|  
                  ex Jugoslavia 
                  Alle radici dell'odio etnico 
                  di Lorenzo Sacerdoti 
                foto AFA - Archivi Fotografici Autogestiti 
                    La guerra nei Balcani vista 
                  da una nuova prospettiva: lingua, tradizioni, costumi... cosa 
                  divide e cosa unisce serbi, bosniaci e croati? E soprattutto, 
                  come trasformare i fratelli di ieri nei nemici di oggi? 
                 
                   
                  Le guerre sono forse la prova 
                  più inequivocabile dello straordinario potere persuasivo 
                  delle narrazioni. Convincere gli esseri umani a massacrarsi 
                  tra loro, per motivi ad uno sguardo attento e critico del tutto 
                  illogici, non può che essere frutto di una manipolazione 
                  più o meno sapiente. Perché se è vero che 
                  tante volte la storia, la letteratura, le arti visive ci hanno 
                  tramandato le testimonianze e le storie di uomini e donne costretti 
                  a combattere o a subire le conseguenze più terribili 
                  dei conflitti (Soldati di Ungaretti, i crudi ritratti 
                  della vita di trincea di Otto Dix, I Disastri della guerra 
                  di Goya...), è altrettanto vero che, in molte altre occasioni, 
                  ufficiali, soldati semplici e persino civili sono stati uniti 
                  dalla totale e cieca adesione alla causa assassina del proprio 
                  esercito, della propria fazione, del proprio gruppo. 
                  Le guerre civili e le narrazioni da cui esse scaturiscono hanno 
                  un carattere del tutto particolare: mettere fratello contro 
                  fratello può sembrare, a prima vista, un'impresa ardua. 
                  Coloro che sono a noi più vicini non sono stranieri, 
                  barbaroi da guardare con sdegno. Non proviamo verso di 
                  loro quella paura del diverso che è alla base di tante 
                  conflittualità plurisecolari (mondo musulmano-mondo cristiano, 
                  oriente-occidente, bianchi-neri). Tuttavia i nostri prossimi 
                  sono anche coloro con cui più facilmente entriamo in 
                  competizione, dal momento che costituiscono il metro di paragone 
                  più facilmente utilizzabile. È più facile 
                  confrontare il proprio insuccesso con la fortuna, vera o presunta, 
                  del dirimpettaio che con quella di qualcuno che vive dall'altra 
                  parte dell'oceano. E anche ammettendo che la competizione sia 
                  con quest'ultimo, risulta in ogni caso più agevole sfogare 
                  l'umiliazione e la relativa frustrazione su qualcosa o qualcuno 
                  di vicino, magari addirittura un famigliare. È per questo 
                  che, là dove faccia comodo a qualcuno, non è poi 
                  così difficile creare conflitto tra persone, nazioni, 
                  etnie, gruppi politici tra loro prossimi, a patto, come sempre, 
                  che si racconti la storia giusta. 
                  Se si considera il caso di guerre civili aventi una certa dimensione 
                  e rilevanza storica, la domanda sorge spontanea: chi possiamo 
                  considerare un vicino, un fratello, un prossimo? In altre parole: 
                  che tipo di avversario fa sì che una guerra si possa 
                  definire “civile”? A sentire i cattolici dell'Ulster, 
                  infatti, i protestanti che vivono a pochi passi di distanza 
                  sono colonizzatori scozzesi inviati nell'Isola di smeraldo dalla 
                  corona inglese per creare un equilibrio etnico fittizio tra 
                  le due compagini religiose. Questo sebbene le famiglie unioniste 
                  ed anglicane per tradizione risiedano in Irlanda del nord da 
                  secoli. Un'accusa simile potrebbe muovere uno zulu o un bantu 
                  agli afrikaners (i bianchi sudafricani di origine olandese), 
                  sebbene questi ultimi siano stati riconosciuti nientemeno che 
                  da Jacob Zuma (non proprio un amico dei boeri), presidente della 
                  repubblica arcobaleno, come “unica tribù bianca 
                  dell'Africa”. E che dire dei francofoni del Quebec, colonizzatori 
                  ed usurpatori di territori indiani fino a ieri, e oggi nazionalisti 
                  a tal punto da contestare l'esito del referendum del 1995 sull'indipendenza 
                  perché, a loro dire, avrebbero dovuto votare solamente 
                  i francofoni e non i residenti in Quebec di madrelingua inglese 
                  (circa l'8%)? Sia ben chiaro: a volere essere pignoli, in tutte 
                  queste affermazioni vi è una parte di ragione. Questo 
                  gioco dell'esclusione, però, oltre che essere molto pericoloso, 
                  fa capire come sia tutt'altro che semplice attribuire l'etichetta 
                  di “guerra civile“ ad un conflitto i cui partecipanti 
                  spesso non si sentono affatto parte dello stesso contesto. Si 
                  combatte sempre contro un “altro”, un “diverso”, 
                  a sentire una delle due parti. E anche se questo diverso era 
                  uguale fino a ieri, in fondo basta vedere la cosa da un'altra 
                  prospettiva, leggermente più laterale. Raccontare, insomma, 
                  una storia diversa quanto basta per creare un conflitto.
