|  
                 
 ANARCHISMO  
Le “élite” anarchiche viste da Errico Malatesta  
di Davide Turcato  
 
Nella sua concezione della relazione fra minoranze coscienti e masse Malatesta coniugava integrità dei principi e pragmatismo. “Bisogna tendere a ciò che si vuole, facendo quel che si può”. 
                 
                   
                  Vi sono tre temi rispetto ai 
                  quali la questione delle élite è rilevante per 
                  l'anarchismo. Il primo è quello della struttura interna, 
                  o dell'assenza di struttura, del movimento anarchico. Il secondo, 
                  che potremmo chiamare il tema delle “avanguardie”, 
                  è quello della relazione del movimento anarchico coi 
                  più ampi movimenti sociali al suo esterno. Questa questione 
                  si estende alla futura società post-rivoluzionaria, mettendo 
                  in discussione la possibilità stessa di una società 
                  anarchica nella quale non si formi alcuna classe dominante. 
                  Quest'ultimo è il terzo tema fondamentale rispetto al 
                  quale l'elitismo è rilevante per l'anarchismo. 
                  Ciascun tema è legato agli altri due in una relazione 
                  triangolare: i primi due compongono, completandosi a vicenda, 
                  la discussione dell'azione presente degli anarchici. Il tema 
                  delle avanguardie, come già accennato, è a maggior 
                  ragione rilevante nella società post-rivoluzionaria. 
                  Infine, la questione dell'elitismo come fenomeno pertinente 
                  a qualsiasi organizzazione mette in discussione la possibilità 
                  dell'egalitarismo tanto nelle formazioni anarchiche quanto in 
                  società ampie e complesse. 
                  Le questioni di teoria e tattica anarchica sono spesso presentate 
                  come problemi di “quadratura del cerchio”, in cui 
                  le vie praticabili sono precluse dai principi anarchici e quelle 
                  ammesse sono irrealizzabili: così è per i dilemmi 
                  fra riforma e rivoluzione, coercizione e persuasione, organizzazione 
                  e spontaneità. La questione dell'azione collettiva non 
                  fa eccezione. L'azione da parte di minoranze anarchiche appare 
                  essenzialmente elitista e in ultima analisi autoritaria, mentre 
                  l'azione da parte di masse anarchiche appare disperatamente 
                  improbabile. 
                  Per far luce sulla questione, discuterò le idee di uno 
                  dei massimi rappresentanti del movimento anarchico, Errico Malatesta. 
                  Queste idee offrono un importante punto di vista dall'interno 
                  di quel movimento. In contrapposizione allo stereotipo impossibilista 
                  dell'anarchico come innocuo sognatore o bombarolo scriteriato, 
                  Malatesta è stato tanto un uomo d'azione quanto un autore 
                  apprezzato per il suo buon senso. Come mostrerò, nella 
                  sua teoria e prassi i corni apparentemente inconciliabili del 
                  dilemma dell'azione collettiva diventano le due metà 
                  complementari di una visione dinamica e coerente del mutamento 
                  sociale. 
                  Esistono molte versioni della teoria nota come “elitismo”. 
                  Il mio termine di riferimento saranno le versioni classiche, 
                  specialmente quella proposta da Roberto Michels nella Sociologia 
                  del partito politico (Bologna, 1966), dove viene enunciata 
                  la famosa “legge ferrea dell'oligarchia”: “L'organizzazione 
                  è di per se stessa la causa del predominio degli eletti 
                  sugli elettori, dei mandatari sui mandanti, dei delegati sui 
                  deleganti”. Il formarsi di oligarchie è “una 
                  tendenza a cui soggiace necessariamente ogni organizzazione” 
                  (p. 523). 
                  La caratterizzazione delle “élite” richiede 
                  come sua antitesi la caratterizzazione delle “masse”. 
                  Queste sono le due facce complementari di ogni versione dell'elitismo. 
                  In questa dicotomia, le masse sono solitamente descritte come 
                  prive di coscienza, apatiche e disorganizzate – in 
                  breve, come prive di una vera capacità di agire. Tale 
                  caratterizzazione delle masse, che potrebbe essere giudicata 
                  poco lusinghiera, per gli elitisti era semplicemente realistica. 
                
