|   MEDITERRANEO. 
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                      In alto, sul monte Srd 
                      di Melita Richter 
                        Dubrovnik. Il Centro Documenta, 
                      i processi ai boia degli anni ‘90, il negazionismo, 
                      le donne. 
                     
                       
                      Pochi giorni dopo aver visto 
                      il filmato “Il colore del vento” mi è 
                      capitato di trovarmi a Dubrovnik, città-gioiello 
                      della costa meridionale dell'Adriatico, l'antica città 
                      mediterranea che ha sempre celebrato la propria indipendenza, 
                      prima ancora della ricchezza e della bellezza che la distinguono 
                      e la rendono unica al mondo. Mi sono trovata in alto sul 
                      monte Srd, il monte che sovrasta la città. Da qui 
                      si apre una splendida vista sulle sue mura, sui bastioni, 
                      sulle torri di difesa, sui tetti delle case patrizie e quelle 
                      più umili, sui campanili e corti e monasteri, sulla sinagoga, 
                      sui campielli e sulle piazzette, sulle vie strette e sul 
                      ritto e fiero Stradone/Stradun, sulle fontane, sui monumenti 
                      e ripide scalinate… Visione straordinaria. Basta poi 
                      spostare lo sguardo e la vista spazia sulla costa frastagliata, 
                      sull'Isola di Locrum e le Elafiti con una corona di isolotti 
                      che si perdono lontani all'orizzonte. Ma la struggente bellezza 
                      della natura viene annebbiata dalla memoria di fosche immagini 
                      di guerra, di una follia incomprensibile, di un indicibile 
                      urbicidio. Le immagini dell'ormai lontano, mai dimenticato 
                      dicembre del 1991, quando da queste alture l'intera città 
                      venne esposta all'assedio e alla folle voglia di distruzione. 
                      Perché di altro non si tratta che di un massacro, che come 
                      ogni altro massacro, rimane indicibile, ancor più di fronte 
                      a un'urbanità gioiello che per la sua bellezza e 
                      la secolare storia stupisce ogni visitatore. Su quel monte 
                      alto e roccioso esposto ai venti di ogni sorte sotto il 
                      quale la città si offre come sul palmo di una mano 
                      e dal quale i movimenti delle persone sono chiaramente percettibili, 
                      mi si è rivelato chiaro il significato della parola 
                      urbicidio: “una opposizione manifesta e violenta 
                      ai più alti valori della civiltà”. Il termine 
                      è stato coniato da Bogdan Bogdanovic (1), 
                      grande architetto e urbanista jugoslavo che per sfuggire 
                      all'arrogante nazionalismo serbo ha dovuto riparare a Vienna, 
                      dove è morto in esilio nel giugno 2010. 
                    
                     Ad ogni essere che potrebbe sparare su questa città 
                      augurandosi la sua morte e scaricare centinaia di migliaia 
                      di granate e di cannonate sul delicato tessuto urbano e 
                      sulla sua anima cosmopolita, sullo spirito di convivenza, 
                      non potrebbe essere riservato un altro aggettivo che “barbaro”, 
                      “incivile” “non-umano”. Di questa 
                      città che, tra le altre, appare nel filmato “Il 
                      colore del vento”, parlano i protagonisti dell'intervista 
                      attraverso le cui testimonianze ci arriva, ancora una volta, 
                      l'eco dei tempi bui della guerra che ha devastato l'essere 
                      della Jugoslavia, e allo stesso tempo, segnato l'ultimo 
                      triste decennio del secolo scorso. 
                      Nessuno avrebbe potuto prevedere che sul suolo europeo, 
                      alla fine del secolo, gli uomini e le donne, e anche i bambini, 
                      sarebbero di nuovo stati stipati negli scantinati tremanti 
                      e impaurati per la propria sopravvivenza si chiedevano se 
                      il riparo sarebbe sufficientemente forte a contrastare la 
                      ferocia che stava impazzando fuori, sui tetti della città 
                      e sulla sua integrità. E alla fine di quel secolo 
                      horribilis, rintanati come topi avrebbero annotato 
                      i propri pensieri su fogli di carta sotto la flebile luce 
                      di candela, tagliati fuori dal mondo e da una distante e 
                      disattenta Europa. 
                       
