che sono, in quanto sono, e di quelle 
                  che non sono, in quanto non sono”, senza perder tempo, 
                  aggiungo io, a cercar di capire cosa si intenda con quel “sono”. 
                  Il realismo scientifico, allora, “riconosce come reali 
                  le entità contemplate dalle teorie scientifiche” 
                  (il perché del cambio di verbo – da “postulare” 
                  a “contemplare” – credo debba ratificare il 
                  passaggio del testimone dal buzzurro all'intellettuale). Che 
                  qui si stia parlando di un pensiero più qualificato è 
                  evidente, ma, a scanso di diatribe di bottega, De Caro deve 
                  poi precisare come stanno le cose in fatto di gerarchie. Lo 
                  fa ricorrendo a Huw Price, secondo il quale “la filosofia 
                  non è un'impresa diversa dalla scienza e” (si noti: 
                  non “ma”, “e”) “quando gli interessi 
                  delle due discipline coincidono, la filosofia deve sottomettersi 
                  alla scienza” – come se si trattasse dell'accesso 
                  a microscopi migliori –, perché, come dice Bernard 
                  Williams, “l'obiettivo della scienza è di rappresentare 
                  la realtà come essa è ‘indipendentemente 
                  dalla nostra esperienza', di attingere cioè a una ‘concezione 
                  assoluta del mondo', su cui tutti dovremmo convergere perché 
                  la possibilità di una convergenza ‘su come le cose 
                  sono (indipendentemente da noi)' è offerta dalla scienza, 
                  e solo dalla scienza”. Se non ci si lascia intimidire 
                  dall'apoditticità e dall'autoritarismo delle espressioni 
                  – se ci si ricorda che, ahinoi, di “convergenze” 
                  ne abbiamo avute parecchie, fin troppe, anche in nome di altri 
                  “saperi” che alla scienza erano del tutto estranei 
                  -, a questo punto, si può anche stillare una lacrima 
                  per la povera filosofia, che, raminga e senza colpa (“non 
                  è un'impresa diversa dalla scienza”), sarebbe stata 
                  sfiduciata nel meraviglioso compito di “rappresentare 
                  la realtà come essa è” e, presumibilmente, 
                  destinata a quei servizi sociali dove, alla meno peggio, ci 
                  si deve accontentare di “rappresentare la realtà” 
                  come essa “non è”. 
                   
                  4. 
                  Che la formulazione convincente di una teoria realista non sia 
                  una cosa semplice è testimoniato dalle avventure di Hilary 
                  Putnam. È “almeno a partire dal 1957” che 
                  cerca la “miglior formulazione el realismo filosofico” 
                  (perché “filosofico”? Mah: divide et impera) 
                  ed ha dovuto cambiare bandiera più volte: dal “realismo 
                  scientifico piuttosto minimale” (già il nome sembra 
                  dirne tutta la fragilità) è passato al “realismo 
                  metafisico”, da questo al “realismo interno” 
                  – “una posizione vagamente kantiana, secondo cui 
                  la verità coincide con la conoscibilità in ‘condizioni 
                  epistemiche ideali'” – e dal “realismo interno” 
                  al “realismo del senso comune” – che sosterrebbe 
                  che “ciò che esiste è indipendente dalla 
                  sua conoscibilità” e che “ci possono essere 
                  molte descrizioni corrette della realtà” – 
                  un realismo che, allora, non rivestirebbe più il ruolo 
                  del parente povero come nel pensiero di De Caro. 
                  A parere di Putnam, “noi siamo effettivamente in contatto 
                  con le proprietà degli oggetti” – e qui spara 
                  ad altezza d'uomo –, ma – e qui abbassa subito la 
                  mira – “queste proprietà sono in parte antropocentriche”. 
                  Il che è come dire della stessa cosa, prima, che è 
                  sua e, subito dopo, che è anche mia. Ciò che segue 
                  è sempre a cresta abbassata: “sostenere che la 
                  scienza ci dà una descrizione corretta della realtà 
                  non significa sostenere che questa descrizione sia interamente 
                  corretta” e, pertanto, al “sano realista” 
                  toccherà “fare uso della nozione di ‘verità 
                  approssimativa'”. D'altronde, da uno che in The Faces 
                  of Realism aveva scritto che “la nostra 
                  condizione storica è quella di dover fare della filosofia 
                  senza ‘fondamenti'” non ci si può aspettare 
                  granché di diverso. I conti, almeno quelli nelle proprie 
                  tasche, in un modo o nell'altro devono tornare (magari invidiando 
                  quei presunti loro che, beati, potevano e dovevano 
                  fare filosofia con i fondamenti). 