                   
                     
  | 
                   
                  
                    Errico 
                        Malatesta  | 
                   
                 
                   Ma 
                  Malatesta non era un “elitista” 
                 Anche Malatesta aveva una visione disincantata delle masse. 
                  Si può affermare infatti che egli condividesse senza 
                  problemi buona parte della componente sociologica e puramente 
                  descrittiva dell'elitismo. Tale visione realistica era stata 
                  raggiunta a prezzo di dure esperienze. Attraverso la fase della 
                  Prima Internazionale e i loro primi tentativi insurrezionali, 
                  gli anarchici italiani avevano abbandonato la convinzione ottimistica 
                  che era sufficiente essere poveri, sfruttati e oppressi per 
                  diventare rivoluzionari. Malatesta giunse di fatto alla convinzione 
                  opposta: “La miseria abbrutisce l'uomo;” scrisse 
                  nel programma anarchico del 1899 “e per distruggere la 
                  miseria bisogna che gli uomini abbiano coscienza e volontà. 
                  La schiavitù educa gli uomini ad essere schiavi, e per 
                  liberarsi dalla schiavitù v'è bisogno di uomini 
                  aspiranti a libertà. L'ignoranza fa sì che gli 
                  uomini non conoscano le cause dei loro mali e non sappiano rimediarvi, 
                  e per distruggere l'ignoranza bisogna che gli uomini abbiano 
                  il tempo ed il modo d'istruirsi.” 
                  Malatesta credeva che coloro che lottavano per un'idea fossero 
                  invece cresciuti il più delle volte in condizioni relativamente 
                  favorevoli. I membri più attivi e zelanti delle organizzazioni 
                  rivoluzionarie erano solitamente attratti dal desiderio di sentirsi 
                  nobilitati da un ideale più che dal bisogno proprio. 
                  Al contrario, “i veri e maggiori miserabili, quelli che 
                  sembrerebbero più direttamente e più immediatamente 
                  interessati ad un cambiamento di cose, o erano assenti o vi 
                  rappresentavano una parte passiva” (Pensiero e Volontá, 
                  15 gen. 1924). In breve, i mutamenti sociali erano spesso promossi 
                  da individui provenienti da ceti privilegiati. 
                  Si noti, per inciso, che la diseguaglianza di qualità 
                  individuali, che era uno dei caposaldi dell'elitismo, non avrebbe 
                  sollevato alcuna obiezione da parte di Malatesta. 
                  In cosa differiva dunque Malatesta dagli elitisti? 
                  Vari studiosi hanno sottolineato che l'elitismo non ha soltanto 
                  una dimensione sociologica – nonostante le dichiarazioni 
                  di alcuni suoi esponenti, come Vilfredo Pareto – 
                  ma è integrata invece da una dimensione ideologica. 
                  Per esempio, Robert Nye sostiene che la legittimità attribuita 
                  al dominio delle élite dai suoi teorizzatori consegue 
                  dalla natura della massa più che da quella dell'élite. 
                  Mentre nell'elitismo non emerge un'unica definizione normativa 
                  del concetto di “superiore”, vi era un consenso 
                  di massima sulla natura “inferiore” della massa. 
                  Dalla definizione intrinseca di “massa” conseguiva 
                  una spiegazione psico-sociologica, presentata come empirica, 
                  della leadership. Questa era fondata sul modello organico del 
                  comportamento collettivo denominato “psicologia della 
                  folla” o “psicologia collettiva”, i cui principali 
                  esponenti erano i francesi Gustav LeBon e Gabriel Tarde (The 
                  Anti-Democratic Sources of Elite Theory, Londra, 1977, p. 
                  8). 
                  Inoltre, Tom Bottomore osserva che, “mentre queste teorie 
                  criticano il determinismo che riscontrano specialmente nel marxismo, 
                  esse stesse tendono a stabilire una forma di determinismo ugualmente 
                  rigida”. L'argomento fondamentale degli elitisti, continua 
                  Bottomore, “non è solo che ogni società 
                  di cui si abbia conoscenza è divisa in due ceti – 
                  una minoranza che dirige e una maggioranza che è diretta – 
                  ma che tutte le società debbano essere divise in tal 
                  modo.” L'unica differenza è che il marxismo prevede 
                  ciò che dovrà effettivamente accadere, mentre 
                  l'elitismo si limita a negare ciò che non potrà 
                  mai avverarsi (Élites and Society, 2a ed., Londra, 
                  1993, p. 11). Parafrasando la nota frase di Antonio Gramsci 
                  sul “pessimismo dell'intelligenza” e “l'ottimismo 
                  della volontà”, si potrebbe dire che gli elitisti 
                  trasferivano il pessimismo della loro intelligenza alla loro 
                  volontà, mentre i marxisti, per i quali il comunismo 
                  non era “uno stato di cose che debba essere instaurato, 
                  un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi”, 
                  ma “il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente” 
                  (Marx e Engels, Ideologia tedesca, cap. 2), avevano l'ottimismo 
                  dell'intelligenza, dal quale derivavano l'ottimismo della volontà. 
                  In entrambi i casi, vi era la stessa inferenza dalla sfera descrittiva 
                  a quella prescrittiva, da una presunta conoscenza sociologica 
                  a fini sociali perseguiti. 
                   
