dossier Piazza 
                  Fontana & dintorni  
                5. Il volo di Pinelli  
                Tra i militanti dell'estrema sinistra fermati la sera del 12 
                  dicembre c'era Giuseppe Pinelli. 
                  Pinelli era un esponente di spicco del movimento anarchico milanese 
                  e uno dei principali animatori del Circolo anarchico «Ponte 
                  della Ghisolfa». Era membro attivo della «Croce 
                  nera», organismo creato nell'aprile 1969, sull'esempio 
                  dell'inglese Anarchist Black Cross, per aiutare gli anarchici 
                  in carcere. 
                
                   
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                    La 
                        sede anarchica di via Scaldasole  | 
                   
                 
                 Pinelli faceva il ferroviere. La mattina del 12 dicembre era 
                  rientrato a casa alle 6:00 dopo aver fatto il turno di notte, 
                  come manovratore allo scalo della stazione di Porta Garibaldi. 
                  La moglie Licia si era svegliata un'ora dopo, aveva accompagnato 
                  le figlie a scuola ed era andata a fare la spesa. Verso le 11:00 
                  stava facendo le pulizie quando arrivò a casa un conoscente 
                  del marito che a lei piaceva poco: Nino Sottosanti, personaggio 
                  ambiguo, amico di estremisti di destra, ex volontario della 
                  legione straniera, ammiratore di Benito Mussolini e conosciuto 
                  nell'ambiente come «Nino il fascista». Licia Pinelli 
                  uscì poi per andare a prendere le figlie a scuola. Quando 
                  rientrò trovò il marito che parlava con Sottosanti 
                  di Tito Pulsinelli, che con altri giovani anarchici era in prigione 
                  per gli attentati del 25 Aprile. 
                  Sottosanti poteva fornire un alibi a Pulsinelli. L'uomo si era 
                  infatuato del giovane anarchico e la notte dell'attentato l'avevano 
                  passata insieme. 
                  Pinelli staccò per Sottosanti un assegno di 15.000 lire 
                  come rimborso delle spese di viaggio sostenute per venire a 
                  Milano da Piazza Armerina e testimoniare a favore di Pulsinelli. 
                  I due bevvero poi un caffè in un bar poco lontano, e 
                  Sottosanti se ne andò per riscuotere l'assegno. 
                  Alcuni avventori del bar, Mario Magni, Mario Pozzi, Luigi Palombino 
                  e Mario Stracchi, sostennero che Pinelli aveva giocato a carte 
                  con loro dalle 15-15:30 fino alle 17-17:30, confermando l'alibi 
                  fornito poi da Pinelli alla Polizia. Il giudice istruttore Gerardo 
                  D'Ambrosio, nella sentenza del 27 ottobre 1975, sostenne che 
                  i testimoni si erano confusi con il giorno precedente. 
                  Comunque sia, tra le 17:00 e le 18:00 Pinelli si recò 
                  al circolo Ponte della Ghisolfa, in Piazzale Lugano 31. Lì 
                  incontrò Ivan Guarnieri e altri due giovani anarchici, 
                  Ester Bartoli e Paolo Stefani. 
                
                   
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                    La 
                        sede anarchica del Ponte della Ghisolfa  | 
                   
                 
                 Poco prima delle 19:00, in sella al suo motorino Benelli da 
                  48 cc., Pinelli arrivò al circolo di via Scaldasole, 
                  una sede anarchica aperta da poco, in un seminterrato di un 
                  antico caseggiato fatiscente, vicino a Porta Ticinese: doveva 
                  incontrarsi con Sergio Ardau per aiutarlo a fare qualche lavoretto 
                  di restauro. Ma quando Pinelli arrivò, Ardau non era 
                  solo: c'erano tre poliziotti guidati dal commissario della squadra 
                  politica Luigi Calabresi, che si rivolse a Pinelli dicendogli 
                  di seguirli in questura con il suo motorino. 
                  Arrivato in questura, Pinelli fu interrogato una prima volta 
                  intorno a mezzanotte. 
                  Sabato 13 dicembre 1969 Ardau fu trasferito al carcere di San 
                  Vittore, mentre Pinelli restò in questura. Entro le 19:00 
                  di domenica 14 dicembre la polizia avrebbe dovuto decidere la 
                  sua posizione. Il fermo di polizia poteva protrarsi fino a quarantotto 
                  ore a partire dal momento in cui veniva notificato. Oltre i 
                  due giorni il fermato doveva o essere trasferito in carcere 
                  o rimesso in libertà. 
                  Pinelli, invece, restò in questura fino alla mezzanotte 
                  tra il 15 e il 16 dicembre, quando precipitò da una finestra 
                  del quarto piano di via Fatebenefratelli: il suo fu dunque un 
                  fermo illegale. 
                  La mattina del 14 dicembre un agente telefonò a casa 
                  di Pinelli dicendo alla moglie di comunicare alle ferrovie che 
                  il marito era malato. 
                