                
  
                
    Fratelli 
                  separati alla nascita 
                  Quello della ex-Jugoslavia è un caso particolare fra 
                  i casi già peculiari delle guerre civili. Perché, 
                  se è vero che i protestanti dell'Ulster tra loro non 
                  parlano in gaelico e gli afrikaners sono bianchi e non 
                  neri, sfido chiunque a trovare differenze sostanziali tra un 
                  serbo, un croato, un bosniaco e un montenegrino (gli sloveni 
                  sono sempre stati un popolo a parte, linguisticamente e culturalmente, 
                  stesso discorso per i macedoni e per le minoranze ungheresi, 
                  albanesi, ceche, slovacche e romene della federazione jugoslava). 
                  Proprio a partire dalla consapevolezza di essere popoli fratelli 
                  separati dalla nascita venne partorito, perlopiù all'interno 
                  del milieu intellettuale, il progetto di riunire tutti 
                  gli slavi del sud (tranne i bulgari, che sembrano stare antipatici 
                  un po' a tutti) in un unico stato, sogno che è passato 
                  attraverso la creazione del “Regno dei serbi dei croati 
                  e degli sloveni” (1918-1929), del “Regno di Jugoslavia” 
                  della dinastia Karageorgevic (1929-1941) ed è arrivato 
                  fino alla federazione socialista (1945-1991). 
                  In questi anni ho viaggiato attraverso quasi tutta la ex-Jugoslavia, 
                  e di fronte alla mia richiesta, talvolta un po' insistente, 
                  di illustrarmi la differenza tra i popoli che la compongono 
                  (“avrete combattuto per l'indipendenza per qualcosa, no?”), 
                  i più hanno tentennato. Certo, esistono le tre diverse 
                  religioni dei Balcani: la cattolica (perlopiù in Croazia), 
                  l'ortodossa (perlopiù in Serbia) e la musulmana (perlopiù 
                  in Bosnia). Ma a parte (si fa per dire) quello? 
                  Qualche temerario ha provato ad accennare a presunte differenze 
                  genetiche, di aspetto esteriore, quasi di “razza”. 
                  I bosgnacchi (bosniaci musulmani) si sarebbero incrociati, secoli 
                  or sono, con i turchi e sarebbero quindi più scuri, più 
                  fisicamente simili ai conquistatori ottomani. I dalmati e gli 
                  istriani con gli italiani, perdendo un po' della proverbiale 
                  durezza di tratti dei popoli slavi, durezza che si è 
                  invece amplificata nei purger (soprannome degli abitanti 
                  di Zagabria) che hanno sempre avuto un debole per i tedeschi. 
                  I serbi, invece, se la fanno con i russi e quindi sono più 
                  biondi, più quadrati. Vagli a spiegare, agli aspiranti 
                  Lombroso balcanici, che ho sorseggiato tazze di caffè 
                  turco nei bar di Belgrado con ragazze serbo-ortodosse nere come 
                  la pece e ho fatto amicizia, sugli scomodissimi treni notturni 
                  Venezia-Zagabria-Budapest, con muratori bosniaci musulmani dai 
                  tratti che più ariani non si può. La scusa dei 
                  geni non regge: tutti si sono incrociati con tutti in quella 
                  zona d'Europa. Non per niente lì, mi perdoneranno le 
                  italiche lettrici, ci sono le donne più belle del mondo. 