                   
                    Il ruolo 
                  dell'organizzazione 
                 Al contrario, l'umanista e volontarista Malatesta non traeva 
                  conclusioni prescrittive da premesse descrittive. Qualunque 
                  fosse stato il passato, il futuro rimaneva indeterminato e aperto. 
                  Egli condivideva con gli elitisti il pessimismo dell'intelligenza 
                  e coi marxisti l'ottimismo della volontà. 
                  Si consideri, per esempio, la questione dell'organizzazione, 
                  così centrale sia nell'elitismo che nei dibattiti anarchici 
                  fra organizzatori, come Malatesta, e anti-organizzatori, come 
                  Luigi Galleani. Il confronto fra l'elitismo e l'anarchismo di 
                  Malatesta è particolarmente illuminante, perché 
                  illustra chiaramente come premesse empiriche sostanzialmente 
                  simili fossero seguite da conclusioni normative opposte. 
                  Negli Elementi di scienza politica Gaetano Mosca scrive: 
                  “Nel fatto è fatale la prevalenza di una minoranza 
                  organizzata, che obbedisce ad un unico impulso, sulla maggioranza 
                  disorganizzata. La forza di qualsiasi minoranza è irresistibile 
                  di fronte ad ogni individuo della maggioranza, il quale si trova 
                  solo davanti alla totalità della minoranza organizzata” 
                  (La classe politica, Roma-Bari, 1994, p. 53). Malatesta 
                  avrebbe pienamente sottoscritto questo passaggio come descrizione 
                  del potere dell'organizzazione. Ma ecco che segue la parte normativa. 
                  Mosca continua: “Nello stesso tempo si può dire 
                  che questa [la minoranza] è organizzata appunto perché 
                  è minoranza.” Secondo Mosca, ciò che egli 
                  descrive è inevitabile ora e sempre lo sarà. Al 
                  contrario, per Malatesta tale situazione è evitabile. 
                  Infatti, nelle sue discussioni con gli anti-organizzatori ricorreva 
                  proprio a una variante dell'argomento di Mosca per incitare 
                  gli anarchici a dedicarsi all'organizzazione come antidoto all'elitismo: 
                  “L'organizzazione di tutti è il rimedio contro 
                  il prevalere di pochi. La disorganizzazione è, in pratica, 
                  la dittatura, senza controllo e senza responsabilità, 
                  di quelli fra noi che possono fare un giornale, dire delle conferenze, 
                  o in altro modo accaparrare a vantaggio delle proprie tendenze 
                  le forze di tutti” (La Questione Sociale, 9 set. 
                  1899). La sfera descrittiva, in ogni caso, non poteva dettare 
                  legge a quella normativa: “Gli avversarii dell'organizzazione 
                  sogliono rinfacciarci il fatto che dopo tanto tempo che si parla 
                  di organizzazione degli anarchici, mai si è riuscito 
                  a farne una vasta e duratura … Come argomento contro 