                      *** 
                       
                      I criminali di guerra raccontano le loro verità. 
                      Come ha fatto Miloševic davanti ai giudici dell'Aia, 
                      come lo sta facendo il boia Karadic che chiede la 
                      proroga dell'udienza per poter documentare meglio la propria 
                      difesa, o un dimesso e “malato” Mladic, carnefice 
                      di Srebrenica, e altri innumerevoli “piccoli pesci”, 
                      soldati del crimine organizzato, lontani da ogni pentimento, 
                      spesso liberi e volonterosi di raccontare le loro verità. 
                      Perché, ognuno ha la propria verità. Questa è 
                      una cosa preoccupante, in quanto si vuole con una verità 
                      parziale negare i fatti, negare quanto è successo. 
                      Con la negazione dei fatti – che, secondo la denuncia 
                      dall'avvocato belgradese Srdja Popovic, ha investito la 
                      società serba post-miloseviciana –, si vuole 
                      arrivare alla relativizzazione dei crimini di guerra, 
                      alla loro de-etnicizzazione. Con il primo termine si vuole 
                      sminuire l'atto criminoso secondo il quale “tutti 
                      in guerra commettono crimini”, oppure si pone la questione: 
                      “E loro? Cosa hanno fatto loro a noi?”, 
                      intendendo “gli altri”, gli appartenenti a un 
                      gruppo etnico diverso, per cui un crimine vale l'altro e 
                      addirittura lo si giustifica come atto di difesa. La de-etnicizzazione 
                      del crimine è la tendenza a non vedere che i crimini 
                      commessi sono stati eseguiti con lo scopo della pulizia 
                      etnica e proprio perché l'altro apparteneva a un'etnia 
                      diversa, o si distingueva per un'appartenenza non 
                      desiderata. Non si tratta quindi di un crimine, 
                      ma di quel crimine, commesso in nome della propria 
                      identità etnica nel cui nome è lecito annientare 
                      l'Altro (2). 
                      Sul crimine si tace e, come ha affermato nel lontano 2002 
                      Latinka Perovic, figura di spicco dell'allora dissidenza 
                      politica belgradese, “il crimine non viene considerato 
                      tale, ma lo strumento di una politica che è stata 
                      sconfitta nei fatti, non nelle menti. Non bisogna ingannarsi: 
                      quanto è avvenuto rappresenta una profonda regressione 
                      delle coscienze” (3). 
                      I fatti narrati e trasmessi alle nuove generazioni, diventati 
                      tessuto fondante della storia degli Stati-nazione e il vissuto 
                      dei singoli, delle persone, delle famiglie dei dispersi 
                      e di quelle che hanno visto le uccisioni dei propri familiari… 
                      a volte, questi fatti non combaciano. 
                      Per confrontarsi con simili tematiche e per cercare di documentare, 
                      utilizzando diversi strumenti, le violenze e i crimini di 
                      guerra commessi dal 1991 ad oggi in Croazia e approfondire 
                      il dialogo pubblico sul tema del confronto con il passato, 
                      a Zagabria è nato nel 2004 il Centro Documenta, alla 
                      cui guida si trova Vesna Teršelic, donna eccezionale, 
                      già insignita nel 1998, assieme alla dottoressa Katarina 
                      Kruhonja, quest'ultima direttrice del Centro per la pace, 
                      non violenza e diritti umani di Osijek, con il prestigioso 
                      riconoscimento internazionale per meriti di una vita dedicata 
                      alla pace – The Right Livelihood Award. 
                      Ci preme subito sottolineare che il Centro Documenta non 
                      ha mai avuto un anima monoculturale e “etnica”. 
                      Documenta è nato su iniziativa di quattro organizzazioni: 
                      il Comitato di Helsinki per i diritti umani, il Comitato 
                      cittadino per i diritti umani e due organizzazioni pacifiste: 
                      il Centro per la pace di Osijek e il Centro di studi per 
                      la pace di Zagabria. Oltre alle associazioni fondatrici 
                      della rete croata, Documenta ha firmato nel 2004 il Protocollo 
                      sulla cooperazione regionale con il Centro per il diritto 
                      umanitario di Belgrado (Humanitarian Low Center, Belgrade) 
                      diretto da Nataša Kandic e con il Centro di documentazione 
                      e ricerca di Sarajevo, diretto da Mirsad Tokaca. Insieme 
                      a più di 200 organizzazioni è stata fondata la Coalizione 
                      regionale per la commissione sulla verità e la ricerca 
                      della verità sui crimini di guerra e sulla violazione 
                      dei diritti umani avvenuti sul territorio dell'ex Jugoslavia. 
                      La Coalizione è stata firmata a Priština, Kosovo, 
                      nell'ottobre del 2008. 
                      Ritengo importanti questi dati “tecnici” che 
                      ci indicano l'esistenza di una rete allargata e transfrontaliera 
                      che consente ai ricercatori, storici e attivisti delle ONG 
                      di cercare di completare il mosaico degli avvenimenti criminosi 
                      avvenuti durante la guerra. Tali eventi erano ispirati dall'aberrante 
                      ideologia della pulizia etnica. Si intende ricomporre un 
                      quadro più completo e reale, senza esagerazioni numeriche 
                      e il consueto “balletto dei numeri” delle vittime 
                      e il loro utilizzo nei progetti ideologici nazionali. Tipo: 
                      più morti ha la mia parte, maggiori diritti vanno 
                      alla mia componente nazionale, etnica e/o politica. 
                      Per poter realizzare la rete transnazionale si sono dovuti 
                      predisporre tre sistemi informatici (croato, serbo e bosniaco), 
                      indipendenti e complementari, al fine di avviare la raccolta 
                      di documentazione sulle persone scomparse, sui massacri, 
                      sulle uccisioni delle vittime civili e militari e sulle 
                      circostanze delle loro morti. 
                      In diverse occasioni a Vesna Teršelic è stato 
                      chiesto se non fosse meglio lasciar perdere le memorie di 
                      sangue e soprusi, memorie della guerra, e guardare avanti. 
                      Ecco quali sono state le sue risposte: 
                     