                  Ciò nonostante, continua a volersi dichiarare realista. 
                  Lo fa per difesa, dice – “contro l'idea, particolarmente 
                  diffusa nei circoli post-modernisti (ma non soltanto lì!), 
                  che la scienza altro non sia che un sistema di utili convenzioni”. 
                  Non ho sufficiente dimestichezza con la buona società 
                  per sapere dove si annidino i circoli post-modernisti e quegli 
                  altri luoghi di deboscia che meritano un punto esclamativo di 
                  riprovazione, ma posso prendere in seria considerazione l'argomento 
                  escogitato da Putnam per confutarne le pretese. Lui lo presenta 
                  come una novità tutta farina del suo sacco, ma a me ricorda 
                  piuttosto da vicino l'argomento di Eugen P. Wigner che, nel 
                  1960, pubblicò un saggio da un eloquente titolo: L'irragionevole 
                  efficacia della matematica nelle scienze naturali. Ma, a 
                  prescindere da ciò, l'argomento è il seguente: 
                  “se le entità teoriche postulate dalle nostre migliori 
                  teorie scientifiche non esistessero”, “come potremmo 
                  spiegare il fatto che esse funzionano così bene, che 
                  le loro spiegazioni e le loro previsioni sono così efficaci”? 
                  Il “realismo scientifico” – quello già 
                  un po' menomato e, comunque, a seconda delle circostanze sostituibile 
                  con il “realismo del senso comune” – “è 
                  la sola filosofia della scienza che non considera i successi 
                  ottenuti in ambito scientifico come un miracolo”.  
                   
                  5. 
                  Ce ne sarebbe già a sufficienza per arguire che questo 
                  comitato di accoglienza sia in imbarazzo. John R. Searle, per 
                  esempio, sente l'esigenza di supportare il suo vacillante realismo 
                  con la stampella del “naturalistico” e così, 
                  per lui, “una concezione naturalistica del realismo sarà 
                  (in futuro, sottolineo io) in grado di offrirci una descrizione 
                  soddisfacente di quegli aspetti enigmatici della realtà 
                  che i filosofi del passato tendevano a concepire non in armonia 
                  con il naturalismo” (e qui si riferisce alle due “zone 
                  d'ombra” da cui dovremmo uscire: da una parte “Dio, 
                  Anima e Immortalità” e dall'altra la “Scienza” 
                  con la esse maiuscola, che, in questa sua versione, è 
                  chiamata a rappresentare “riduzionismo” e “materialismo” 
                  – una scienza che, per Putnam (o, al meno, per quello 
                  di The Faces of Realism che è del 1987), sarebbe 
                  “bravissima a distruggere le risposte metafisiche, ma 
                  (…) incapace di fornire dei sostituti”, che “si 
                  porta via i fondamenti senza rimpiazzarli”. 
                  Nel presentare i termini del suo “realismo minimale”, 
                  invece, Diego Marconi riesce a dare un'idea ancora più 
                  efficace dell'unitarietà del filosofare alla faccia delle 
                  rigide divisioni che, per qualcuno – non dico per tutti 
                  – hanno rappresentato la storia della filosofia. Cita 
                  un'argomentazione di Michael Devitt: se la “Verità 
                  realista” viene definita dalle “asserzioni della 
                  fisica” che “sono vere o false in virtù (I) 
                  della loro struttura oggettiva, (II) delle relazioni referenziali 
                  oggettive tra le loro parti e la realtà, e (III) della 
                  natura oggettiva di tale realtà”, e se il realismo 
                  “richiede l'esistenza oggettiva indipendente degli enti 
                  fisici di senso comune”, “la Verità realista 
                  riguarda le asserzioni della fisica e non richiede nulla di 
                  simile: non dice nulla sulla natura della realtà che 
                  rende quelle asserzioni vere o false, salvo che tale natura 
                  è oggettiva” e, allora, “un idealista che 
                  creda nell'esistenza oggettiva di un dominio puramente mentale 
                  di dati di senso potrebbe sottoscrivere la Verità realista”. 
                  Con il che – ammettendo e non concedendo affatto che sia 
                  chiaro cosa s'intenda con “natura oggettiva”, che 
                  questa possa essere presupposta anzi che dimostrata e che un 
                  “dominio mentale di dati di senso” non costituisca 
                  un ossimoro – son tutti soddisfatti ma nessuno rimborsato 
                  per quanto investito nella propria fede. 
