cultura 
                  
                  
                Genere, sesso 
e parameci 
                 Avete presente i parameci? Sono forme unicellulari, nostri 
                  «lontani parenti» ci ricorda Daniela Danna. La differenza 
                  sessuale – “sexus” in latino significa separazione 
                  – degli umani risulta incomprensibile a un paramecio il 
                  quale, incontrando Danna (ricercatrice dell'università 
                  di Milano, direttora di www.xxdonne.net 
                  nonchè autrice di libri e ricerche preziose), le rivolge 
                  nove scomode domande che finiscono nel divertente quanto sapiente 
                  libretto Il genere spiegato a un paramecio (Bfs edizioni, 
                  2011, pagg. 79, € 6,00). 
                  Le nove domande sono toste assai: «perché siete 
                  divisi tra maschi e femmine?»; «perché alcuni 
                  popoli esagerano la distinzione di genere mentre altri la rendono 
                  quasi insignificante?»; «cosa significa per voi 
                  umani che siano le donne a fare figli mentre gli uomini non 
                  possono?»; «voi donne volete essere uguali agli 
                  uomini o differenti?»; «sessualità, come 
                  la vivete?». C'è anche un perfido non-quesito, 
                  ovvero «ho sentito dire che il matrimonio per voi è 
                  condizione naturale»; e ancora: «cos'è il 
                  lavoro?»; per concludere con «sento parlare di post-genere, 
                  vi state forse riavvicinando a noi parameci?». 
                  C'è da far drizzare i capelli in testa a incontrare parameci 
                  tanto petulanti ma Danna non si spaventa per così poco: 
                  accetta la sfida e, a mio avviso, la vince. Il paramecio può 
                  essere soddisfatto: non c'è questione spinosa o complessa 
                  che sia stata elusa o banalizzata. 
                  Il titolo e il disegno in copertina fanno pensare a un testo 
                  ironico ma è così solo in parte. Daniela Danna 
                  è bravissima nel tenere insieme serietà e leggerezza, 
                  come nel riassumere complessi passaggi storici e legislativi. 
                  Ma è anche puntuale nel ricordare la significativa etimologia 
                  delle parole e il loro significato mutante (o travisato): da 
                  famiglia a stupro, da clitoride a... lavoro. Il paramecio – 
                  e con lui chiunque legga questo libro – incontrerà 
                  violenze e ignoranze, persecuzioni e pregiudizi, verità 
                  assolute in un paese che altrove vengono capovolte. Riassumere 
                  in poche pagine tutto ciò non è fatica da poco 
                  (essere logorroici è facile, la sintesi invece richiede 
                  lavoro e saggezza). Danna è netta e chiara, con la forza 
                  dei fatti. 
                  Se proprio dovessi cercare il classico pelo nell'uovo, direi 
                  che solo nel rispondere alla questione del «sesso come 
                  merce di scambio» Danna affronta alcuni nodi in modo un 
                  po' sbrigativo: forse perché, come studiosa, ha dovuto 
                  dipanare molte complessità sul mercato del sesso e inconsciamente 
                  rimanda chi legge ai suoi precedenti volumi, in particolare 
                  Donne di mondo: commercio del sesso e controllo statale 
                  (Eleuthera, 2004) e Che cos'è la prostituzione: le 
                  quattro visioni del commercio del sesso (Asterios, 2003). 
                  Vale ricordare alcuni altri suoi libri: Amiche, compagne, 
                  amanti: storia dell'amore fra donne (Uniservice, nuova edizione 
                  2003); Ginocidio: la violenza contro le donne nell'era globale 
                  (Eleuthera, 2007); Stato di famiglia: le donne maltrattate 
                  di fronte alle istituzioni (Ediesse, 2009); e – con 
                  Chiara Cavina – Crescere in famiglie omogenitoriali 
                  (Franco Angeli, 2009). Danna ha anche elaborato, con l'associazione 
                  di donne “Trama di terre” e la Regione Emilia-Romagna, 
                  una ricerca sui matrimoni forzati, un fenomeno che – anche 
                  in alcuni segmenti delle migrazioni – è preoccupante 
                  a dir poco ma sottovalutato dalle istituzioni e anche dalla 
                  società autodefinita civile. 
                  Un po' di citazioni, tanto per far capire che – pur nella 
                  sintesi – Danna non dimentica di informarci su questioni 
                  basilari eppur rimosse ma anche di allargare il nostro orizzonte 
                  informativo e cognitivo: nonostante le differenze fra i sessi 
                  «le medicine vengono testate normalmente su individui 
                  maschi»; dobbiamo fare i conti con imbrogli millenari 
                  delle Chiese ma anche con scienziati sessisti; ma anche con 
                  qualche donna che ancora si fa convincere dalla propaganda patriarcale 
                  («così come i lavoratori accettano le leggi sulla 
                  proprietà, le donne possono credersi macchine per fare 
                  bambini»); quanto alle “tradizioni” e alle 
                  “libere scelte” Danna cita Fatema Mernissi «l'hijab 
                  è una manna del cielo per i politici che affrontano una 
                  crisi. Non è un semplice pezzetto del vestire, è 
                  una divisione del lavoro. Rimanda le donne in cucina»; 
                  infine Danna ci invita a non dimenticare neppure per un attimo 
                  che «violenza è anche l'ignoranza sul proprio corpo» 
                  e che «la principale diseguaglianza del mondo contemporaneo 
                  rimane quella tra uomini e donne». 
                  Giustamente ricordata e citata anche Laura Conti che, a proposito 
                  di educazione, si chiedeva: «perchè vergognarsi 
                  delle cose che danno piacere?» e sulla maternità 
                  surrogata, nel 1981, scriveva: «C'è già 
                  chi comincia a coltivare il sogno più classista o razzista: 
                  esonerare una donna dall'albergare nel proprio utero il proprio 
                  figlio, affidandolo all'utero di un'altra». 
                   