                  Qualcun altro sostiene che è la lingua ad essere diversa. 
                  Se ancora oggi sugli scaffali polverosi delle biblioteche o 
                  di quei vecchi capannoni di libri da Festa dell'Unità 
                  si può trovare “Il serbo-croato senza sforzo”, 
                  guai oggi a proferire una simile bestemmia. A Zagabria si parla 
                  hrvatski (croato), a Belgrado srpski (serbo), 
                  a Sarajevo bosanski (bosniaco)... e a Podgorica? Crnogorski. 
                  Eh sì, esiste persino il montenegrino. Anche qui c'è 
                  da rimanere quantomeno perplessi. Al di là della scelta 
                  dell'alfabeto (latino o cirillico) e di alcune trascurabili 
                  differenze grammaticali, la lingua è sostanzialmente 
                  la stessa, ce lo confermano coloro che queste cose le studiano. 
                  Esistono sì modi leggermente diversi di pronunciare il 
                  serbo-croato, quelli che noi italiani chiameremmo “accenti”, 
                  ma queste differenze esistono anche all'interno dei singoli 
                  stati. Un croato di Zagabria saprebbe riconoscere dall'accento 
                  un serbo, ma anche un suo connazionale istriano o dalmata, e 
                  la differenza percepita rispetto al proprio standard 
                  di pronuncia non sarebbe molto minore. Per quanto riguarda le 
                  differenze di lessico presenti tra serbo e croato (e le relative 
                  varianti nazionali) siamo di fronte ad un fenomeno comune in 
                  qualsiasi lingua, compresa la nostra. Quante volte abbiamo sorriso 
                  a causa del modo in cui un italiano di un'altra regione o addirittura 
                  di un'altra città vicina alla nostra chiama una certa 
                  cosa che noi siamo soliti definire con un sostantivo differente?
                   
                   
                    Questioni 
                  onomastiche 
                
  Dopo la guerra civile degli anni novanta, sono state create 
                  artificialmente differenze di idioma tra gli ex-compatrioti 
                  jugoslavi: in croato sono stati modificati a tavolino i nomi 
                  dei mesi dell'anno, un po' come nella Francia della rivoluzione 
                  giacobina, e in montenegrino sono state coniate dal nulla nuove 
                  lettere dell'alfabeto, per meglio tradurre in segni convenzionali 
                  la pronuncia tipica di quella zona, impervia e meravigliosa, 
                  dei Balcani. E, da turista, chiedere indicazioni per la farmacia 
                  più vicina avendo a disposizione solo quel “serbo-croato 
                  senza sforzo”, anacronistico baluardo di una koinè 
                  linguistica brutalmente assassinata, potrebbe diventare un problema: 
                  all'apotheka a prendere l'aspirina ci vanno i serbi; 
                  i croati, se hanno la febbre, vanno alla lijekarna, brillante 
                  neologismo ricavato dalla parola lijeka (cura). Déjà 
                  vu: il bar diventa il “quisibeve”, tanto per 
                  dirne una... E se il farmaco che dobbiamo acquistare costa mille 
                  kune (un po' caruccio, ma è per non ammazzare 
                  l'analogia), in croato è tisuca e non hiljada, 
                  come in Serbia. A dimostrazione dell'artificiosità della 
                  maggior parte di questi cambiamenti, basti osservare il fatto 
                  che spesso le persone di mezza età, nate e vissute nella 
                  Jugoslavia unita, utilizzano ancora oggi termini serbo-croati 
                  che già i figli, cresciuti dopo la guerra, non utilizzano 
                  più perché educati ed abituati (a scuola, dai 
                  media) a non farlo. Giocare a Monopoli, dove si parla spesso 
                  di migliaia, con una famiglia croata composta da rappresentanti 
                  di diverse generazioni può essere tutt'altro che facile 
                  (parlo per esperienza personale). 