                  l'organizzazione ciò non vale nulla. Non siamo ancora 
                  riusciti ad organizzarci come vorremmo, nello stesso modo che 
                  non siamo riusciti finora a fare la rivoluzione, senza che questo 
                  possa servire a dimostrare che abbiam torto di volerci organizzare 
                  e di voler fare la rivoluzione” (La Questione Sociale, 
                  23 set. 1899). 
                  Lo stesso contrasto fra accordo descrittivo e disaccordo normativo 
                  è riscontrabile riguardo all'organizzazione nella società 
                  in senso lato. Michels, che aveva una conoscenza di prima mano 
                  delle idee anarchiche, riconosceva nel suo libro che “il 
                  merito di avere per primi instancabilmente indicato come gerarchia 
                  e oligarchia siano le inevitabili conseguenze dell'organizzazione 
                  di partito deve essere attribuito agli anarchici. Questi hanno 
                  idee molto più chiare dei socialdemocratici e dei sindacalisti 
                  rivoluzionari sui pericoli dell'organizzazione” (p. 477). 
                  Tuttavia, Michels e Malatesta divergevano ancora una volta nella 
                  sfera normativa. Michels nutriva la convinzione, da lui ritenuta 
                  “scientifica”, che “l'immaturità obbiettiva 
                  della massa non è ... un fenomeno transitorio ... Essa 
                  è invece insita nella natura della massa in quanto tale, 
                  che è amorfa e bisognosa di una divisione del lavoro, 
                  di specializzazione e di direzione, e che, anche se organizzata, 
                  è incapace di risolvere tutti i problemi che la affliggono” 
                  (p. 528). Di conseguenza, Michels individuava un vizio “fatale” 
                  nei “fondamenti psicologici dell'anarchismo”, il 
                  quale non si dava cura di “come sono fatti gli uomini” 
                  (p. 482, n. 14). Al contrario, Malatesta riteneva che la massa 
                  non fosse necessariamente incapace di risolvere i suoi problemi; 
                  o, perlomeno, egli si asteneva agnosticamente dal presupporre 
                  vizi insiti nella natura della massa o dall'avventurarsi in 
                  profezie storiche. 
                  Malatesta era ben conscio del divario fra la situazione presente 
                  che la sua intelligenza pessimistica riconosceva e la futura 
                  società di solidarietà e libera iniziativa a cui 
                  la sua volontà ottimistica puntava. Il nodo della questione 
                  era che le minoranze coscienti non potevano sostituirsi alle 
                  masse se una rivoluzione doveva essere veramente emancipatrice, 
                  e allo stesso tempo l'azione delle masse non poteva concretizzarsi 
                  per volontà delle minoranza coscienti. Dalla constatazione 
                  del divario fra minoranze coscienti e masse scaturisce gran 
                  parte dell'elaborazione teorica e tattica di Malatesta. 
                