                  Daniele Barbieri 
                
                   
                   
                    
                 Se 
                  il capitalismo 
fa crack  
                 Gli ultimi lavori di John Holloway dimostrano come si siano 
                  assottigliate le divergenze di vedute tra settori dell'anarchismo 
                  e della tradizione marxista. Ricordiamo, tra le altre opere, 
                  un testo che si è affermato alla attenzione mondiale 
                  del mondo antagonista, Come cambiare il mondo senza prendere 
                  il potere? Il significato della rivoluzione oggi (IntraMoenia, 
                  2004, pagg. 310) ma anche Che fine ha fatto la lotta di classe? 
                  (Manifestolibri, 2003, pagg. 136) e articoli sul web, Against 
                  and Beyond the State: An Interview with John Holloway (2007, 
                  uppingtheanti.org), 
                  The politics of dignity and the politics of poverty (2010, 
                  hydrarchy.blogspot.it). 
                  Crack Capitalism (Derive e Approdi, Roma, 2012, pagg. 
                  256, Ä 18,00) è dedicato all'analisi della costituzione 
                  e strutturazione del lavoro scisso dalla vita che viene imposto 
                  con il capitalismo. Il titolo non si riferisce al crack 
                  finanziario del capitalismo di questi anni ma alle strategie 
                  per romperlo. La cesura esaminata dall'autore è tra un 
                  flusso vitale che comprende attività lavorative nella 
                  vita quotidiana, in buona parte autogestita, caratteristica 
                  dei contesti precapitalistici e l'affermazione dell'impiego 
                  salariato, un tempo e uno sforzo separato dalla attività 
                  libera e cosciente. Holloway mira ad un aggiornamento della 
                  teoria di Marx, in particolare sul duplice carattere del lavoro, 
                  sia a livello concettuale sia nelle sue declinazioni pratiche, 
                  quali l'effetto sulla generazione delle identità, con 
                  la creazione di maschere; sui ruoli di genere e della sessualità; 
                  sulla organizzazione del tempo. È un testo scritto in 
                  un linguaggio ammaliante, sempre dinamico, evocativo, in cui 
                  l'analisi si sposa alla tensione verso la liberazione, l'uguaglianza, 
                  l'autonomia. Il tono è spesso poetico e profetico, etico 
                  e politico, miscelando le tendenze emergenti nei movimenti con 
                  il posizionamento personale dell'autore. 
                  Il testo alterna passaggi analitici e argomentativi all'illustrazione 
                  di esempi, trattati brevemente, soprattutto sulla capacità 
                  di fare altrimenti: una sorta di panoramica delle alternative 
                  esistenti su scala mondiale. Si tratta in massima parte di movimenti 
                  locali e minuti che comprendono mobilitazioni sindacali, il 
                  movimento piquetero, i centri sociali, rivendicazioni 
                  studentesche, lotte ecologiste, fabbriche occupate, conflitti 
                  per impedire la privatizzazione dei servizi, comunità 
                  rurali, la solidarietà tra vicini. La mobilitazione anti-capitalista 
                  è analizzata sempre con un'attenzione alla dialettica 
                  tra vocazione individuale e all'organizzazione collettiva, entrambe 
                  ritenute dimensioni imprescindibili della lotta efficace. 
                  Holloway si forma e si ispira nella corrente dell'open marxism 
                  anglosassone, in particolare quella collocabile nelle riflessioni 
                  dell'operaismo legato all'Autonomia italiana – evidente 
                  nell'interesse per l'organizzazione sociale del lavoro. 
                  Sebbene lo strumentario analitico sia innovativo e personalizzato, 
                  incentrato su concetti quali “dignità”, “crepe”, 
                  “rifiuto-e-creazione”, “forza del fare”, 
                  il riferimento a Marx e a un'ampia schiera di intellettuali 
                  della tradizione marxista è la bussola su cui si struttura 
                  la riflessione. Eppure quando si passa dall'analisi alla proposta, 
                  il fatidico che fare?, Holloway prende le distanze dalla 
                  messa in pratica dell'ortodossia marxista, non solo quella degli 
                  Stati socialisti vecchi e nuovi ma anche quella dei partiti 
                  e delle strategie della sinistra odierna; di fatto, sposa tendenze 
                  anarchiche – senza mai ammetterlo apertamente – 
                  sia quelle classiche che quelle frutto della sensibilità 
                  libertaria sviluppatasi negli ultimi decenni. Nel testo di Holloway 
                  si trovano riproposti, affinati e discussi presupposti che ormai 
                  appaiono condivisi sia dai movimenti emergenti che da un ampia 
                  gamma di autori che esaminano le forme di potere e del suo sovvertimento 
                  in epoca contemporanea (Antonio Negri, Hakim Bey, Richard Day, 
                  Raúl Zibechi, David Graeber). Si invita a prendere spunto 
                  creativamente dalle esperienze liberate dalla mercificazione 
                  capitalistica, rifiutando l'idea che esista una linea precostituita 
                  da seguire. Si crede che la trasformazione si generi nella diversità 
                  di sensibilità e di prassi, senza ricercare l'egemonia 
                  ma guardando piuttosto agli spazi interstiziali con attenzione 
                  e speranza. Si celebra l'ascesa del femminile e della sua sensibilità 
                  nelle pratiche dei movimenti. Sebbene Holloway sia scettico 
                  rispetto all'utilizzo della violenza che considera una modalità 
                  estranea ai valori sovversivi e al contempo un cadere nella 
                  logica privilegiata dallo Stato, difende l'azione diretta nelle 
                  sue diverse forme e non sposa una posizione “completamente 
                  pacifista” (p. 62). Nutre un forte scetticismo verso la 
                  creazione di identità forti ed essenzializzate, mirando 
                  piuttosto a trovare affinità inclusive che mantengano 
                  e difendano le specificità dei diversi gruppi che si 
                  muovono contro il capitale. Abbandona, senza rimpianti, la prospettiva 
                  rivoluzionaria intesa in senso classico per puntare, piuttosto, 
                  ad aprire e consolidare crepe ribelli nel sistema capitalistico. 
                  Si concentra sugli effetti nefasti della separazione tra società 
                  e potere politico, realizzato compiutamente con l'affermazione 
                  degli Stati. Critica la tradizione marxista che, rinnegando 
                  Marx, si muove nell'ambito del lavoro piuttosto che applicarsi 
                  per la sua abolizione. Abiura il settarismo e l'avanguardismo 
                  marxista per aprirsi ad un atteggiamento accogliente che tende 
                  a valorizzare l'atto resistente del singolo e le varie forme 
                  di lotta anche nella loro ambivalenza: una riflessione che corre 
                  attraverso tutto il testo ammette le contraddizioni di questo 
                  periodo storico che investono chiunque e qualunque gesto ma 
                  non per questo svuotano la potenzialità sovversiva. 
                  Holloway infine rifiuta di prendere le distanze a priori da 
                  chi prende finanziamenti dallo Stato: la questione, afferma, 
                  non è quella della purezza ma della direzione, senso 
                  e prassi della lotta. 
                  Non c'è nel testo una pulsione avanguardista né 
                  tanto meno la fiducia in apparati istituzionali o gerarchici. 
                  L'importante, sostiene Holloway, è come vengono costituite 
                  le reti sociali, privilegiando l'auto-determinazione, decidendo 
                  tramite la democrazia diretta e rifiutando quella rappresentativa. 
                  Rispetto al lavoro, l'invito è di smettere di alimentare 
                  il capitalismo e riappropriarsi del tempo e della capacità 
                  di fare creativamente, secondo i nostri tempi e finalità. 
                  Sono argomentazioni che partono da e riflettono le forme concrete 
                  che prendono le mobilitazioni contemporanee: la capacità 
                  di tenere fuori le forze della repressione da certe aree, la 
                  moltiplicazione delle capacità autogestionali, la creazione 
                  di mense popolari, la diffusione di scuole autogestite, il consolidarsi 
                  di radio comunitarie. 
                  L'analisi affascinante delle potenzialità trasformative 
                  aperte dall'uscita dal lavoro sarebbe stata ulteriormente apprezzata 
                  se l'autore avesse preso un posizionamento più deciso 
                  su due questioni che appaiono cruciali in questa fase storica. 
                  Primo: che livello di tecnologia è compatibile con la 
                  riappropriazione delle modalità di lavoro ormai non più 
                  gestite tramite il capitale? Se appare evidente che la tecnologia 
                  avanzata si accompagna alla sua amministrazione gerarchica, 
                  la proposta di Holloway di uscire dal capitalismo dovrebbe anche 
                  prevedere una critica alla ipertecnologia contemporanea. Secondo: 
                  sebbene Holloway accenni a questi tempi come un periodo “apocalittico” 
                  non sono esplorate a fondo le ragioni e il contesto ecologico 
                  della crisi incipiente. Ci si sofferma a lungo sulle crepe aperte 
                  da una società in lotta ma le dinamiche emergenti che 
                  annunciano il prossimo crollo dell'attuale organizzazione economica 
                  appaiono piuttosto associabili ad una implosione interna al 
                  sistema (ingordigia illimitata del capitale finanziario) e agli 
                  effetti catastrofici del capitalismo sulla lunga durata (inquinamento 
                  di aria, mare e acque sotterranee, cambiamento climatico, drammatici 
                  tassi di estinzione di specie). 
                   