                   Qualcuno 
                  sostiene che una differenza sostanziale tra i popoli jugoslavi 
                  risieda nell'onomastica. Esistono nomi e cognomi serbi, croati 
                  e musulmani, si dice, ma anche questa è una verità 
                  parziale e discutibile. Nel caso dei nomi propri, riguardo ai 
                  quali i genitori hanno libertà di scelta, vi sono, in 
                  effetti, delle differenze. Sebbene la maggior parte dei nomi, 
                  maschili e femminili, sia “pan-jugoslava”, alcuni 
                  sono tipicamente legati ai singoli paesi, per due motivi principali: 
                  una diversa grafia dovuta all'accento (lo Stefan serbo diventa 
                  Stjepan, Stipe o Stipan in croato) e la tradizione culturale 
                  o religiosa locale (Sanin e Vedad – derivati dall'arabo 
                  – sono nomi tipicamente musulmani, Nemanja – nome 
                  di un antico re serbo venerato come santo – è solo 
                  ortodosso, Nino, Mario, Luciano – mutuati dall'italiano 
                  – sono perlopiù croati). Per quanto riguarda i 
                  cognomi le cose cambiano decisamente; se è vero che esistono 
                  specificità in questo ambito, è altrettanto vero 
                  che associare un cognome all'appartenenza etnica e, ancor di 
                  più, religiosa, è rischioso e non solo nel caso 
                  dei paesi balcanici. 
                  I cognomi jugoslavi, come quelli di altri paesi del mondo slavo 
                  e non solo, sono perlopiù patronimici: Ivanovic (figlio 
                  di Ivan), Juric (figlio di Jure), Petric (figlio di Petar) ecc. 
                  Quindi, se mi chiamo Mohamedovic, un mio antenato più 
                  o meno lontano si chiamava Mohamed. Presumibilmente quindi, 
                  sono di origine bosniaco-musulmana (quale coppia cristiana chiamerebbe 
                  il proprio figlio Mohamed?). Se questo discorso può essere 
                  valido, a fatica, nell'ambito dell'appartenenza etnica, quando 
                  si parla di appartenenza religiosa le cose si complicano ulteriormente. 
                  È come voler riconoscere un ebreo (osservante) dal cognome. 
                  Esistono i matrimoni misti, tanto per cominciare. Un “Levi” 
                  o un “Coen” potrebbero avere un bisnonno paterno 
                  ebreo ma non essere ebrei per l'halakhah (la legge orale 
                  ebraica), che prevede la trasmissione dell'ebraicità 
                  per via matrilineare. Esistono poi ebrei italiani che si chiamano 
                  Rossi, Orefici o Conforte (cognomi comunissimi tra i cristiani), 
                  ebrei ungheresi che si chiamano Kovacs (il cognome più 
                  diffuso nel paese magiaro), ebrei aschenaziti che portano i 
                  cognomi statisticamente più diffusi nei paesi germanofoni 
                  (Kraus, König, Kaufmann...). E così, in terra jugoslava, 
                  capita che un Novakovic, serbo secondo l'onomastica classica 
                  per la presenza della particella “ov” nel cognome, 
                  sia croato e che un Karamehmedovic (cognome tipicamente musulmano) 
                  non sappia nemmeno cosa sia La Mecca. Più difficilmente 
                  sarà serbo, quanto all'etnia, chi porta un cognome tipicamente 
                  croato non terminante in “ic” o “ovic”: 
                  Štokovac (tipico istriano), Botica (dalmata), Polanc¨ec 
                  ecc. Su questa falsariga si è anche sostenuto che i pravi 
                  hrvati (veri croati) siano solo quelli contraddistinti da 
                  cognomi non etnicamente equivocabili. Tutti gli altri con il 
                  cognome in “ic“ o, ancor peggio, in “ovic“ 
                  sono serbi croatizzati o croati serbizzati. Sarà. Ma 
                  anche qui un criterio univoco di distinzione è ben lungi 
                  dal delinearsi. 