                  Il clima, insomma, è questo. Scusandomene, trascuro gli 
                  altri membri del comitato per non farla troppo (inutilmente) 
                  lunga. 
                   
                  6. 
                  Che il realista – di qualunque confessione esso sia – 
                  non sia soddisfatto di sé è palese e comprensibilissimo. 
                  le sue certezze sono piene di se e di ma (verità sì 
                  ma approssimata sempre e comunque, in qualche “ambito” 
                  le tesi opposte sembrano rispettabilissime, le illusioni ottiche 
                  sono un caso a parte, l'ubriachezza pure, e via distinguendo); 
                  non a caso i realisti sono tanti – milioni di milioni 
                  come le stelle di Neuroni – fino al punto che qualcuno 
                  – tipo Eco (ma ho il sospetto che il rilievo pertenga 
                  anche a parecchi altri membri del comitato) – è 
                  realista soltanto di nome – perché ciò, 
                  come certi biglietti da visita di un tempo, gli può consentire 
                  di appartenere alla società migliore; la storia della 
                  copia interna uguale alla copia esterna non ha mai convinto 
                  neppure Platone, figuriamoci chi lo ha seguito; alle spalle 
                  si ritrovano chi li ha preceduti nella medesima convinzione 
                  e ciascuno di costoro poteva vantare un catalogo di cose sicure 
                  – di realtà a prova di bomba – diverso da 
                  quelli di chi l'aveva preceduto e da quelli di chi l'avrebbe 
                  seguito; l'unica soddisfazione sembrerebbe quella di aver vinto 
                  la concorrenza della scienza ma (per usare una metafora di Michele 
                  di Francesco) è una “vittoria di Pirro” perché 
                  in alternativa non rimangono che magia e religione. 
                   
                  Raramente si può assistere ad una difesa così 
                  cautelosa e timebonda di un'opinione filosofica. Non ci vuole 
                  Lacan, dunque, per capire che il realista soffra. 
                  Tuttavia, ai suoi argomenti forti o, comunque, presentati come 
                  tali – quelli per i quali val la pena di rimanere realista 
                  nonostante tutto – una risposta vada data. Chi si vuole 
                  liberare della filosofia – per quanto sia consapevole 
                  dello stato di maggioranza dei realisti nell'agone filosofico, 
                  per quanto possa sottovalutare tesi presuntamente contrapposte 
                  come quelle idealiste e quelle scetticheggianti – sarà 
                  bene che cominci da lì. 
                  Accreditandoli, pertanto, di rappresentare se non al meglio 
                  almeno decentemente la consistenza del realismo positivo o negativo 
                  che sia, analizzerò pertanto due esempi di argomentazione. 
                  Il primo è quello di Eco, l'esempio del trompe l'oeil 
                  – che vale, come dicevo, il sasso di Samuel Johnson. 
                  Il secondo esempio è quello di Putnam: mettiamo pure 
                  che la tesi realista non stia in piedi, come si spiega che le 
                  cose funzionano? Come spieghiamo che i risultati della scienza 
                  si ripetono con regolarità e consentono predizioni? Vogliamo 
                  parlare di un “miracolo”? Un miracolo che avviene 
                  tutti i giorni mille volte al giorno? 
                  Via uno. Le quattro-infinite interpretazioni del trompe l'oeil 
                  (inganno, porta aperta, porta aperta artistica, simbolo di Varco 
                  sono da Eco stesso definite “interpretazioni” e, 
                  allora, come tali, dipendono da un interprete – sono il 
                  risultato di un suo operare che a me piace tripartire in percezione, 
                  categorizzazione e (eventualmente) semantizzazione. Nulla di 
                  tutto ciò, dunque, ha a che fare con quel “mondo” 
                  che “sta fuori di noi indipendentemente dalla conoscenza 
                  che ne possiamo avere” – e qui Eco sarebbe d'accordo, 
                  ma non avrebbe ancora alcun motivo per dichiararsi “realista 
                  negativo”. La spinta decisiva gli arriva dalla necessità 
                  del pronto soccorso: non si accontenta di interpretarla come 
                  porta aperta e prova ad attraversarla e, a questo punto, sbatte 
                  il naso. Innegabilmente, l'interpretazione era sbagliata, ma 
                  – altrettanto innegabilmente – un resoconto della 
                  vicenda è tutta roba sua – risultato di percezione, 
                  categorizzazione e (eventualmente) semantizzazione (che in questo 
                  caso sarebbe presumibilmente orientata verso l'imprecazione 
                  o la bestemmia), come il dolore al naso. Anche in questo caso, 
                  comunque, tutto ciò che Eco può dirci non è 
                  indipendente dalla “conoscenza” che ne ha potuto 
                  avere e, conseguentemente, non si capisce più come la 
                  tesi sostenga il realismo. Alla stessa stregua del calcio al 
                  sasso da parte di Johnson il quale potrà esperire e eventualmente 
                  raccontare il risultato del proprio operare e non certo quello 
                  di ciò che ha categorizzato come “sasso”. 