                   
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                    Milano, 
                        20 dicembre 1969 
                        I funerali di Giuseppe Pinelli  | 
                   
                 
                 Alle 9:30 di lunedì 15 l'anarchico ricevette una visita 
                  dalla madre, Rosa Malacarne, che lo trovò tranquillo. 
                  Ma verso le 14:30 dello stesso giorno la moglie Licia ricevette 
                  un'altra telefonata dall'ufficio politico con la quale le si 
                  chiedeva di dire alle ferrovie che il marito era fermato in 
                  attesa di accertamenti. Il clima si faceva più pesante: 
                  si cercava di intimidire Pinelli minacciandolo indirettamente 
                  di fargli perdere il posto di lavoro. 
                  Alle 22:30 lo stesso Calabresi telefonò per chiedere 
                  il libretto chilometrico, il documento su cui venivano annotati 
                  i viaggi di ogni ferroviere. I poliziotti cercavano di coinvolgerlo 
                  negli attentati ai treni della notte tra l'8 e il 9 agosto. 
                  Gli interrogatori miravano a trovare, attraverso Pinelli, un 
                  collegamento tra gli attentati del 12 dicembre e la precedente 
                  catena di atti terroristici. Per il suo ruolo centrale al circolo 
                  anarchico e per i contatti che intratteneva non solo nell'area 
                  anarchica, ma anche con numerosi esponenti della nuova sinistra, 
                  gli inquirenti credevano che Pinelli rappresentasse un tassello 
                  importante nelle indagini. 
                  L'ultimo interrogatorio di Pinelli avvenne nell'ufficio di Calabresi 
                  intorno alle 19:00 del 15 dicembre, secondo la ricostruzione 
                  del giudice D'Ambrosio. 
                
                 Un punto su cui insistettero gli interrogatori era il rapporto 
                  tra Pinelli e Valpreda, soprattutto dopo che quest'ultimo era 
                  stato fermato e trasferito a Roma. 
                
                   
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                    Il 
                        processo in Pretura a Roma  | 
                   
                 
                 Valpreda non faceva parte del gruppo Ponte della Ghisolfa, 
                  o almeno non più. Era stato proprio Pinelli a buttarlo 
                  fuori dal circolo. 
                  Pinelli stesso fece mettere a verbale: «La sera del 7 
                  o dell'8 ottobre scorso [...] dissi a Valpreda che non lo stimo 
                  in quanto nella zona di Brera avevo raccolto delle voci abbastanza 
                  strane che lo davano come autore di vari attentati in quanto 
                  lui stesso si era vantato della cosa. Il Valpreda negò 
                  di essersi vantato e disse di essere venuto a Milano anche per 
                  sfatare queste dicerie». I rapporti tra Pinelli e Valpreda 
                  si erano raffreddati completamente. 
                  Ma la polizia cercò di insinuare in Pinelli il dubbio 
                  che il ballerino potesse essere colpevole e addirittura Calabresi, 
                  nell'ultimo interrogatorio, a quanto parrebbe esordì 
                  dicendo che Valpreda aveva confessato. 
                