                  
                
    Il 
                  potere delle narrazioni 
                  Mentre le differenze faticano ad emergere, risultano invece 
                  evidenti ai più, dopo pochi giorni di permanenza in terra 
                  ex-jugoslava, le analogie fra i diversi componenti di questo 
                  popolo uno e trino: la stessa concezione della famiglia e della 
                  vita sociale, il profondo valore dato alle amicizie vere, semplici, 
                  la passione sviscerata per il rito del caffè turco (guai 
                  a prenderlo in piedi o di fretta!), l'attaccamento alla propria 
                  terra e alle proprie radici, un certo gusto alimentare, lo stesso 
                  modo di fare umorismo (sentirete spesso parlare, dai più 
                  anziani, di jugoslovenski humor, humor jugoslavo, equivalente, 
                  in salsa agrodolce balcanica, del british humor), l'amore 
                  per la musica tradizionale e per il canto. 
                   Cos'è 
                  allora che ha diviso i serbi, i croati, i montenegrini e i bosniaci? 
                  Cosa li ha spinti a farsi la guerra, ad odiarsi, a massacrarsi 
                  senza pietà? Risposta: una serie di perniciose e fasulle 
                  narrazioni create da elementi interni ed esterni alla compagine 
                  jugoslava, che hanno fatto leva sul tutt'altro che sconosciuto 
                  sentimento nazionalista dei popoli slavi del sud, ma soprattutto 
                  sul brutale vantaggio immediato. Da questo punto di vista il 
                  caso balcanico non è certo un unicum. Raramente 
                  nelle dispute territoriali viene messa al primo posto solamente 
                  l'appartenenza etnica, culturale o religiosa. Non è un 
                  caso che le armi dell'Irish Republican Army (IRA) irlandese 
                  siano state utilizzate da alcuni suoi membri per rapine a puro 
                  scopo di lucro personale. O che alcuni componenti del Fronte 
                  di Liberazione Naziunale Corsu (FLNC) della Corsica si comportino 
                  più da capi del crimine organizzato che da leaders 
                  di un movimento indipendentista, estorcendo denaro con la scusa 
                  del finanziamento alla lotta armata e controllando con metodi 
                  mafiosi il mercato edilizio dell'isola francese nascondendosi 
                  dietro la salvaguardia dell'ambiente. Per non parlare delle 
                  motivazioni economiche alla base dell'indipendentismo catalano 
                  e quebecchese. Il “noi da soli” (traduzione italiana 
                  di Sinn Féin, nome del partito nazionalista irlandese) 
                  sottintende spesso un “noi coi nostri soldi da soli” 
                  o “noi con le nostre possibilità economiche da 
                  soli”. Perché se c'è chi ha (giustamente) 
                  a cuore la sopravvivenza di una lingua, di una cultura o la 
                  libertà di un popolo è altrettanto vero che tanti 
                  altri cavalcano i fenomeni speratisti per altri motivi, di certo 
                  meno nobili. Per rimanere in Europa dell'est, casi particolarmente 
                  interessanti sono quelli del Kosovo, diventanto terra franca 
                  per criminali di ogni sorta, della Transnistria, regione de 
                  facto indipendente ma contesa tra Russia e Moldavia, buco 
                  nero d'Europa per il traffico d'armi e del Montenegro, che dopo 
                  l'indipendenza dalla federazione jugoslava (leggasi: Serbia) 
                  nel 2006 non ha ancora una legge chiara sulla naturalizzazione 
                  dei cittadini stranieri ed offre un programma di acquisto della 
                  cittadinanza tramite investimenti di una certa rilevanza nel 
                  paese (il Montenegro non concede l'estradizione e la sua cittadinanza 
                  potrebbe fare gola a molti). 