                  Stefano Boni 
                
                   
                   
                    
                Quei primi 
obiettori di coscienza 
                 Vi sono “pezzi” della storia del movimento anarchico 
                  che vanno riscoperti e studiati sia da un profilo storico, sia 
                  per ricordare e far conoscere coloro che hanno lottato a favore 
                  delle libertà civili e individuali. L'ultimo volume di 
                  Andrea Maori, Dossier Libertà controllata. Polizia, 
                  potere politico e movimenti per i diritti umani e civili (1045-2000) 
                  edito da Reality Book, dedica uno spazio alla storia dell'obiezione 
                  di coscienza degli anarchici Olivo Della Savia e Giorgio Viola, 
                  il primo ricordato soprattutto per essere stato tra gli animatori, 
                  insieme a Valpreda che ne fu il fondatore, del “circolo 
                  anarchico 22 marzo” nell'ottobre del 1969. 
                  Durante un dibattito presso il circolo culturale “Sacco 
                  e Vanzetti”, associato alla Federazione Anarchica di Milano 
                  il 9 settembre del 1965, sia Della Savia che Giorgio Viola esposero 
                  pubblicamente il loro rifiuto di presentare servizio militare1. 
                  I due si presentarono rispettivamente al carcere di Forte Bocca 
                  e al centro reclute di Albenga, dove furono arrestati con l'accusa 
                  di disobbedienza continuata e di rifiuto di obbedienza (una 
                  nota della questura di Roma informava che «il Della Savia» 
                  è compreso nella nota rubrica fotografica di «estremisti 
                  già responsabili o concretamente indiziati di attentati 
                  terroristici»; tale nota rivela la continuazione dell'anagrafe 
                  dei sovversivi anche in epoca post-fascista). 
                  In seguito a questi avvenimenti la Federazione Anarchica organizzò 
                  un “Comitato provvisorio degli obiettori di coscienza” 
                  che faceva capo a Angelo Damonti e Giuseppe Pinelli, responsabile 
                  della biblioteca del circolo “Sacco e Vanzetti”. 
                  Nonostante ciò Della Savia fu condannato dal tribunale 
                  militare territoriale di Roma alla pena di cinque mesi di reclusione 
                  militare. La reazione degli anarchici venne attentamente sorvegliata 
                  dalla polizia di Livorno che seguì un dibattito che si 
                  tenne presso la locale casa della cultura nel febbraio 1966. 
                  L'assemblea venne introdotta da Mario Barbani, già noto 
                  alle forze di polizia perché il 23 giugno del 1950 si 
                  era ribellato all'autoritarismo militarista presentandosi davanti 
                  al capo di stato maggiore dell'esercito e deponendo ai suoi 
                  piedi il fucile, dichiarandosi indisponibile a continuare il 
                  servizio militare2. Barbani, 
                  durante l'introduzione al dibattito, sostenne che la vera obiezione 
                  di coscienza scaturisce da motivi sociali a fronte dell'esercito 
                  che è strumento di conservazione dell'attuale ordine 
                  sociale: «Solamente una società di eguali, priva 
                  di frontiere, di eserciti e di altri strumenti di potere può 
                  dare all'umanità la fratellanza e l'uguaglianza auspicata, 
                  che poi giustificano il fine che si promette l'obiettore di 
                  coscienza». 
                  Risulta evidente come l'obiezione di coscienza sia percepita 
                  come affermazione di giustizia e uguaglianza. Barbani dichiarò 
                  che il servizio militare veniva inteso come difesa del territorio 
                  dello stato mentre il pensiero anarchico non ammette patria 
                  né delimitazioni territoriali. 
                  La relazione di Barbani abbracciò anche un profilo storico-politico: 
                  venne infatti analizzato il militarismo statunitense alla stessa 
                  stregua di quello sovietico, ricordando anche che l'Urss era 
                  l'unico paese ove l'obiezione di coscienza non veniva ammessa. 
                  A tale dichiarazione molti comunisti presenti in sala – 
                  secondo quanto riportato dalle carte di polizia – si allontanarono 
                  dal convegno. Tale affermazione e la conseguente reazione diedero 
                  vita a una serie di polemiche all'interno dell'assemblea, come 
                  si evince dalle parole di un oratore: «Comunisti e socialisti, 
                  tradendo il pensiero universale del proletariato, hanno instaurato, 
                  in Russia e in altri paesi, un altro dispotismo, creando nuove 
                  patrie e nuovi confini che impediscono la fratellanza e l'uguaglianza 
                  dei popoli». 
                  L'opposizione delle istituzioni e la tendenza a monitorare ogni 
                  espressione di pensiero a favore dell'obiezione di coscienza 
                  è riscontrabile anche nella precisissima documentazione 
                  posseduta dalle varie questure sparse sul territorio italiano: 
                  materiale che raccolto darebbe vita ad una ricca storia del 
                  movimento libertario, come questo stesso volume, con questa 
                  preziosa sezione, testimonia. 
                   