                   
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                    Rachele 
                        Torri, prozia di Pietro Valpreda  | 
                   
                 
                 Era la mezzanotte del 15 dicembre, il cronista dell'«Unità» 
                  Aldo Palumbo aveva appena lasciato la sala stampa della questura. 
                  Era nel cortile quando sentì tre tonfi: qualcosa che 
                  sbatteva contro i cornicioni dei vari piani. Accorse e vide 
                  un uomo per terra nell'aiuola. Era Giuseppe Pinelli, ma il cronista 
                  ancora non lo sapeva, nessuno ancora lo sapeva. Subito corse 
                  a chiamare agenti e colleghi. 
                  La giornalista Camilla Cederna, dopo essere stata avvisata del 
                  fatto, si recò all'ospedale Fatebenefratelli, dove l'uomo 
                  era stato trasportato. Giunta sul posto trovò un gruppetto 
                  di poliziotti che non la lasciarono passare. Ad un tratto gli 
                  si fece incontro il medico capoturno, Nazzareno Fiorenzano, 
                  che riferì che oramai per Pinelli non c'era niente da 
                  fare. 
                  Poco dopo in questura fu organizzata una conferenza stampa per 
                  spiegare ai giornalisti la dinamica dei fatti, ma nessuna autorità 
                  si preoccupò di avvisare la famiglia di Giuseppe Pinelli. 
                  La moglie Licia era già a letto e non sapeva ancora cosa 
                  era successo al marito. All'una e cinque di quella stessa notte 
                  le suonarono al campanello. Erano due giornalisti del «Corriere 
                  della Sera», i quali le dissero che doveva essere successa 
                  una disgrazia a suo marito. 
                  La donna si attaccò al telefono e chiamò la questura 
                  per avere notizie. Le rispose lo stesso Calabresi che le riferì 
                  che suo marito si trovava all'ospedale Fatebenefratelli. Chiedendo 
                  perché non l'avessero avvisata, si sentì rispondere: 
                  «Ma sa, signora, abbiamo molto da fare». 
                  La mamma del ferroviere, Rosa, si precipitò all'ospedale. 
                  Era pieno di poliziotti, tutti correvano freneticamente e nessuno 
                  le diede retta. 
                  Intanto nel palazzone della questura milanese si era tenuta 
                  la conferenza stampa che aveva impegnato così tanto i 
                  questurini da non lasciare tempo nemmeno per una telefonata 
                  ai parenti di Pinelli. 
                  Erano presenti il commissario Luigi Calabresi, il tenente dei 
                  carabinieri Savino Lograno, il questore Marcello Guida, già 
                  direttore del confinario fascista di Ventotene, e il capo dell'ufficio 
                  politico Antonino Allegra. 
                
                   
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                    Licia 
                        Pinelli durante un'udienza del processo Calabresi / “Lotta 
                        Continua”  | 
                   
                 
                 I giornalisti presenti cominciarono a far domande su Pinelli 
                  e su come si erano svolti i fatti e il questore rispose che 
                  Pinelli era fortemente indiziato di concorso in strage, che 
                  il suo alibi era crollato, che il ferroviere anarchico, vistosi 
                  perduto, si era suicidato, e che il suicidio era una specie 
                  di autoaccusa. Nessuno dei presenti smentì le parole 
                  del questore. 
                  Qualcuno chiese se era fermato o arrestato. La risposta fu che 
                  il suo era un fermo di polizia convalidato dall'autorità 
                  giudiziaria. Ma anche il magistrato incaricato delle indagini, 
                  Ugo Paolillo, non ne sapeva nulla. 
                  Il mattino dopo sui giornali comparve la versione della questura: 
                  Pinelli si era lanciato intorno alle 23:50, nell'ultimo interrogatorio 
                  il dottor Calabresi gli aveva rivolto contestazioni piuttosto 
                  precise e lui era sbiancato in volto, il commissario se n'era 
                  andato per riferire ad Allegra e, nonostante i cinque uomini 
                  presenti nella stanza, Pinelli aveva spiccato un balzo felino 
                  buttandosi nel vuoto. 
                  L'ufficio dove Pinelli fu interrogato non era molto grande. 
                  Misurava 3,56 metri per 4,40 metri. La porta si apriva su una 
                  delle due pareti più corte e la finestra-balcone (che 
                  misurava 1,50 metri) s'apriva sul lato opposto. La porta-finestra, 
                  munita di una balaustra in ferro a filo di muro, esterna ai 
                  vetri, alta 92 cm, s'apriva all'interno. L'arredamento del locale 
                  era composto da una scrivania, un tavolino porta telefono, uno 
                  scaffale per la macchina da scrivere, uno scaffale porta riviste, 
                  uno schedario, un termosifone, un attaccapanni, una poltroncina 
                  e quattro sedie. 
                  Al momento del «balzo» erano presenti il tenente 
                  dei carabinieri Savino Lograno, tra la porta e la scrivania, 
                  i due sottufficiali Carlo Mainardi e Vito Panessa, vicino alla 
                  finestra, Giuseppe Caracuta alla macchina da scrivere e Pietro 
                  Mucilli accanto ad un mobiletto. Calabresi si era momentaneamente 
                  assentato per portare un verbale ad Allegra. 
                  Nell'ufficio c'erano quindi cinque persone, oltre a Pinelli, 
                  e nessuno era riuscito a fermare il suo «balzo» 
                  nonostante lo spazio ridotto e ingombro di mobili. 
                