                  In effetti, non è molto credibile l'idea che gli abitanti 
                  di Knin, Vukovar, Dubrovnik o Sarajevo volessero vedere i propri 
                  vicini morti solo perché pronunciavano diversamente le 
                  parole, o perché avevano un “h” di troppo 
                  nel proprio cognome o un modo diverso di farsi il segno della 
                  croce. Ha molto più senso che qualcuno avesse messo gli 
                  occhi sul televisore di qualcun altro, sul suo pezzo di terra, 
                  sulla sua casa, sulle sue figlie procaci. Perché in Jugoslavia 
                  c'è chi grazie alla guerra si è arricchito, e 
                  anche parecchio. Spesso sono stati proprio coloro che oggi vengono 
                  venerati come eroi da quei giovani che, pur non avendo vissuto 
                  direttamente la guerra, crescendo in paesi socialmente ed economicamente 
                  dissestati e alla disperata ricerca di un'identità, sono 
                  diventati più nazionalisti dei propri padri, magari resi 
                  invalidi dallo scoppio di una mina nella Repubblica serba di 
                  Croazia (Republika Srpska Krajina). Zeljko “Arkan” 
                  Raznatovic, gangster come tanti altri nella Jugoslavia 
                  degli anni settanta e ottanta, è diventato un eroe di 
                  guerra e uno degli uomini più importanti (e ricchi) della 
                  Serbia grazie ai saccheggi e alle devastazioni compiute dalla 
                  sua milizia, le famigerate “Tigri“. Marko Perkovic 
                  detto “Thompson“, giovanotto coi capelli lunghi 
                  della Dalmazia interna (Dalmatinska Zagora), una delle 
                  zone più povere e meno sviluppate della Croazia, ha fatto 
                  carriera con una voce stonata e una canzonetta composta sul 
                  fronte come inno della propria brigata: “Bojna cavoglave“. 
                  Oggi è il cantante croato più ricco e celebre 
                  dopo Severina Vuc¨kovic, star del pop balcanico. 
                  
                
    Hate 
                  thy neighbour 
                  Chi ci credeva, alle favole del nazionalismo, alle bubbole 
                  cariche d'odio seminate da politici folli o al soldo di potenze 
                  straniere che avevano ogni interesse a smembrare uno stato federale 
                  il cui processo di democratizzazione ed il cui affacciarsi in 
                  Europa creavano non pochi grattacapi, c'era. Forse erano addirittura 
                  molti, come del resto erano molti i tedeschi che credevano ad 
                  Hitler e pensavano che gli ebrei volessero dominare il mondo. 
                  Ma queste convinzioni che, a chi si trovava appena fuori da 
                  quel contesto sociale, storico e politico, parevano giustamente 
                  deliranti, anche là dove fossero realmente radicate, 
                  poggiavano sempre su un humus di malcontento di altro genere. 
                  Nella Jugoslavia lontana dagli anni del boom economico titino, 
                  priva dell'URSS, nemico sulla carta ma di fatto ufficioso punto 
                  di riferimento, il malumore covava, aspettando di esplodere 
                  grazie a quella che, da sempre, è la scusa (leggasi: 
                  narrazione) migliore per fare la guerra: l'orgoglio nazionale, 
                  l'odio per il prossimo, uguale a noi eppure diverso. Hate 
                  thy neighbour. È cosi che i musulmani di Bosnia diventano 
                  i traditori del popolo serbo in combutta coi turchi, i croati 
                  nazisti filo-tedeschi e i serbi tornano ad essere cetnici ammazzabambini. 
                  Nasce la favola, perché di favola si tratta, della Velika 
                  Srbija-Grande Serbia, che si estenderebbe da Vukovar a Pristina 
                  e, anche se si tende spesso a dimenticarlo nell'atmosfera generalmente 
                  pregiudiziale nei confronti dei serbi, quella della Velika 
                  Hrvatska-Grande Croazia di ustashiana memoria, o del nuovo 
                  Impero Ottomano, tanto bramato da certi musulmani bosniaci, 
                  kosovari ed albanesi. Più questi deliri di onnipotenza 
                  sono grandi più si rivelano come tragici sintomi della 
                  sindrome post-traumatica che affligge i popoli balcanici, tante, 
                  troppe volte conquistati, schiavizzati e massacrati dallo straniero 
                  e, in virtù di questo, più soggetti di altri alle 
                  narrazioni bellicose che solleticano l'orgoglio campanilista, 
                  vengano esse dai satrapi di turno o dall'esterno. Nei Balcani, 
                  del resto, si è degni di rispetto solo quando si combatte 
                  e si muore. Lo dimostra una delle più celebri canzoni 
                  “cetniche”, in cui la Serbia è descritta 
                  come grande proprio per il fatto di avere più volte (tre, 
                  si dice) fatto guerra all'invasore, all'usurpatore: “Ko 
                  to kaze, ko to laze, Srbija je mala. Nije mala, nije mala, 
                  triput ratovala!” 
                  “Chi osa dirlo, chi osa mentire: la Serbia è piccola. 