                       Credo che senza il confronto con il passato non possiamo 
                        spezzare il cerchio della violenza. Ogni vittima ha un 
                        nome. Le famiglie degli uccisi hanno bisogno di sapere 
                        che riconosciamo la loro sofferenza e rimpiangiamo la 
                        morte dei loro famigliari. I criminali di guerra devono 
                        essere incriminati, perseguiti. Possiamo sperare nel processo 
                        di ricupero, di ripresa, di guarigione, solo se i sopravvissuti 
                        ricevono il supporto materiale e psicologico e se i nomi 
                        delle vittime sono iscritti sui memoriali dedicati a tutte 
                        le vittime quale segno della nostra comune riflessione 
                        sulle uccisioni e sul lutto.  
                         
                        (…) è molto importante verificare i nomi 
                        di tutte le persone, soprattutto per rispetto di coloro 
                        che non ci sono più. Si deve riconoscere la sofferenza 
                        di ogni persona che è stata uccisa e, se in qualche 
                        modo è possibile, scrivere il nome in un posto 
                        che resti nel tempo, un libro o un monumento. è 
                        importante per la famiglia, per la comunità della 
                        persona uccisa e per la società intera, onde evitare 
                        nuove manipolazioni. Questo è stato già 
                        fatto con il numero delle vittime della Seconda guerra 
                        mondiale eppure si continua a manipolare il numero di 
                        vittime degli assassinii per vendetta dopo quel conflitto 
                        (4). 
                     