                   
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                    Il 
                        commissario Luigi Calabresi durante il processo da lui 
                        intentato contro “Lotta Continua”  | 
                   
                 
                 La tesi del suicidio si basava su due motivi: che il suo alibi 
                  fosse miseramente caduto e che Pinelli fosse crollato psicologicamente 
                  alla notizia della confessione di Valpreda. Ma entrambe le motivazioni 
                  erano facilmente confutabili. L'alibi non era crollato in quanto 
                  diversi testimoni avevano confermato la sua versione. Se poi 
                  avevano detto che Valpreda era colpevole, non era certo il tipo 
                  di notizia che potesse sconvolgere Pinelli in quanto i rapporti 
                  tra i due, come già detto, non erano dei migliori. 
                  Ci sono poi molti particolari tecnici che riguardano il modo 
                  di cadere di un suicida che si getta dall'alto. Non comparivano 
                  graffi sulle mani, che nel volo pare si aggrappino inconsapevolmente 
                  a qualsiasi sporgenza. Non si avvertirono urla, che nella maggior 
                  parte dei casi escono involontariamente dalla gola del suicida. 
                  Anche il modo di cadere era inusuale perché il corpo 
                  non seguì la traiettoria curva dovuta allo slancio indispensabile 
                  a chi si butta dall'alto. Fu invece un cadere che produsse tre 
                  tonfi sordi: uno contro il primo cornicione, l'altro contro 
                  il secondo e infine lo schianto al suolo. Aldo Palumbo disse 
                  di aver pensato che stessero buttando uno scatolone dalla finestra. 
                  Quindi l'impressione è che a cadere sia stato un corpo 
                  già privo di sensi. Gli stessi medici furono stupiti 
                  che non vi fosse sangue che fuoriusciva dal naso e dalla bocca. 
                  A questo punto diversi quotidiani si sentono autorizzati ad 
                  avvalorare le tesi più diverse. Una fu quella dell'incidente 
                  sul lavoro, ovvero che i poliziotti, entrati nella fase calda 
                  dell'interrogatorio, avessero picchiato l'anarchico per costringerlo 
                  a dire qualcosa. 
                  Sull'«Avanti!» comparve la tesi che il ferroviere, 
                  colpito da un fatale colpo di karatè, si rialzasse per 
                  prendere una boccata d'aria e precipitasse nel vuoto. Un'altra 
                  ipotesi, suggerita dall'agenzia «In», fu che Pinelli, 
                  subito dopo l'interrogatorio di Calabresi, fosse stato stroncato 
                  da un infarto. 
                  