                   
                     
  | 
                   
                   
                    Errico 
                        Malatesta 
                        con Emma Melli (a sinistra) e Gemma Ramacciotti  | 
                   
                 
                 
                    Integrità 
                  dei principi e pragmatismo 
                 Il caratteristico punto di vista malatestiano sulla relazione 
                  fra minoranze coscienti e masse prende le mosse da una critica 
                  della Prima Internazionale. Ciò che uccise l'Internazionale, 
                  egli sosteneva, non furono né le persecuzioni né 
                  le lotte personali, ma una colpa che marxisti e anarchici condividevano 
                  in pari misura: “gli uni e gli altri prestavano alla massa 
                  degli associati le loro idee, pensando di averla convertita 
                  quando ne avevano ottenuto un'adesione più o meno inconsciente.” 
                  Mutamenti d'indirizzo avevano luogo con una rapidità 
                  “documentata nei deliberati dei congressi e nella stampa 
                  periodica, ma che non poteva rappresentare l'evoluzione reale 
                  e contemporanea della grande massa degli associati”. Ciò 
                  avveniva perché l'Internazionale era un'organizzazione 
                  onnicomprensiva che svolgeva entrambe le funzioni di organo 
                  per la lotta economica e per la lotta politica e d'idee. Di 
                  conseguenza, sia i marxisti che gli anarchici si sforzarono 
                  d'imporre il loro programma all'Internazionale, e in questa 
                  lotta per l'egemonia impedirono ad essa di maturare in forma 
                  più lenta ma più solida (La Rivoluzione Sociale, 
                  15 nov. 1902). 
                  L'esperienza dell'Internazionale indusse Malatesta a postulare 
                  una chiara distinzione fra organizzazioni anarchiche e organizzazioni 
                  dei lavoratori. A prima vista può sembrare che tale distinzione 
                  vada in una direzione elitista, creando un divario fra una minoranza 
                  che si autoproclama cosciente e le masse ritenute ancora incoscienti. 
                  In realtà, questo passo rappresenta precisamente la risposta 
                  di Malatesta all'elitismo che caratterizzava l'Internazionale 
                  – dove non veniva fatta alcuna distinzione del genere 
                  – e la salvaguardia da esso. Secondo Malatesta, le organizzazioni 
                  di massa per la lotta economica dovevano comprendere tutti i 
                  lavoratori senza esclusioni, al di là di distinzioni 
                  ideologiche, sulla sola base della solidarietà di classe 
                  e della resistenza ai capitalisti in difesa degli interessi 
                  dei lavoratori, mentre le organizzazioni militanti per la lotta 
                  politica e d'idee dovevano raggrupparsi attorno a progetti politici 
                  specifici, magari in competizione fra loro. 
                  Tale distinzione non implicava l'isolamento degli anarchici 
                  dalle masse. Piuttosto poneva ad essi un doppio compito. Come 
                  minoranza cosciente autonoma essi dovevano organizzarsi fra 
                  loro e rivendicare pienamente le loro idee. Come componente 
                  della massa essi dovevano essere il più possibile flessibili, 
                  al fine di indirizzare l'azione collettiva in una direzione 
                  emancipatrice. Essi potevano esercitare influenza solo “andando 
                  fra il popolo”: vivendo fra le masse e con loro lavorando, 
                  soffrendo, lottando; non offrendo la propria direzione, ma predicando 
                  con l'esempio; “pigliando il popolo come è e andando 
                  avanti con lui” (L'Associazione, 16 ott. 1889). 
                  Gli anarchici rappresentavano solo sé stessi e non avevano 
                  più alcuna pretesa di egemonizzare il movimento operaio. 
                  Il pluralismo che consegue dalla distinzione malatestiana fra 
                  organizzazioni anarchiche e organizzazioni dei lavoratori può 
                  essere apprezzato appieno nella sua contrapposizione al concetto 
                  della “classe operaia organizzata in partito”, come 
                  si autoproclamavano i partiti marxisti, e al ruolo subalterno 