                     Istaurare una “verità dei fatti” è 
                      lavoro arduo, le interpretazioni sono e rimangono molteplici, 
                      diverse. 
                      Il confronto con il passato si dimostra essere un processo 
                      sociale lungo. Si deve prestare attenzione e ascolto ai 
                      gruppi che sostengono diversi sistemi di valori e raccogliere 
                      le differenti posizioni: una volta confermati i fatti, non 
                      dovrebbero più – si spera – nascere le diatribe 
                      e i litigi su quanti sono stati uccisi, chi è stato 
                      ucciso, ecc. Ma la speranza che nutrono i ricercatori coinvolti 
                      nell'immenso lavoro di Documenta è di riuscire a 
                      costruire un nuovo spazio di confronto. Per questo i nomi 
                      delle vittime e le memorie raccolte dai sopravvissuti sono 
                      importanti. I nomi parlano. Quando invece si parla genericamente 
                      delle vittime di una o dell'altra, o di una terza parte, 
                      si inchiodano le persone alle identità etniche collettive 
                      e a queste si da una grande valenza ideologica. Allora la 
                      persona scompare, come dirà Elvira Mujcic nel suo 
                      libro di testimonianze. Elvira, all'epoca una ragazzina 
                      di soli 12 anni, sopravvissuta al genocidio di Srebrenica: 
                      “Si parla del genocidio, sparisce praticamente il 
                      mio dolore, il mio cosiddetto ‘caso'; spariscono delle 
                      perdite personali, quelle della famiglia.” 
                      Quando questo avviene, quando si parla di grandi numeri 
                      di vittime, il meno che si possa fare è di dare loro 
                      un nome, un volto, riconoscere la loro soggettività 
                      e fare questi monumenti, dei memoriali per il mantenimento 
                      della memoria della loro esistenza. 
                    
                       
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                        Guerra 
                            in Jugoslavia 1991-1995 profughi bosniaci, immagine 
                            di repertorio  | 
                       
                     
                     Una delle richieste delle Donne in Nero di Belgrado, noto 
                      movimento antimilitarista e femminista che dall'inizio del 
                      conflitto del 1991 aveva espresso il proprio profondo rifiuto 
                      della politica della guerra del regime serbo, richiesta 
                      ossessivamente ripetuta, consisteva prima di tutto nell'attivare 
                      la rottura con il consenso nazionale sull'argomento della 
                      “guerra giusta è difensiva”, l'interpretazione 
                      diffusa nella società serba. In seguito si trattava 
                      di “demolire gli schemi culturali, ideologici e i 
                      valori che hanno generato la guerra, che l'hanno giustificata 
                      e che ancora giustificano i crimini di guerra” (5). 
                      Tra gli obbiettivi proclamati come fondamenta etiche del 
                      loro movimento, le DiN individuano nella società 
                      civile un ruolo indispensabile nel superamento del passato 
                      criminale. La stessa società civile, secondo l'approccio 
                      delle DiN, detiene “l'obbligo e la responsabilità 
                      di esercitare pressione permanente sulle istituzioni statali 
                      affinché si denuncino i crimini e si puniscono tutti gli 
                      organizzatori, i comandanti e gli esecutori dei crimini 
                      di guerra” (6). 
                      Un lavoro arduo, visto che tuttora la gran parte della società 
                      serba mantiene l'orientamento negazionista per quanto è 
                      stato fatto a nome del popolo serbo agli appartenenti ad 
                      altri popoli, fino a ieri popoli fraterni, i co-cittadini 
                      di diverse appartenenze etniche e religiose. Ancora nel 
                      2002, prima della sua morte prematura, la femminista Zarana 
                      Papic denunciava l'indifferenza e la tollerata distruzione 
                      dell'Altro corpo come parti costituenti della cultura 
                      della normalità della società serba. La 
                      Papic ha descritto la costruzione delle fonti di un “nuovo 
                      trauma serbo” che annienta tutti gli altri traumi 
                      e non permette che il crimine compiuto in nome della propria 
                      nazione venga riconosciuto (7). 
                      Il meccanismo non è proprio soltanto della società 
                      serba; esso agisce con le stesse matrici anche in Croazia, 
                      in Bosnia ed Erzegovina, in Kosovo … I criminali di 
                      guerra ricercati dal Tribunale dell'Aia (Tribunale penale 
                      per i crimini in ex-Jugoslavia), vengono spesso considerati 
                      eroi nazionali, la loro cattura viene ostacolata e contrastata 
                      dall'opinione pubblica. Nella notizia della cattura del 
                      generale croato Gotovina, accusato di crimini di guerra 
                      compiuti sulla popolazione civile serba durante l'azione 
                      militare “Tempesta”, in una civilissima Spalato, 
                      città mediterranea e cosmopolita, sono uscite in 
                      piazza a protestare 100.000 persone! Oggi questo numero 
                      non sarebbe più tale, sarebbe sensibilmente diminuito; oggi 
                      la percentuale delle persone che ritengono che ogni crimine, 
                      indipendentemente della sua matrice etnica debba essere 
                      punito, è in aumento. Ma lo scoraggiamento è 
                      ancora diffuso, in modo particolare in Bosnia dove le vittime, 
                      spesso donne, tuttora incrociano sulle strade dei villaggi 
                      o delle città, gli esecutori delle uccisioni dei 
                      propri cari o i propri seviziatori, stupratori… (8) 
                       