                  Domenico Letizia 
                Note 
                 
                  -  Obiettori di Coscienza relazione della prefettura 
                  di Milano, 10 Dicembre 1965.
                  
 -  Sergio Albesano, Storia dell'obiezione di coscienza 
                  in Italia pag. 47.
   
                  
                   
                    
                 Il 
                  mio disco, 
                  Silo Thinking  
                 Mi ritrovo un po' per caso, tramite newsletter, conoscenze 
                  comuni e la scelta del nome del mio progetto solista, Makhno, 
                  che ha incuriosito alcuni redattori, a scrivere sulle pagine 
                  di “A”, per parlare di un disco, il mio. 
                  È d'obbligo innanzitutto, dato che di musica si parla, 
                  dare dei riferimenti: Il mondo da cui nasce questo progetto 
                  è quello della musica indipendente, dell'autoproduzione 
                  e, musicalmente, da tutti i miei progetti del passato, Tasaday, 
                  Six Minute War Madness, A Short Apnea, Uncode Duello. Progetti 
                  che hanno come comune denominatore la contaminazione tra rock, 
                  punk, improvvisazione e sperimentazione. 
                  Perché Makhno? È superfluo spiegare il personaggio 
                  su queste pagine. Mi ha affascinato la sua figura, la sua storia, 
                  l'idea del combattere a tutti i costi per una causa collettiva, 
                  senza compromessi, e finire esiliato, solo, perdente. Un riferimento 
                  politico, ma anche intimo, personale. Che è poi la caratteristica 
                  di tutto il disco: dal nome del progetto al titolo, da La 
                  Makhnovtchina a Stiv, omaggio ad un amico scomparso, da 
                  Zena, la rivolta del giugno 1960 contro il congresso 
                  fascista a Genova, al vivere o morire di Custer, da Ulrike, 
                  la mia scoperta del personaggio Meinhof pre lotta armata, alle 
                  vicende personali di Fine della Storia, dai riferimenti 
                  cinematografici come V for Vendetta per Remember 
                  al rapporto fanatismo religioso/famiglia di Father and Son. 
                  Raramente le tematiche sono espresse con testi espliciti, la 
                  narrazione è lasciata a poche frasi, a frammenti campionati, 
                  con una funzione più evocativa che narrativa; a chi ascolta 
                  il compito di ricercarne il senso, i soggetti, e a darne una 
                  propria interpretazione. 
                  
                 Un disco concepito in solitudine, ma anche frutto di un lavoro 
                  collettivo: Wallace Records, Brigadisco, Hysm? sono le etichette 
                  che hanno coprodotto con me Silo Thinking (lp vinile 
                  12" (Wallace/Neon Paralleli/Brigadisco/Hysm?), espressione 
                  di quel mondo a cui facevo riferimento prima, di autoproduzione, 
                  di indipendenza per scelta. Troppe sono le realtà che 
                  si professano indipendenti ma pronte a cambiare bandiera non 
                  appena se ne coglie l'opportunità, o viceversa, gruppi 
                  che sbandierano l'autoproduzione dopo aver bazzicato per anni 
                  in ambienti mainstream, solo ora, che il mercato è cambiato. 
                  Silo Thinking esce in vinile e download, ed è 
                  possibile ascoltarlo in streaming dal mio blog: neonparalleli.blogspot.it. 
                  Sta ora a voi, se siete curiosi, ascoltarlo e fare la vostra 
                  recensione personale. 
                  Grazie per l'attenzione. 
                   
                  Paolo Cantù 
                  
                   
                    