                  Qualcuno, a questo punto, potrebbe ribattermi: d'accordo, ma 
                  il muro trompe l'oeil c'è, come il sasso. Ma non 
                  si capirebbe il perché di uno sconto ad una parola in 
                  particolare: forse che il “c'è” – come 
                  tutte le altre coniugazioni del verbo “essere” e 
                  del verbo “esistere” – non è il risultato 
                  di un percepire, di un categorizzare e di un semantizzare? Forse 
                  che il “c'è” è una parola in-analizzabile 
                  in virtù di qualche privilegio che mi sfugge? Una volta 
                  rifiutata la concessione di uno statuto speciale alla parola 
                  – a questa come a qualsiasi altra –, credo si possa 
                  concordare con Ceccato relativamente al suo significato: di 
                  base, la famiglia dell'“essere-esistere” designa 
                  l'aver staccato qualcosa da sé e l'avergli conferito 
                  una sua autonomia – il resto va classificato come quelle 
                  che Vaccarino chiamerebbe “sfumature semantiche” 
                  o come relazioni logico-consecutive (successive, dunque, alle 
                  operazioni costitutive). Storia umana alla mano – non 
                  solo quella che presuntuosamente viene preservata come “storia 
                  della scienza” – è facile rendersi conto 
                  che questo statuto di esistenza non può essere confuso 
                  con un “dato di fatto”, perché il catalogo 
                  delle cose che “ci sono” oggi è diverso da 
                  quello di ieri, come il catalogo di tutti coloro che ci hanno 
                  preceduto – e, se ci informassimo delle negoziazioni tra 
                  fisici, sapremmo anche che su qualcosa – come un quark 
                  – si discute per mesi prima di dire se “c'è” 
                  o “non c'è”. Il negativo di Eco vale dunque 
                  fin che vale – del consecutivo non c'è certezza, 
                  amava dire Ceccato facendo il verso a Lorenzo il Magnifico. 
                  Io – e credo anche Eco –, per esempio, sono stato 
                  educato a considerare l'acqua un liquido – e come tale 
                  le ho sempre attribuito determinate caratteristiche – 
                  ma, sia io che Eco, da qualche anno – almeno dal 2007, 
                  dagli esperimenti condotti da Elmar Fuchs e da Emilio Del Giudice 
                  – siamo stati costretti a modificare l'elenco di queste 
                  caratteristiche immettendone altre a certe condizioni – 
                  per esempio che il “legame idrogeno” scoperto a 
                  suo tempo da Linus Pauling può essere sfruttato per ottenere 
                  organizzazioni di domini di coerenza fra molecole d'acqua, tali 
                  per cui è possibile formare un ponticello d'acqua che 
                  passa da un bicchiere all'altro senza che ne cada una goccia. 
                  Con il che abbiamo anche impostato le basi per tranquillizzare 
                  Putnam – che stia tranquillo, di miracolo non si tratta. 
                  Via due. 
                  Punto primo. Putnam per primo contraddice gli impegni semantici 
                  relativi alla parola “miracolo”. È lui che 
                  parla di verità approssimative ed è sempre lui 
                  che non riesce ad affidarsi del tutto alla scienza. Evidentemente, 
                  allora, le cose “funzionano”, ma – a suo avviso 
                  –, entro certi limiti. Non ci vuole il Kuhn di turno che 
                  ce lo mostri nella solita “storia della scienza”. 
                  Il miracolo di Putnam, pertanto, è un miracolo che nessun 
                  Dio che esiga rispetto mai compirebbe. 
                  Punto secondo. Molto “funziona” perché non 
                  può fare altrimenti – come la matematica, come 
                  i sistemi assiomatici: per quel che ci mettiamo dentro, tanto 
                  ricaviamo o tanto possiamo ricavare (perché, a volte, 
                  ci si mette un po' ad arrivarci). 