                      Lo testimonia anche Elvira nel suo libro: 
                     
                       Si crede che basti lasciar passare del tempo, che 
                        so, dieci anni, e poi ricominciare tutto come prima. Pochi 
                        (gente valorosa) si sono presi la briga di portare un 
                        po' di giustizia in Bosnia in corso di questi anni. Non 
                        è possibile costruire la pace mentre abbassi la 
                        testa davanti al carnefice di tuo padre. Si costruisce 
                        solo timore, che provoca silenzioso rancore, che piano 
                        si accumula fino a diventare odio puro e poi… Poi 
                        i Balcani tornano a essere più sangue e meno miele. (9) 
                     
                     Il ruolo della giustizia si pone oggi come un grande tema 
                      politico, sociale ed etico e come premessa di ogni percorso 
                      di riconciliazione. La Teršelic ha detto: 
                     
                       Il ruolo della giustizia è cruciale e molto 
                        significativo nel percorso di dialogo e purtroppo sappiamo 
                        già che le istituzioni giudiziarie non potranno 
                        sollevare accuse o condurre indagini contro tutti i possibili 
                        criminali. Il TPI dell'Aia ha emanato un totale di 141 
                        accuse e l'anno scorso in Croazia sono stati avviati solo 
                        23 processi. Se consideriamo che in Croazia ci sono stati 
                        tra i 10 e i 15.000 morti, in Bosnia Erzegovina circa 
                        100.000, è chiaro che non si riuscirà ad 
                        indagare su tutti i crimini. (10) 
                     
                     Consapevoli delle stesse difficoltà (11), 
                      Donne in Nero e alcuni giuristi dei movimenti pacifisti 
                      serbi hanno promosso il concetto della giustizia transizionale, 
                      che include non soltanto sanzioni penali, ma anche quelle 
                      non penali in cui la società civile gioca un ruolo 
                      principale e si assume responsabilità sostanziale. 
                      Secondo la definizione di Nenad Dimitrijevic: 
                    
                       “La giustizia transizionale è un insieme 
                        di istituzioni, processi, misure e decisioni morali, legali, 
                        politiche e sociali che vengono stabiliti e implementati 
                        nel processo di transizione democratica, cioè nel 
                        passaggio dai regimi dittatoriali verso la democrazia.” 
                        (12) 
                     