                 Anatomia 
                  della 
                  Germania nazista  
                 Il libro di Peter Fritzsche Vita e morte nel Terzo Reich 
                  (Laterza, 2010, pagg. 341, € 20,00) analizza la società 
                  tedesca durante gli anni della dittatura nazista, al fine di 
                  indagare l'effettivo grado di adesione del popolo germanico 
                  al nazionalsocialismo. «Come vasto progetto di rinnovamento 
                  politico, sociale e razziale, il nazionalsocialismo offriva 
                  al popolo tedesco diverse modalità di partecipazione. 
                  I tedeschi guardarono alle politiche naziste con paura, opportunismo 
                  e carrierismo e con diversi gradi di convinzione ideologica. 
                  E l'elenco potrebbe allungarsi ulteriormente per includere la 
                  pigrizia, l'indifferenza e l'ignoranza». 
                  Fritzsche cerca di penetrare nelle vite private dei tedeschi 
                  dell'epoca utilizzando i diari personali, compilati dalla famiglia 
                  Gebensleben di Braunschweig, dalla famiglia Durkefelden di Peine 
                  e da Erich Ebermayer di Lipsia. Altro documento significativo 
                  per la sua analisi è il libro Der Tod in Polen 
                  di Edwin Erich Dwinger; pubblicato nella Germania degli anni 
                  '40, racconta uccisioni di civili inermi, uomini, donne e bambini, 
                  documenti di riconoscimento colorati in base all'affidabilità 
                  politica e distruzione di chiese. Le vittime però non 
                  sono i polacchi ma i tedeschi, in un significativo ribaltamento 
                  dei ruoli fra carnefici e vittime: una sorta di tentativo di 
                  autoassoluzione da parte del popolo tedesco. L'episodio narrato 
                  – e gonfiato ad arte dall'autore – è quello 
                  della “domenica di sangue” di Bydgoszcz: il 3 settembre 
                  1939, due giorni dopo l'invasione nazista della Polonia, i nazisti 
                  subirono una vendetta da parte dei cittadini di etnia polacca 
                  nella città di Bydgoszcz; Bromberger Blutsonntag in tedesco. 
                  D'altronde la tendenza all'autogiustificazione non è 
                  nuova alla Germania degli anni di Weimar: la sensazione di accerchiamento, 
                  lo spettro del trattato di Versailles e del “tradimento”, 
                  con il mito della pugnalata alla schiena, provocarono nei nazisti 
                  la reazione “uccidi o muori”, la “guerra totale” 
                  e l'autoassoluzione per i crimini commessi, con l'affermazione 
                  “Se non avessimo fatto questo gli altri lo avrebbero fatto 
                  a noi”, dove per altri sono intesi soprattutto gli slavi 
                  e gli ebrei. 
                  È proprio nei confronti dei presunti “altri” 
                  che viene indirizzato lo scontro all'interno della società 
                  tedesca: ebrei, disabili, individui definiti asociali, oppositori 
                  religiosi e politici, piccoli delinquenti comuni: vite degne 
                  contro vite indegne. 
                  La Weltanschauung nazista, abbinata al terribile periodo 
                  della depressione economica, sprigionò enormi energie 
                  ed aspettative nel popolo tedesco, cavalcate abilmente dalla 
                  propaganda. Per rafforzare la volksgemeinschaft, la comunità 
                  di popolo, fu introdotto ad esempio il saluto a Hitler, che 
                  ebbe successo soprattutto nei primi anni di dittatura, in cui 
                  tutti gli altri saluti erano praticamente scomparsi. Le cose 
                  però cambieranno già nel 1940, quando le privazioni 
                  della guerra cominceranno a minare il morale della popolazione. 
                  Al di là del già noto sfondo storico, i diari 
                  famigliari analizzati da Fritzsche ci permettono di entrare 
                  più in profondità, nell'intimità delle 
                  case tedesche, esaminando le diverse reazioni all'avvento del 
                  nazionalsocialismo. 
                  Elisabeth Gebensleben ad esempio, moglie del vice sindaco di 
                  Braunschweig, convinta nazionalista, diventa una fervente nazista 
                  già nel 1930, impegnandosi attivamente nell'Associazione 
                  delle donne naziste. Il figlio Eberhard invece, dopo essere 
                  entrato nelle SA, andrà in Olanda con le truppe d'occupazione 
                  della Wehrmacht, proprio nel paese in cui, prima della guerra, 
                  si era trasferita la sorella, sposata ad un olandese e incapace 
                  di comprendere appieno la trasformazione in atto nella sua stessa 
                  famiglia. Innamoratosi poi di una mischlinge, una “sangue 
                  misto” incontrerà grandi difficoltà. 
                  Diverso è il caso di Karl Durkefelden, che si oppose 
                  al regime per tutta la sua durata, pur vedendo tanti suoi ex 
                  compagni socialdemocratici o comunisti passare con i nazisti. 
                  Lui e la moglie rimasero oppositori, mentre altri loro famigliari, 
                  compreso il padre di Karl, entrarono nel vortice nazista. 
                  Più ambiguo il percorso di Erich Ebermayer che, pur essendo 
                  contrario al nazismo, aderisce ed abbraccia la volksgemeinschaft. 
                  Il libro vive di un continuo dialogo tra grandi fatti storici 
                  e vite private. Al contesto generale appartiene ad esempio l'analisi 
                  della situazione economica. Sotto il regime nazista si verificò 
                  un effettivo miglioramento del tenore di vita, che fu però 
                  decisamente inferiore rispetto agli obiettivi prefissati e alle 
                  aspettative del popolo: calò la disoccupazione, soprattutto 
                  grazie all'enorme mole di lavori pubblici, ma peggiorano le 
                  condizioni di lavoro degli operai. Un sostegno alla popolazione 
                  fu offerto dall'associazione Kraft durch Freude, con gite e 
                  vacanze organizzate; inoltre, nei sogni di Hitler, doveva esserci 
                  un'automobile per ogni famiglia tedesca: per questo venne creata 
                  la Volkswagen, che avrebbe fornito le automobili per far spostare 
                  i conquistatori tedeschi nelle immense autostrade del Reich. 
                  Altri collanti per la volksgemeinschaft furono la radio, 
                  il cinema, le marce, le divise, le bandiere, gli stendardi e 
                  la Wehrmacht, che tornava esercito di leva. 
                  Per quanto riguarda il cinema l'esempio più emblematico 
                  è forse quello di Leni Riefenstahl che, con due film, 
                  celebra i fasti del nazismo: Il trionfo della volontà 
                  ed Olympia, il primo sul congresso di Norimberga, l'altro 
                  sulle Olimpiadi del 1936 a Berlino. Nel frattempo aumentano 
                  le sale cinematografiche, i cinegiornali e i film di propaganda 
                  come Io accuso, sull'eutanasia dei disabili o Suss 
                  l'ebreo. 
                  Le vendite di radio subiscono un incremento grazie alla Volksempfanger 
                  (radio del popolo) Ve301, senza raggiungere però i numeri 
                  conquistati negli Stati Uniti. La radio serviva a tenere unita 
                  la volksgemeinschaft, a creare l'unter uns, il 
                  “tra di noi” del popolo tedesco: uno scopo raggiunto 
                  soprattutto nei primi anni di guerra. 
                  La rivoluzione nazista, come è noto, è strettamente 
                  legata alla biologia: la Germania era un corpo da risanare e 
                  le vite indegne dei virus. A questo scopo, l'ordine dei medici 
                  si prestò a svariati crimini: dall'eliminazione dei disabili 
                  a quella degli ebrei, dagli asociali agli omosessuali e dagli 
                  oppositori politici e religiosi e agli slavi. 
                  La legge per la sterilizzazione obbligatoria è del 1938 
                  e il numero degli interventi eseguiti è stimato intono 
                  a 400.000. Il programma di eutanasia, chiamato Aktion T4 dall'indirizzo 
                  della villa dove aveva sede la “centrale operativa” 
                  (Tiergartenstrasse 4), prese avvio nel 1938 con l'uccisione 
                  di alcuni bambini per ordine diretto dello stesso Hitler. Nell'ottobre 
                  del 1939 invece, una lettera dello stesso Führer (che sarà 
                  retrodatata al 1° settembre, in concomitanza con lo scoppio 
                  della guerra) diede il via all'uccisione degli adulti. 
                  Già dal 1933 invece, inizia il calvario per gli ebrei 
                  tedeschi, colpiti da leggi discriminatorie sempre più 
                  terribili, che sfoceranno nella celebre kristallnacht 
                  del 9 novembre 1938, in cui vennero distrutte migliaia di vetrine 
                  di negozi appartenenti ad ebrei, danneggiate case e mobili, 
                  distrutte 267 Sinagoghe, uccise 100 persone, arrestate altre 
                  25.000 e 10.000 deportate in campo di concentramento. Chi poteva 
                  espatriare lo fece, anche perdendo tutto, molti inviarono i 
                  propri figli da parenti o in Palestina, nella dura vita dei 
                  Kibbutz. 
                  Nel '38 scatta il piano imperiale di Hitler: l'Anschluss 
                  dell'Austria, l'annessione dei Sudeti e, nel '39, l'attacco 
                  alla Polonia, il tutto per assicurarsi il lebensraum, 
                  lo spazio vitale ad est, nell'ottica di quella che, per Hitler, 
                  si stava configurando come una sorta di guerra coloniale: “La 
                  Russia è la nostra Africa” (anche se forse nella 
                  mente del dittatore l'esempio da seguire non era tanto l'impero 
                  britannico quanto gli Stati Uniti, che avevano eliminato gli 
                  indigeni su base razziale). La guerra era uno degli scopi principali 
                  del nazismo: guerra significava cementare saldamente la volksgemeinschaft. 
                  Nella primavera del '40 tutta l'Europa occidentale si arrende 
                  alla Germania, unica resistenza la Gran Bretagna. Hitler, forte 
                  delle facili vittorie, rivolge le sue attenzioni ad est e attacca, 
                  con l'operazione Barbarossa, l'Unione Sovietica nel giugno 1941. 
                  La guerra a est deve essere estremamente brutale e rappresenta 
                  l'occasione per chiudere i conti con il nemico numero uno, gli 
                  ebrei: speciali squadre di SS, le Einsatzgruppen, si muovono 
                  dietro il fronte e fucilano uomini, donne e bambini ebrei in 
                  gigantesche fosse come quella di Babi Yar. 
                  Alla fine del 1941 l'assassinio di massa raggiunge il culmine 
                  della sua brutale efficienza: la morte viene data tramite gas 
                  – come già sperimentato con l'eutanasia degli adulti 
                  disabili – con la creazione di numerosi campi di concentramento 
                  come Auschwitz, Sobibór, Belzec e Treblinka. L'avvio 
                  ufficiale dell'operazione viene dato durante la Conferenza di 
                  Wannsee, il 20 gennaio 1942. 
                  Ma come ha reagito a tutto ciò il popolo tedesco? Era 
                  a conoscenza di quanto accadeva? Dalle pagine di Fritzsche sembra 
                  emergere che sì, soprattutto alla fine della guerra, 
                  i tedeschi in patria erano a conoscenza di tutto ciò, 
                  soprattutto grazie ai racconti dei soldati, ma l'atteggiamento 
                  più diffuso era evitare di parlarne, fingere di non sapere 
                  o, tutt'al più, nascondersi dietro al mito della dicotomia 
                  “Wehrmacht buona”, “SS, Gestapo e Partito 
                  cattivi”. La vergogna ebbe la meglio sulla colpa: sia 
                  durante che dopo la guerra i tedeschi si rifugiarono in letture 
                  come Jünger o Dostoevskij, quest'ultimo citato anche da 
                  Etty Hillesum, morta in un campo di concentramento, che vedeva 
                  nelle opere dello scrittore russo un'efficace rappresentazione 
                  dell'insondabilità del male. 
                  Probabilmente l'insondabilità del male lascerà 
                  la spiegazione di questi dodici anni terribili per sempre incompleta. 
                   