                 Scritte comparse allora sui muri di Milano dimostravano che 
                  la teoria del suicidio non era più credibile: «Calabresi 
                  assassino», «Pinelli innocente. Hanno suicidato 
                  Pinelli». 
                  Alcuni testimoni affermarono di aver sentito Calabresi minacciare 
                  Pinelli già in altre occasioni. Una volta, insieme al 
                  responsabile della squadra politica Allegra, gli avrebbe detto: 
                  «Noi possiamo metterti dentro anche se attraversi la strada 
                  con il rosso». 
                  In settembre, durante un picchettaggio davanti a San Vittore 
                  per chiedere la liberazione degli anarchici accusati delle bombe 
                  del 25 Aprile, Calabresi si avvicinò a Pinelli e dopo 
                  uno scambio di battute avrebbe esclamato: «Te la faremo 
                  pagare», ricordò Cesare Vurchio. 
                  Valitutti sostenne inoltre di aver sentito Calabresi dare ordini 
                  affinché Pinelli non fosse lasciato dormire e fosse tenuto 
                  sotto pressione tutta la notte. 
                  Il 27 dicembre la madre e la vedova, quest'ultima anche a nome 
                  delle due figlie, presentarono un atto di denuncia e di querela 
                  nei confronti del questore Marcello Guida per diffamazione continua 
                  aggravata dall'abuso delle pubbliche funzioni. Sotto accusa 
                  frasi come: «È stato coerente con i suoi principi. 
                  Se fossi stato in lui avrei fatto la stessa cosa. Quando ha 
                  visto che la legge lo aveva preso si è tolto la vita»; 
                  «è stato come un cupio dissolvi ... Non vorrete 
                  pensare che l'abbiamo gettato noi ...». 
                  Ma il giudice Amati depositò un verbale di archiviazione 
                  accogliendo le richieste del pubblico ministero Giovanni Caizzi. 
                  Contro questa decisione si schierarono uomini di cultura ed 
                  esponenti politici democratici con un appello pubblicato sull'«Espresso». 
                  In esso si sollecitava la ripresa di un aperto dibattito su 
                  tutta la questione. 
                  Amati rese nota la sua decisione il primo giorno di un lungo 
                  sciopero dei giornali, una settimana di silenzio della stampa. 
                  A sciopero ultimato la notizia uscì in cinque righe: 
                  una notizia stantia, non più di attualità. 
                  
                 Sui muri di Milano comparvero nuove scritte contro la polizia. 
                  Addirittura la targhe stradali in via Brera erano state sostituite: 
                  da una parte si leggeva via Valpreda e dall'altra via Pinelli. 
                  Il giudice Amati nel decreto d'archiviazione sul caso Pinelli 
                  sostenne che non esistevano gli estremi per promuovere l'azione 
                  penale. Convalidò la tesi della polizia basandosi esclusivamente 
                  sulla deposizione dei suoi funzionari. Ma nel decreto di archiviazione 
                  comparivano delle incongruenze. Le prime affermazioni indicavano 
                  mezzanotte come orario dell'interrogatorio, l'ufficio di Calabresi 
                  il luogo, «Valpreda ha parlato!» l'annuncio di Calabresi, 
                  «È la fine dell'anarchia!» la risposta di 
                  Pinelli, che con uno «scatto felino» si sarebbe 
                  lanciato dalla finestra. Ora, a distanza di sei mesi, molti 
                  punti cambiavano: la frase su Valpreda, dichiarava Calabresi, 
                  lui l'aveva detta a Pinelli verso le 20:00; sentendola l'anarchico 
                  si era turbato ed era uscito in quella esclamazione, ma non 
                  si era buttato. 
                  Il brigadiere Vito Panessa, dopo due deposizioni contraddittorie, 
                  interrogato una terza volta per chiarire i fatti disse: «Ho 
                  fatto sì certe ammissioni, naturalmente le confermo, 
                  però adesso le cambio». 
                  La polizia sostenne che al momento del volo Pinelli era in perfette 
                  condizioni fisiche. Il tenente Lograno, che si trovava nell'ufficio 
                  di Calabresi, disse di aver udito l'anarchico, dopo il volo 
                  dal quarto piano, esclamare: «Ah, che dolore! Sto male, 
                  sto male!». Invece i giornalisti accorsi nel cortile della 
                  questura affermarono che Pinelli rantolava senza proferire parola. 
                  Queste contraddizioni non furono prese in considerazione da 
                  Amati. 
                  