                     Questo prevede l'attivazione di tutte le forme di responsabilità: 
                      individuale, collettiva, morale e politica, tutti i meccanismi 
                      per provvedere al risarcimento e alla riabilitazione delle 
                      vittime. 
                      Sulla responsabilità individuale e sul coraggio esemplare 
                      nei tempi più tetri e vergognosi come quelli di guerra vorrei 
                      riportare un ulteriore esempio. 
                      Nel libro che ho curato assieme a Maria Bacchi abbiamo pubblicato 
                      l'esperienza di una donna portatrice di profondi principi 
                      etici ed umanitari, abbiamo reso pubblica una parte del 
                      suo diario dal Kosovo. Si tratta di Nataša Kandic, 
                      direttrice del Centro di diritto umanitario di Belgrado, 
                      una delle poche persone che durante le fasi più accese della 
                      repressione scatenata dal regime serbo contro la popolazione 
                      albanese (marzo del 1999), inferocito e ferito dai bombardamenti 
                      NATO, era partita dalla capitale serba diretta in Kosovo 
                      a “tirare fuori” i suoi collaboratori albanesi 
                      e agevolare il loro viaggio verso luoghi dove potessero 
                      sentirsi più protetti e liberi. Con un costante rischio 
                      per la loro e per la propria vita, ha viaggiato in lungo 
                      e in largo in quelle terre messe a ferro e fuoco, annotando 
                      accuratamente quanto stava accadendo, tutto quanto lei poteva 
                      osservare direttamente: le case sventrate, bruciate, il 
                      panico della popolazione perseguitata, il vagare della gente, 
                      le loro sofferenze, le narrazioni, le umiliazioni subite, 
                      i crimini dei quali sono stati testimoni forzati, le morti 
                      inflitte ai loro familiari dalle incursioni di uomini in 
                      uniforme, mascherati, oppure da quelli a volto scoperto, 
                      spavaldi e tuttora non giudicati. 
                      Vorrei ricordare che nello stesso periodo che si preannunciava 
                      infernale, le forze della delegazione OCSE, circa 1600 osservatori, 
                      sono tutte state ritirate dal territorio del Kosovo, come 
                      del resto i giornalisti stranieri. Era un segnale certo 
                      che i bombardamenti NATO sarebbero stati imminenti. E così, 
                      se ne era andata, l'unica forza internazionale che fungeva 
                      da protezione della popolazione civile locale e che aveva 
                      il compito di vigilare su quanto stava succedendo per prevenire 
                      le violazioni dei diritti umani. La rappresaglia serba scatenata 
                      sulla popolazione albanese come punizione per aver richiesto 
                      l'intervento NATO, non sarebbe stata seguita né documentata 
                      da nessun organismo internazionale. è stata Nataša 
                      Kandic, autorevole pacifista, ma anche donna serba, a raccogliere 
                      frammenti di storie raccapriccianti, che raccontano nei 
                      dettagli come avvenivano i crimini, chi li commetteva e 
                      chi li subiva. Nomi e cognomi dei morti, assassinati, sgozzati. 
                      Intere famiglie, giovani, vecchi, indistintamente. Il dossier 
                      del Centro di diritto umanitario di Belgrado è inverosimilmente 
                      spesso. Oggi nella capitale serba, nonostante il nuovo governo 
                      democraticamente eletto, esso procura molto fastidio, soprattutto 
                      a coloro che non vogliono vedere il volto del proprio nazionalismo 
                      e riconoscere i misfatti commessi in nome del proprio popolo 
                      (13). 
                      Questo dossier è l'unico che testimonia il crimine 
                      commesso dai serbi in Kosovo ed è il dossier che 
                      è stato richiesto dal Tribunale dell'Aia come uno 
                      dei documenti decisivi per stabilire come sono andati i 
                      fatti durante l'offensiva delle forze militari e paramilitari 
                      serbe in Kosovo. 
                      Questo voglio dire: quanto il coraggio di una donna possa 
                      fare non per sé, per la propria famiglia, ma per un ideale, 
                      per l'affermazione della giustizia, per la ri-costruzione 
                      della fiducia e della speranza delle persone, per contribuire 
                      con la propria denuncia alla costruzione della verità, 
                      alla distribuzione delle responsabilità. E a salvare 
                      la faccia infangata della propria nazione. 
                      Sono stati tanti gli spunti sollecitati dalla visione del 
                      documentario “Il colore del vento”. I temi del 
                      Mediterraneo avrebbero dovuto suscitare in me altri ricordi, 
                      dolci e lievi come le brezze del Maestrale e le nostalgie 
                      di cieli striati dal fuoco dei tramonti. Invece ho parlato 
                      di guerra, di responsabilità, di ruolo delle donne, 
                      di un “no” possibile ai nazionalismi e alle 
                      follie ideologiche che vedono nell'Altro Nemico, una minaccia 
                      alla propria identità. Forse è bene non dimenticare 
                      neppure questi temi che, in diverse forme e interpretazioni 
                      rielaborate, affiorano nelle terre bagnate dal mare Mediterraneo. 
                      è giusto ricordarli perché, “non sapere è 
                      orribile. Abituarsi a non sapere è la peggior cosa” 
                      (14). 
                       