                  Alessandro Fiori 
                  
                   
                    
                 Dalla 
                  parte 
                  degli ultimi  
                 Don Andrea Gallo, prete angelicamente anarchico, ancora una 
                  volta “spiazza” tutti: il suo ultimo libro Come 
                  un cane in chiesa (edizioni Piemme, 2012, pagg. 182, € 
                  15.00) – titolo che evoca Savonarola che si auto considerava 
                  un cane che abbaia e che quindi crea fastidio –, si differenzia 
                  fortemente dagli altri libri scritti in precedenza: questa volta 
                  infatti troviamo 12 letture tratte dal Vangelo e commentate 
                  a suo modo. 
                  Si tratta di alcune delle pagine più “forti”, 
                  quelle che raccontano la storia di prostitute, peccatori, degli 
                  ultimi insomma, gli stessi che sono oggi ai margini della società, 
                  rappresentati dalla nuova folla di barboni, trans, tossici, 
                  migranti, gli stessi che don Andrea incontra e raccoglie sulla 
                  strada da decenni. 
                   Ed 
                  è alla strada, che lui indica come la sua vera università, 
                  che pensa, sperando di risvegliare le coscienze anche attraverso 
                  i libri, proponendo lo stesso messaggio che la Comunità 
                  di San Benedetto, da lui fondata 42 anni fa, tenta di lanciare 
                  quotidianamente. 
                  Quella di Don Gallo è un'adesione completa al messaggio 
                  di Gesù, «nutrire l'affamato, accogliere lo straniero, 
                  vestire l'ignudo, visitare l'ammalato sono atti di giustizia, 
                  ma per Gesù sono anche veri e propri gesti di devozione 
                  e chi li compie è come se rendesse culto a Dio stesso». 
                  Nel “giudizio finale” (Mt 25, 31-46) Gesù 
                  si scaglia contro i qualunquisti, i menefreghisti, si scaglia 
                  e maledice tutti coloro che non lavorano per la giustizia sociale 
                  e per il bene comune, li chiama proprio “maledetti”: 
                  «Il Maestro che ha predicato sempre l'Amore per il Padre 
                  e la misericordia usa tale durezza proprio contro quelli che 
                  definisce “sepolcri imbiancati”, chi esibisce bontà, 
                  devozione, religiosità, ma nella vita quotidiana rimane 
                  indifferente nei confronti di chi è in stato di bisogno, 
                  accumula beni di ogni genere, sfrutta i deboli, non paga le 
                  tasse». 
                  Contro tutti i “perbenismi” che ci portano ad inquietarci 
                  di fronte a manchevolezze altrui e ci tolgono la capacità 
                  di capire che l'unica vera bestemmia contro Dio, spesso perpetrata 
                  proprio da chi si dice “cristiano”, è l'ingiustizia, 
                  la fame, la mancanza per una parte troppo grande di esseri umani 
                  del minimo di risorse per condurre una vita appunto “umana”, 
                  risorse che continuano ad essere nelle mani di pochi. 
                  Accanto al suo vangelo laico, la Costituzione, la grande conquista 
                  della resistenza partigiana resa possibile a prezzo di sangue 
                  e sacrifici, don Gallo ci dice come anche il Vangelo sia fonte 
                  straordinaria per combattere la barbarie odierna, con i suoi 
                  principi di liberà, di giustizia e di fraternità 
                  su cui basare un'etica dei diritti e dei doveri. 
                  Ogni capitolo è accompagnato da vignette di Vauro Senesi, 
                  graffianti e smitizzanti, hanno il pregio di mettere il dito 
                  sulle piaghe che accompagnano la nostra vita di questi ultimi 
                  anni, in chiave satirica e critica, sanno farci ridere, anche 
                  se amaramente, con la stessa incisività che don Andrea 
                  ci dona attraverso le sue parole. 
                  Di qualunque cosa possa essere accusato don Andrea è 
                  certo che “non tace” ed è compagno di tutti 
                  coloro che hanno come obiettivo la liberazione dell'uomo, mettendo 
                  come primo punto il perseguimento della giustizia sociale. 
                   