                  Punto terzo. Va da sé – darwinianamente – 
                  che si cerchino regolarità, si categorizzi qualcosa come 
                  ripetibile, lo si selezioni e lo sistematizzi tentando di dominare 
                  quel che categorizziamo come fenomeni. A volte va bene (se la 
                  và la g'ha i gamb), a volte va male. A volte ci se la 
                  fa andar bene (fin che la và la g'ha i gamb). Le relazioni 
                  consecutive che poniamo hanno da essere reciprocamente coerenti 
                  e ogni nuova può costituire un problema – a volte 
                  (e facciamo pure l'esempio classico della “rivoluzione 
                  copernicana”), può costringere a rivederne parecchie 
                  di quelle già poste. 
                  Punto quarto. Noi svolgiamo un'attività “costitutiva”. 
                  Con Ceccato sono d'accordo nel chiamarla così per via 
                  del “co-” enclitico. Con lui, potrei anche dirmi 
                  d'accordo sul fatto che, una volta costituito qualcosa, il resto 
                  è “storia sua”. Potrei anche presumere che 
                  questa storia sua avesse uno svolgimento prima che io costituisca 
                  e che avrà ulteriore svolgimento dal momento in cui io 
                  non costituirò più (il limite, la morte, di cui 
                  ci parla Umberto Eco), ma mi autocontraddirei se di ciò 
                  volessi asserire alcunché. 
                   
                  7. 
                  Sembra La visita della vecchia signora di Durrenmatt 
                  – sulle prime gran festeggiamenti, ma poi si vive il dramma 
                  delle contraddizioni. Sarà bentornata, questa realtà, 
                  ma com'è ridotta – o, meglio, com'è ridotto 
                  quel comitato che, per ovvii motivi di ordine sociale, si è 
                  caricato dell'onere di riceverla (magari, dandosi di gomito 
                  l'un l'altro: e chi ci crede?). 
                  Laddove Mario De Caro e Maurizio Ferraris si danno da fare per 
                  dimostrare la necessità della loro impresa cominciano 
                  con il chiedersi cosa ci sia di “nuovo” in questo 
                  “nuovo realismo”, rispondendosi che, di certo, di 
                  nuovo non c'è la realtà che “fortunatamente”(?) 
                  “è sempre vecchia”, ma, piuttosto, ci sarebbe 
                  “la piena consapevolezza di venire dopo una lunga stagione 
                  di antirealismo”. Questo “antirealismo”, però, 
                  non sarebbe da considerarsi più un nemico, perché 
                  sarebbe invece un bene “conservarne le istanze emancipative 
                  evitandone gli effetti indesiderati” (come i nasi rotti, 
                  immagino) e perché, come abbiamo già potuto constatare, 
                  in qualche “ambito” le sue tesi “funzionano”. 
                  Questo “nuovo realismo” piuttosto compromesso, allora, 
                  direbbe anzitutto “ciò che non siamo, ciò 
                  che non vogliamo” e, così, sinceramente, sembrerebbe 
                  ancora più menomato di quel che ci è apparsi fino 
                  ad ora. Evidentemente, la questione per loro è di poco 
                  peso. Quel che preme loro è salvare la disciplina e i 
                  posti (parlo dei posti di lavoro regolarmente remunerati) che 
                  ne conseguono. “Ontologicamente e metodologicamente”, 
                  affermano, “la filosofia è disciplina dotata di 
                  autonomia costitutiva”, il suo compito futuro sarà 
                  quello di “armonizzare” realismo del senso comune 
                  e realismo scientifico (quello “negativo” di Eco, 
                  a quanto pare, può esser lasciato perdere) e perpetuare 
                  la propria esistenza come pratica sociale valorizzata. Per loro 
                  è anche “facile predire che verrà il giorno 
                  in cui l'antirealismo tornerà al centro del campo filosofico” 
                  (una metafora calcistica ci mancava) e, a sua volta, sarà 
                  “nuovo”; “non sarà lo stesso antirealismo 
                  contro cui si è battuto il nuovo realismo”, ma, 
                  “sperabilmente”, sarà “migliore” 
                  a sempiterna dimostrazione che “il progresso in filosofia 
                  non solo è possibile, ma inevitabile, e frutto di un 
                  lavoro collettivo”. Così – e solo così 
                  –, in questo faticoso ma solidaristico occultamento del 
                  girare a vuoto, possono anche crogiolarsi in quella certezza 
                  di Etienne Gilson (citato da un compiaciuto Putnam) che “la 
                  filosofia seppellisce sempre i suoi becchini”.  
                Felice Accame           
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