                 Al caso Pinelli si intrecciò la vicenda del settimanale 
                  «Lotta continua». Dal 14 Gennaio 1970 il settimanale 
                  pubblicò vignette o articoli che riguardavano il commissario 
                  Calabresi. Ogni volta lo accusavano di aver scaraventato l'anarchico 
                  dal quarto piano di via Fatebenefratelli. 
                  Nonostante le continue provocazioni il commissario non querelò 
                  subito il giornale. Calabresi non ne aveva nessuna intenzione 
                  perché meno si esponeva e meglio era oppure stava solo 
                  temporeggiando perché nell'aria vi era la notizia dell'archiviazione 
                  dell'istruttoria? 
                  In tal caso Calabresi avrebbe potuto presentarsi al processo 
                  praticamente già assolto dall'imputazione di omicidio. 
                  Il 20 Aprile Calabresi si decise a sporgere denuncia per diffamazione 
                  continuata ed aggravata dall'attribuzione di un fatto determinato, 
                  contro Pio Baldelli, il direttore responsabile di «Lotta 
                  continua». 
                  L'intenzione di Lotta continua era chiara: trasformare il processo 
                  per diffamazione in un'istruttoria pubblica sul caso Pinelli. 
                  I legali di Baldelli, Marcello Gentili e Bianca Guidetti Serra, 
                  erano decisi a chiedere al tribunale di acquisire tutte le prove, 
                  sentire testimoni e raccogliere elementi necessari a chiarire 
                  la morte del ferroviere. 
                  Il 9 ottobre 1970 si aprì il processo presieduto dal 
                  giudice Biotti. 
                  Quella mattina, all'interno del palazzo di giustizia, un carabiniere 
                  strappò da una colonna un manifesto con la testa di un 
                  criminale, baffetti alla Hitler e svastica in fronte. «WANTED» 
                  c'era scritto sopra e sotto si spiegava quale sarebbe stata 
                  la ricompensa per chi avesse catturato vivo o morto Calabresi. 
                  All'esterno del palazzo la zona di Porta Vittoria era blindata: 
                  c'erano file di gipponi, decine di autopompe, agenti in tenuta 
                  antisommossa. 
                  