                  che questi attribuivano ai sindacati. 
                  Nella sua concezione della relazione fra minoranze coscienti 
                  e masse Malatesta coniugava integrità dei principi e 
                  pragmatismo. “Bisogna tendere a ciò che si vuole, 
                  facendo quel che si può”. Gli anarchici sapevano 
                  ciò che volevano. Non erano disposti a compromessi sui 
                  principi, né a deviazioni dalla loro strada. Nondimeno, 
                  quel che si poteva fare dipendeva dalle masse. Vi era una relazione 
                  dinamica fra il desiderabile e il possibile, così come 
                  vi era un'interazione dinamica fra l'azione degli anarchici 
                  e quella delle masse. Gli anarchici non intendevano imporre 
                  il loro programma alle masse non ancora convinte, ma allo stesso 
                  modo non potevano e non volevano aspettare, per far la rivoluzione, 
                  che le masse fossero diventate anarchiche con piena coscienza. 
                  Che fare, dunque? Come rompere il “circolo vizioso” 
                  di povertà e apatia, al quale la massa era soggetta? 
                  La risposta ultima di Malatesta all'enigma che le “élite” 
                  anarchiche si trovavano ad affrontare è una visione gradualista 
                  del processo rivoluzionario. 
                  Come egli spiega nel programma anarchico del 1899, “il 
                  progresso deve camminare contemporaneamente, parallelamente 
                  negli individui e nell'ambiente”. Gli anarchici devono 
                  profittare di tutti i mezzi, di tutte le possibilità, 
                  di tutte le occasioni che l'ambiente attuale lascia loro, “per 
                  agire sugli uomini e sviluppare la loro coscienza ed i loro 
                  desiderii”. Devono “utilizzare tutti i progressi 
                  avvenuti nella coscienza degli uomini per indurli a reclamare 
                  ed imporre quelle maggiori trasformazioni sociali che sono possibili 
                  e che meglio servono ad aprir la via a progressi ulteriori.” 
                  Essi non devono aspettare di poter fare l'anarchia, ed intanto 
                  limitarsi alla semplice propaganda: “Se facessimo così, 
                  presto avremmo esaurito il campo; avremmo convertiti, cioè, 
                  tutti quelli che nell'ambiente attuale sono suscettibili di 
                  comprendere ed accettare le nostre idee, e la nostra ulteriore 
                  propaganda resterebbe sterile; o se delle trasformazioni d'ambiente 
                  eleverebbero nuovi strati popolari alla possibilità di 
                  ricevere idee nuove, ciò avverrebbe senza l'opera nostra, 
                  forse contro l'opera nostra, e quindi con pregiudizio delle 
                  nostre idee.” Gli anarchici devono “cercare che 
                  il popolo, nella sua totalità o nelle sue varie frazioni, 
                  pretenda, imponga, prenda da sè, tutti i miglioramenti, 
                  tutte le libertà che desidera, mano mano che giunge a 
                  desiderarle ed ha la forza d'imporle”. E, propagando sempre 
                  tutto intero il loro programma e lottando sempre per la sua 
                  attuazione integrale, devono “spingere il popolo a pretendere 
                  ed imporre sempre di più, fino a che non ha raggiunto 
                  l'emancipazione completa.” 
                  Poiché, in questo processo graduale, Malatesta attribuisce 
                  un ruolo distinto agli anarchici, si potrebbe a buon diritto 
                  sostenere che ci troviamo ancora in presenza di una relazione 
                  dialettica fra una minoranza meglio dotata e una massa “inferiore”, 
                  alla stregua della relazione postulata dall'elitismo. La differenza 
                  cruciale, tuttavia, risiede nella dinamica, o nell'assenza di 
                  dinamica, di ciascun modello. Nel modello statico dell'elitismo 
                  la minoranza dirigente rimane una minoranza, e così deve 
                  necessariamente essere. Nel modello di Malatesta, la minoranza 
                  anarchica è una “élite” autolesionista: 
                  essa affretta la propria espansione, e in ultima analisi la 
                  propria scomparsa. Quando tutti sono diventati anarchici, non 
                  esiste più nessuna “élite” anarchica. 
                   
                  Davide Turcato  
                 |