                      Melita Richter 
                    Note
                     
                      - Bogdan Bogdanovic, è l'autore del termine “urbicidio” 
                        inventato per definire l'atroce attacco nelle guerre balcaniche 
                        degli anni '90, portato alle città e alla società 
                        cosmopolita che esse rappresentavano. Si intende con esso 
                        non solo la distruzione fisica delle città, ma 
                        anche la distruzione simbolica della cultura espressa 
                        dalle città, dello spirito e della convivenza urbana. 
                      
 - Vedi Melita Richter e Maria Bacchi (a cura di), Le 
                        guerre cominciano a primavera. Soggetti e genere nel conflitto 
                        jugoslavo, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2003. 
                      
 - Intervista a Latinka Perovic, settimanale “Dani”, 
                        Sarajevo, n. 277, pubblicato il 3 ottobre 2002. 
                      
 - Andrea Rossini e Nicole Corridore, “La memoria 
                        di Zagabria”, intervista a Vesna Teršelic pubblicata 
                        sul sito www.osservatoriobalcani.org 
                        il 8. 10. 2007. 
                      
 - Staša Zajovic, Un approccio femminista nell'affrontare 
                        il passato e la giustizia transizionale. L'esperienza 
                        della Serbia. Relazione alla Conferenza della Rete 
                        internazionale delle Donne in Nero, Gerusalemme/Israele 
                        12-16 Agosto 2005. 
                      
 - Staša Zajovic, ibid. p.2. 
                      
 - Vedi in Melita Richter e Maria Bacchi (a cura di), op. 
                        cit. 
                      
 - Un'ampia testimonianza su questi temi in Melita Richter, 
                        “Sconfitta nei fatti, non nelle menti”, in 
                        Maria Teresa Sega (a cura di), Se questa è una 
                        donna, Cierre Edizioni. Resistenze, Venezia, 2010. 
                      
 - Elvira Mujcic, Al di là del caos. Cosa rimane 
                        dopo Srebrenica, ed. Infinito, Roma, 2007, p. 97. 
                      
 - In Andrea Rossini e Nicole Corridore, “La memoria 
                        di Zagabria”, intervista a Vesna Teršelic pubblicata 
                        sul sito www.osservatoriobalcani.org 
                        il 8. 10. 2007. 
                      
 - Nella relazione già citata, Staša Zajovic 
                        scrive: “Solo un numero davvero minimo di processi 
                        per guerra e per crimini di guerra si stanno svolgendo 
                        nelle corti locali. Altre forme di giustizia transizionale 
                        – non penale – così come commissioni per la 
                        verità e la riconciliazione / pulizia / risarcimenti 
                        / compensazione / restituzione, che sono alcuni esempi, 
                        o non vengono affatto prese in considerazione o si praticano 
                        esclusivamente sotto la pressione di fattori esterni, 
                        per ragioni pragmatiche e non sono il frutto di una sentita 
                        e reale esigenza di superare il passato.” 
                      
 - Staša Zajovic, ibid, p. 2. 
                      
 - Vedi Melita Richter e Maria Bacchi, op. cit., pp. 56-58 
                        e pp. 317-332. 
                      
 - Elvira Mujcic, op. cit., p. 108. 
  
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