                 Il clima era tesissimo anche dentro al palazzo di giustizia. 
                  Studenti e anarchici si erano dati appuntamento per assistere 
                  al processo e affollavano gli ampi corridoi perché l'aula 
                  era piena. Intonarono l'internazionale durante il primo intervento 
                  di Baldelli, gridarono cori contro Calabresi e chi era in aula 
                  non poté fare a meno di sentire i rumori provocati dalle 
                  cariche della polizia all'esterno. 
                  Le dichiarazioni di Calabresi e degli altri presenti nel suo 
                  ufficio la notte del 15 dicembre 1969 mostrarono uno scenario 
                  completamente diverso da quello delineato nella prima conferenza 
                  stampa tenuta in questura: Pinelli appariva sereno e disteso 
                  in quanto non vi erano accuse a suo carico e non gli erano state 
                  mosse contestazioni. 
                  Si mostrarono tutti d'accordo sul suo buon umore probabilmente 
                  per evitare di essere accusati di istigazione al suicidio o 
                  addirittura di omicidio colposo. 
                  Nessuno dei presenti vide come l'anarchico aveva spiccato il 
                  salto, anche se nella versione data a Caizzi molti avevano parlato 
                  di «salto», «lancio», «scatto 
                  felino», «balzo repentino verso la finestra». 
                  Lograno disse di essersi distratto, di aver sentito solo un 
                  gran rumore di legno sbattuto, allora lo sguardo era tornato 
                  alla finestra, che era completamente spalancata. Inquadrate 
                  al centro, nel vuoto, le suole di Pinelli. Allora il tenente 
                  dei carabinieri gridò: «Si è buttato, si 
                  è buttato!». 
                  Caracuta stava riordinando dei fogli, si voltò sentendo 
                  il rumore dell'anta e vide il brigadiere Panessa che si sporgeva 
                  per afferrare qualcosa. 
                  Carlo Mainardi raccontò che il ferroviere, messa la mano 
                  nello spiraglio tra le due ante, di colpo ne sbatté in 
                  faccia una allo stesso poliziotto e si lanciò. Non poté 
                  fare nient'altro che cercare di «cinturare» il brigadiere 
                  che si era sporto per cercare di afferrarlo. 
                  Lo stesso Panessa, che dopo l'accaduto aveva più volte 
                  parlato di «scatto felino», disse che sentì 
                  Pinelli dare un colpo all'anta e poi volò giù, 
                  sfiorandolo con un piede, che vide nel momento in cui si voltò. 
                  Il brigadiere, a un certo punto del processo, arrivò 
                  a usare l'espressione «versione concordata», per 
                  indicare la dichiarazioni fatte a Caizzi, ma dopo un ammonimento 
                  di Biotti («lei parla troppo»), si corresse parlando 
                  di uno scambio di idee. 
                  La difesa di Baldelli ottenne un sopralluogo nella stanza in 
                  cui venne interrogato Pinelli. Lo spazio era decisamente ridotto 
                  rispetto a una piantina mostrata in precedenza, perché 
                  i periti incaricati avevano ridotto le dimensioni dell'arredo 
                  presente nella stanza. 
                  Venne chiesto di poter visionare il registro dei fermati, che 
                  confermò l'illegittimità del fermo del ferroviere, 
                  ma comparve anche una raccapricciante annotazione fatta da un'anonima 
                  guardia: alle ore 12:00 del 17 Dicembre Pinelli risultava messo 
                  in libertà, mentre era già morto da quasi trentasei 
                  ore. 
                  Importante per chiarire il clima dell'interrogatorio fu la testimonianza 
                  di Valitutti. Egli, che al momento del volo si trovava nel corridoio 
                  adiacente all'ufficio, dichiarò di aver sentito un rumore 
                  come di oggetti che si urtavano tra loro un quarto d'ora o mezz'ora 
                  prima della caduta. 
                  I difensori chiesero una nuova perizia per stabilire se Pinelli, 
                  quando precipitò dalla finestra, era già in stato 
                  di incoscienza; il che escluderebbe il suicidio. 
                  Tale richiesta venne avanzata perché l'accertamento svolto 
                  nell'inchiesta di Caizzi era assolutamente insufficiente per 
                  stabilire le cause della morte e inoltre era stata trascurata 
                  una lesione riscontrata alla base del collo (quella che diede 
                  origine alla teoria del colpo di karatè). 
                   Furono 
                  così convocati periti esperti per accertare le cause 
                  della macchia ovulare alla base del collo. Però dovettero 
                  eseguire la perizia solo sulla carta utilizzando i verbali, 
                  le fotografie del cadavere e le valutazioni dei primi esperti 
                  intervenuti. 
                  Ma dall'analisi di questi documenti emerse ben poco: secondo 
                  i periti della parte civile la macchia ovulare era dovuta alla 
                  lunga permanenza sul tavolo dell'obitorio, mentre quelli della 
                  difesa non esclusero che si trattasse di un colpo di karatè. 
                  Gli avvocati di Baldelli chiesero una perizia completa che avesse 
                  come base i resti della vittima, previa riesumazione, tutti 
                  i reperti che si trovavano all'Istituto di medicina legale e 
                  tutti i rilievi raccolti dal tribunale. 