                  Elisa Rinaldi 
                  
                   
                    
                 Una 
                  sobria 
                  rivoluzione  
                 Sedazione o sedizione? Era il 1981 quando i brani Straight 
                  Edge e Out of step vennero dati alle stampe e il 
                  loro autore (Ian MacKaye della hardcore band di Washington Minor 
                  Threat) non poteva certo immaginare la portata e l'impatto che 
                  quelle parole avrebbero avuto. In quelle parole si coagulava 
                  e prendeva forma una “tensione” che già da 
                  diverso tempo percorreva i circuiti punk: il rigetto dell'equazione 
                  tra ribellione ed abuso di alcol, droghe e promiscuità 
                  sessuale. Un'equazione su cui, a ben pensarci, il movimento 
                  socialista ha riflettuto fin dalle sue origini, ponendosi il 
                  problema della diffusione e dell'abuso di alcool tra i lavoratori. 
                  L'osteria, la birreria, il pub erano luoghi dove abitualmente 
                  il proletariato si riuniva, discuteva e dove magari si decideva 
                  uno sciopero, ma era anche i luoghi dove ci si abbrutiva affogando 
                  nel bicchiere fatiche e umiliazioni. 
                  Nata come strettamente individuale l'opzione “straight 
                  edge” diventa un “movimento”, sebbene estremamente 
                  informale. I diritti degli animali ed il vegetarianesimo/veganesimo 
                  entrano a far parte del suo bagaglio ideologico e ovunque nascono 
                  gruppi e fanzine che si rifanno esplicitamente a quelle idee. 
                  Attraverso interviste a musicisti e attivisti politici, brevi 
                  saggi e manifesti, il libro di Gabriel Kuhn (fondatore della 
                  Alpine Anarchist Productions, curatore di raccolte di scritti 
                  di Landauer e Mühsam ed inserito dagli Stati Uniti nella 
                  No Fly List) ripercorre la storia dello straight edge e punta 
                  i riflettori sulla sua presenza all'interno del più ampio 
                  movimento libertario/autogestionario (non manca però 
                  chi dà dello straight edge una lettura estremamente conservatrice: 
                  gli Hardline, intolleranti, antiabortisti, omofobi, sessuofobi 
                  fino al ridicolo). 
                  All'interno dell'antologia, intitolata Straight Edge XXX 
                  “Storie, filosofia e racconti della scena Hardcore Punk” 
                  (Shake Edizioni, 2011, pagg. 268) risultano particolarmente 
                  interessanti i manifesti Davvero uno spreco: anarchia e alcool 
                  e Verso un mondo meno incasinato: sobrietà e lotte anarchiche. 
                  Entrambi scritti da militanti anarchici, mettono sotto la lente 
                  dello straight edge gli stravizi alcoolici e psicoattivi nelle 
                  rispettive comunità radicali e l'impatto negativo che 
                  questi possono avere sia sulle relazioni interne ai gruppi di 
                  militanti che sulla capacità di essere attivi, creativi 
                  e propositivi verso l'esterno. Straight edge come “via 
                  sobria” alla Rivoluzione? 
                   
                  Igor Ninu 
                  
                   
                    
                
                  
                     
                      |   | 
                     
                     
                      Da sinistra: Massimiliano Loizzi (alla chitarra giocattolo) e Giovanni Melucci (al pianoforte)  | 
                     
                   
                  Teatro 
                  I Mercanti di Storie compiono dieci anni  
                 Nella stagione che segna i 10 anni di attività, i Mercanti 
                  di Storie hanno presentato a Milano al Teatro della Contraddizione 
                  il loro nuovo spettacolo, D'amore e altre rivolte. Scusami 
                  cara ma devo salvare il mondo, di e con Massimiliano Loizzi, 
                  la musica di Giovanni Melucci e la direzione e organizzazione 
                  di Patrizia Gandini. “Una ballata di ordinaria follia 
                  per anime strambe, convinti che quando l'amore è vero 
                  amore, è sempre un atto di rivolta e la rivolta è 
                  sempre un atto d'amore”. 
                  Massimiliano e Patrizia li ho incontrati per la prima volta 
                  qualche anno fa durante uno dei soliti cortei milanesi del 25 
                  aprile. Impossibile non notarli, con il loro grande cartello 
                  con su scritto “L'adunata dei refrattari”, evidente 
                  richiamo al noto periodico anarchico pubblicato per la prima 
                  volta nell'aprile 1922 a New York. Il loro manifesto refrattario, 
                  presentazione allo spettacolo intitolato proprio Radio ovvero 
                  l'Adunata dei Refrattari, così recitava: “In 
                  questi tempi bui e ambigui, dove poche sono le gocce di speranza 
                  e la nostra regina Libertà è in cerca di domicilio... 
                  noi piccolo pugno di comuni gitani, apolidi, terroni, meridionali, 
                  disertori, teatranti, musicanti e stradaroli, ci aduniamo refrattari 
                  alla legge ed al divieto comune di libero pensiero” (http://mercantidistorie.blogspot.it/). 
                  Andai ovviamente a vedere lo spettacolo e da lì non ho 
                  più smesso di seguirli. 
                  A partire da Mi sono arreso a un nano, ispirato alla 
                  vita e alla poesia di Piero Ciampi, a Solo con Abatjour. 
                  Ovvero come ho salvato il mondo, questo consorzio informale 
                  di artisti precari e indipendenti percorre il paese allestendo 
                  spettacoli di teatro canzone, anche in luoghi non convenzionali 
                  come bar e circoli (compreso due feste di sottoscrizione al 
                  settimanale anarchico Umanità Nova all'Ateneo Libertario 
                  di Milano). 
                  I loro spettacoli sono dei veri e propri happening dove satira, 
                  riflessione, intrattenimento, musica, poesia, politica e canzone 
                  convivono, in un'atmosfera capace di coinvolgere il pubblico 
                  facendo sì che non vi siano spettatori passivi ma dando 
                  a ciascuno la possibilità di dire la sua quando vuole. 
                  Rifuggendo il pubblico viziato dei teatri istituzionali, incapace 
                  di meravigliarsi, il loro teatro canzone, comico e poetico, 
                  è coinvolgente ed emozionante allo stesso tempo, fornendo 
                  continui spunti di riflessione attraverso il sorriso, decisamente 
                  contro la comicità ossessiva proposta dalla televisione 
                  italiana e contro la risata fine a se stessa che obnubila i 
                  cervelli. 
                  Ognuno dei loro spettacoli nasce dal desiderio di raccontare 
                  il mondo e i tempi in cui viviamo pur conservando ferma la convinzione 
                  e la ricerca di un altro mondo possibile: l'obiettivo – 
                  racconta Massimiliano – è quello di invitare a 
                  una rivoluzione dei sentimenti, del pensiero e del mondo, appesantire 
                  gli spettatori alleggerendoli, sperando che un giorno – 
                  parafrasando un noto slogan – sarà una risata a 
                  seppellire l'autorità. 
                   