                  Non è piccola, non è piccola, per tre volte ha 
                  combattuto!”.
                  
                
 Il guaio è che i popoli balcanici sono abituati alla 
                  guerra. In particolare i serbi, da sempre noti come popolo di 
                  formidabili combattenti. Non è un caso che la popolazione 
                  serba della Krajina croata, che tanto filo da torcere 
                  darà al neonato stato di Tudjman negli anni novanta, 
                  sia discendente diretta dei guerrieri che gli austriaci insediarono 
                  in quella zona secoli or sono per tenere a bada le scorribande 
                  turche. 
                  I discorsi di Milosevic, Izetbegovic e Tudjman delineano profili 
                  di nazioni e popoli mai esistiti (perlomeno non con quelle caratteristiche), 
                  narrano menzogne i cui frutti sono costati carissimi a tutti 
                  i membri di quello che era ed è un solo popolo, diviso 
                  dallo sciagurato interesse di pochi. E non consola che molti 
                  serbi, croati e bosniaci, anziani o di mezza età, memori 
                  dei disastri della guerra e del nazionalismo, abbiano rivolto 
                  il proprio cuore verso una narrazione diversa, ma non meno fallace 
                  (come tutti i “si stava meglio quando si stava peggio”): 
                  la cosiddetta “Jugonostalgia”, la nostalgia della 
                  Jugoslavia socialista, dipinta come un'arcadia di benessere 
                  e uguaglianza in una sorta di delirio vintage oggi sempre 
                  più al centro dell'interesse di sociologi e studiosi 
                  della questione balcanica. 
                  I più giovani, invece, sembrano non potersi sottrarre 
                  ad un bipolarismo estremo che vede da una parte l'adesione ad 
                  un nazionalismo neo-nazista xenofobo e violento e dall'altra 
                  un più o meno celato disprezzo per il proprio paese, 
                  visto come retrogrado rispetto ai liberali ed opulenti stati 
                  dell'Europa centrale e settentrionale, che nella mente di questi 
                  giovani jugoslavi divengono teatro di sogni che si traducono 
                  nella realtà di un'immigrazione ancora molto sostenuta, 
                  specie verso i paesi germanofoni. 
                  Solo sviluppando un senso critico in grado di mettere in discussione 
                  il secolare affastellarsi di menzognere narrazioni storiche, 
                  culturali e religiose che grava sui Balcani, i popoli di questa 
                  terra potranno veramente emanciparsi dalle gravose catene che 
                  fino ad ora hanno loro impedito di aprire le ali e di farsi 
                  forti delle loro affinità invece che delle loro differenze. 
                  E aprire le ali è possibile solo se si guarda al futuro 
                  e non al passato, con la consapevole leggerezza che nel 1988, 
                  in una Jugoslavia che non si immaginava ancora l'abisso in cui 
                  di lì a poco sarebbe sprofondata, avevano cercato di 
                  descrivere gli Elektric¨ni Orgazam, i Talking 
                  Heads di Belgrado: 
                 
                   Pokupimo boje koje padaju sa neba 
                    Raccogliamo i colori che cadono dal cielo, 
                    dovoljan je dodir, samo to nam treba 
                    un tocco è sufficiente, ci serve solo questo. 
                    zaboravi na juce, hajde pogledaj u sutra 
                    dimenticati di ieri, guarda al domani 
                    Vide es da zelis, videces da moces. 
                    vedrai che vorrai, vedrai che potrai. 
                    Odgovori koje trazis nisu bas daleko 
                    Le risposte che cerchi non sono così lontane: 
                    pogledaj u sebe, pogledaj u sebe 
                    guardati dentro, guardati dentro. 
                    neka tvoja glava bude samo tvoja briga 
                    Che la tua mente sia la tua sola preoccupazione 
                    ne daj da joj govore 
                    non lasciare che la gente ti dica cosa fare 
                    neka sama otkrije 
                    pensa con la tua testa! 
                    Igra rokenrol cela Jugoslavija... 
                    Balla il rock'n'roll tutta quanta la Jugoslavia...  
                 
                  
                  Lorenzo Sacerdoti 
                  artbandolo@gmail.com
  |