                  Il tribunale concesse la riesumazione, andando contro un'agguerrita 
                  parte civile. 
                  Ma a questo punto vi fu un colpo di scena. L'avvocato di Calabresi, 
                  Michele Lerner, ricusò il giudice Biotti. 
                  Lerner sostenne che, in seguito ad un colloquio privato, Biotti 
                  gli aveva confidato che alcuni giudici avevano fatto pressioni 
                  su di lui perché assolvesse Baldelli e che tanto lui 
                  che gli altri giudici erano convinti che il colpo di karatè 
                  fosse stato inferto a Pinelli provocandogli la lesione del bulbo 
                  spinale. Il giudice negò di aver mai riferito una cosa 
                  del genere a Lerner. 
                  Alla fine la tomba restò chiusa e il 7 giugno 1971 la 
                  Corte d'Appello rimosse il giudice dall'incarico, accettando 
                  la ricusazione; e il processo si arenò definitivamente. 
                  Ma la vedova dell'anarchico non si arrese e il 24 Giugno, tramite 
                  i suoi legali, chiese la riapertura dell'istruttoria e l'incriminazione 
                  di tutti i poliziotti coinvolti per i reati di omicidio volontario, 
                  violenza privata, sequestro di persona, abuso d'ufficio e abuso 
                  d'autorità. 
                  La procura generale decise di riaprire l'istruttoria e il fascicolo 
                  fu assegnato al magistrato Gerardo D'Ambrosio che come prima 
                  cosa, a distanza di ventuno mesi dalla morte dell'anarchico, 
                  fece sequestrare la cartella clinica, ignorata dall'inchiesta 
                  precedente. 
                  Fu sequestrato alla Vigilanza Urbana il registro delle chiamate 
                  delle autoambulanze richieste dalla questura, un documento che 
                  avrebbe dovuto essere in mano alle autorità il giorno 
                  dopo la morte di Pinelli. 
                  Il 5 ottobre 1971 D'Ambrosio inviò sei avvisi di reato 
                  contro Luigi Calabresi, e i sottufficiali di Pubblica Sicurezza 
                  Panessa, Caracuta, Mainardi, Mucilli e il capitano dei carabinieri 
                  Lograno. 
                  Il 21 ottobre la salma dell'anarchico venne finalmente riesumata, 
                  ma ormai era difficile scoprire qualcosa visto l'avanzato stato 
                  di decomposizione. Comunque emersero due nuove fratture. 
                  La sentenza finale, emessa il 27 ottobre del 1975, escluse l'ipotesi 
                  dell'omicidio volontario, ma anche quella del suicidio. Questa 
                  sentenza individuò la causa della morte di Pinelli nel 
                  cosiddetto «malore attivo»: per fumare una sigaretta 
                  Pinelli si avvicinò alla finestra, la aprì e «una 
                  improvvisa vertigine, un atto di difesa nella direzione sbagliata, 
                  il corpo ruota sulla ringhiera e precipita nel vuoto». 
                  D'Ambrosio prosciolse tutti gli imputati perché «la 
                  mancanza di prove che un fatto è avvenuto equivale nel 
                  nostro sistema processuale [...] alla prova che un fatto non 
                  è avvenuto». Calabresi, non più commissario 
                  aggiunto, ma capo, era morto da tre anni: ucciso a colpi di 
                  pistola il 17 maggio 1972. 
                  Quando ricordiamo i fatti del 12 dicembre non possiamo ignorare 
                  la vicenda dell'anarchico Pinelli. Ancora oggi la questione 
                  rimane controversa, come dimostrano anche le due lapidi presenti 
                  in Piazza Fontana. 
                  Su una, quella posta dalle autorità, si legge: «A 
                  Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico, innocente morto tragicamente, 
                  nei locali della questura di Milano, il 15-12- 1969». 
                  Sull'altra, collocata nella piazza dai compagni del ferroviere, 
                  c'è scritto: «A Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico, 
                  ucciso innocente nei locali della questura di Milano, il 16-12-1969». 
                  Questa porta la firma degli studenti e dei democratici milanesi. 
                  Nel 2009 il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, 
                  ha invitato la vedova e le figlie dell'anarchico Pinelli tra 
                  i familiari delle vittime del terrorismo e delle stragi. 
                  Ecco le parole con cui Napolitano, in questa occasione, ricorda 
                  il ferroviere: «Ricordare la strage di Piazza Fontana 
                  a Milano e con essa l'avvio di un'oscura strategia della tensione, 
                  come spesso fu chiamata, significa ricordare una lunga e tormentatissima 
                  vicenda di indagini e di processi, da cui non si è riusciti 
                  a far scaturire una esauriente verità giudiziaria [...]. 
                  Rispetto ed omaggio dunque per la figura di un innocente, Giuseppe 
                  Pinelli, che fu vittima due volte, prima di pesantissimi infondati 
                  sospetti e poi di un'improvvisa, assurda fine [...]. Qui si 
                  compie un gesto politico e istituzionale, si rompe il silenzio 
                  su una ferita, non separabile da quella dei diciassette che 
                  persero la vita a Piazza Fontana, e su un nome, su un uomo, 
                  di cui va riaffermata e onorata la linearità, sottraendolo 
                  alla rimozione e all'oblio. Grazie signora Pinelli, grazie per 
                  aver accettato, lei e le sue figlie, di essere oggi con noi 
                  ...».  
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