                  Selva Varengo 
                  
                   
                    
                 (In)attualità 
                  di John Cage  
                 Le trasformazioni dei linguaggi artistici nel corso del novecento 
                  – dal cinema alle arti visive, dalla musica all'architettura 
                  – sono state guidate da una volontà di cambiamento 
                  radicale, segnata dalla responsabilità di un mutamento 
                  sociale da parte delle personalità attive in ambito artistico. 
                  Il linguaggio, al di là di quello verbale, si delinea 
                  in ogni sua variante come forma comunicativa tesa alla revisione 
                  dei rapporti di potere: una lettura simile dei cambiamenti culturali 
                  è stata avanzata dalla critica del dopoguerra fino all'affermazione 
                  del ruolo preponderante dell'arte nella società e nei 
                  costumi. 
                  John Cage è uno di quei compositori che hanno sicuramente 
                  operato delle modifiche strutturali, dopo di lui imprescindibili, 
                  nel modo di scrivere e praticare la musica, talmente radicali 
                  da rappresentare un solco tracciato nella storia della cultura 
                  umana e del pensiero. Dalla lettura dei testi scritti di suo 
                  pugno (faccio riferimenti alla raccolta di saggi e conferenze, 
                  Silenzio, Shake 2010, e a Lettera a uno sconosciuto, 
                  Socrates 1996), è presto rintracciabile la matrice filosofica 
                  che si incarna nella sua musica, quella di un vitalismo naturalistico 
                  che, muovendo dal rifiuto dei sistemi compositivi tradizionali 
                  e delle prassi esecutive influenzate dalla notazione e dai costumi 
                  del tempo, giunge all'annichilimento della componente raziocinante 
                  nella definizione delle opere e all'affidamento al caso e all'indeterminazione 
                  per la realizzazione formale dei pezzi. Le scelte linguistiche 
                  compiute da John Cage (che non si limitano solo al più 
                  che noto uso dell'I Ching per la notazione) rientrano 
                  nella loro integrità tra quelle scelte artistiche che 
                  fanno la storia, non solo di un linguaggio, ma anche di una 
                  società. La musica del compositore americano, infatti, 
                  non solo compie un formidabile passo nella storia che dalla 
                  dissoluzione del sistema tonale giunge alla capillare diffusione 
                  di sistemi alternativi, ma agisce direttamente sulle forme di 
                  fruizione dei pezzi, sulle modalità dell'ascolto, sul 
                  ruolo rivestito dai musicisti o dagli ascoltatori, sull'uso 
                  alternativo di strumenti esistenti e sull'uso di strumenti alternativi, 
                  sulla rivalutazione del rumore come elemento timbrico musicale, 
                  sul rapporto tra musica e danza, ecc. 
                   
                  Il linguaggio, se capovolto e rivoluzionato fino a questo punto, 
                  supera il momento di semplice negazione del preesistente e si 
                  impone come novità che afferma se stessa oltre il banale 
                  rifiuto della tradizione: il principio metafisico che la sorregge 
                  non ha la presunzione di dichiararsi canone e ipostatizzazione 
                  linguistica, poiché soggetto esso stesso alla possibilità 
                  di mutamento. 
                  Oggi, in un momento in cui nell'arte regna la legge del nuovo 
                  e in cui l'avanguardia è la direzione unica del fare 
                  cultura, nessuno oserebbe mai di riproporre i dispositivi musicali 
                  di Cage, ma uno sguardo retrospettivo e la conseguente contestualizzazione 
                  del suo lavoro nel tempo in cui ha agito e al quale ha reagito 
                  illuminerebbe sulla portata storica di certe opere. 4'33'' 
                  (1950) è entrato nella storia come il pezzo del silenzio, 
                  quello che sintetizza tutto il pensiero musicale e filosofico 
                  del musicista americano, quello che più di tutti ha generato 
                  critiche spietate ed entusiastiche approvazioni: nell'occasione 
                  della sua esecuzione, David Tudor si sedette di fronte al pianoforte 
                  e gli unici gesti che compì furono la chiusura e l'apertura 
                  della tastiera alla fine di ogni movimento. Si ottenne il silenzio 
                  per un tempo di 4 minuti e 33 secondi, durante il quale non 
                  si ascoltò null'altro che il borbottio e i movimenti 
                  del pubblico, il gesti di Tudor che muoveva il coperchio della 
                  tastiera, un insieme di suoni che non possono essere previsti 
                  ma che al contempo sono oggetto dell'ascolto perché gli 
                  unici che vengono emessi nel tempo in cui si attende l'emissione 
                  di suoni dal pianoforte, che però tacet. Il pezzo 
                  affida al pubblico il ruolo di esecutore imprevisto, anonimo 
                  e soggetto al cambiamento al riproporsi dell'esecuzione, di 
                  parte attiva alla realizzazione di un pezzo che abdica all'incontrastata 
                  autorità di cui ha sempre goduto nella sua forma scritta. 
                  John Cage, inoltre, inventa il concetto di happening 
                  così come si diffonde nel corso degli anni '60, e si 
                  esibisce a fianco di artisti come Merce Cunningham, Robert Rauschenberg 
                  e i Fluxus. 
                  L'esperienza del mondo, inteso come insieme di fenomeni avulsi 
                  dalla gestione intellettualistica dell'essere umano, emerge 
                  come nuovo aspetto strutturale, non solo come messaggio: l'azione 
                  non è razionalmente giustificata, le gerarchie e i rapporti 
                  di potere sono assenti (Henry David Thoreau è un riferimento 
                  nella condotta del musicista ) – ci riferiamo al rifiuto 
                  dell'ascolto frontale in eventi come il Black Mountain Pieces, 
                  1952, o il Musicircus, 1967, in cui chiunque era chiamato 
                  a suonare quel che voleva, contemporaneamente a tutti gli altri, 
                  con l'obiettivo di sentire la diversità come armonia. 
                  Ai cent'anni dalla sua nascita, ai sessant'anni dalla composizione 
                  di 4'33'', ci uniamo entusiasti ai tributi e ai plausi 
                  a John Cage. 
                   
                  Livio Giuliano 
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