rivista anarchica
anno 42 n. 371
maggio 2012


dossier Georges Brassens

Brassens, ovvero la palestra
degli anarchici e dei cantautori

di Alessio Lega

Proprio il cantautore francese, che non voleva insegnare niente a nessuno, si è ritrovato punto di riferimento per generazioni di musicisti, scrittori, pittori, fumettisti, giornalisti, militanti politici e sindacali delle più disparate tendenze libertarie e socialiste…

 

Ciascuno ha trovato il suo Brassens! Anarchici, spiriti liberi, musici, poeti, cantastorie… Poi hanno tutti preso la propria strada. Alcuni hanno conservato per il maestro francese (che, nella migliore delle ipotesi si sarebbe messo a ridere a sentirsi chiamare “maestro”) una sacra deferenza, ne hanno fatto un maestro di vita oltre che di poesia e di canto. Molti altri invece hanno maturato il distacco, ne hanno preso le distanze, ci hanno “litigato”, come si fa coi genitori ingombranti.
Fra tutti questi io qui parlerò soprattutto dei musicisti, per l’affinità dei linguaggi che rende i processi evidenti, ma si potrebbe allargare lo sguardo a generazioni di scrittori, pittori, fumettisti, giornalisti, militanti politici e sindacali delle più disparate tendenze libertarie e socialiste… e infine anche di quegli anonimi che «non avendo ideali sacrosanti si limitano a non rompere i coglioni ai loro prossimi». Molti, soprattutto francofoni ma non solo, hanno avuto la loro iniziazione a un pensiero sociale con Brassens.
Ah, quanto si sarebbe stupito lui di questa cosa, però è così. La potenza espressiva di chi non ti vuole insegnare nulla, di quello che non ha da venderti un ideale (anche il più bello del mondo) è dirompente. Non c’è niente da fare: si pende dalle labbra proprio di quelli che sono più refrattari a fare i “maître à penser”. Si calcola male quanto nel ‘900 siano state importanti le canzoni nella formazione politico-culturale delle generazioni che si sono susseguite, almeno tre di queste si sono abbeverate direttamente o indirettamente a Brassens.
…Poi si prendono le distanze, ci si accorge che magari Georges era un uomo all’antica anche per i suoi tempi, che la sua bella e anticonformista refrattarietà al matrimonio non auspica certo il superamento della coppia, ma rifonda una sorta di patto fra due amanti basato – pensa un po’ che novità! – sulla fedeltà, anche se con qualche possibile deroga concessa alla Penelope di turno. Molto romantico Georges ma anche un po’ reazionario quando, con garbo e poesia infinita, infligge una tirata moralista alle donne che vivono libere e promiscue unioni, “Les mouton de Panurge” dice lui, le “pecorone” che fanno all’amore perché va di moda… augurando alla fine di ritrovare lo spirito delle “Veneri di un tempo che facevano l’amore per amore”.
Si impara da Brassens il rispetto per i proletari, per i poveri cristi e le puttane, per gli ubriaconi e i bohémiens di periferia, per il contadino schiantato dal lavoro nel dignitoso silenzio del suo orgoglio. Ma quando quest’amore che abbiamo imparato da lui vuole prendere una forma ideologica e strutturata, magari confrontarsi con una possibile soluzione collettiva dei problemi, ecco che l’individualista Brassens ci stigmatizza, ci dice che le idee “vanno e vengono/tre piccoli giri, tre piccoli morti e poi spariscono”.
Brassens ci dice che “il plurale non serve a niente” e “se si è in più di quattro si è una banda di stronzi”. Tutto sommato, se penso ai compagni arrestati ieri in Val di Susa, per una volta mi viene da parteggiare per il comunista Jean Ferrat, che in amichevole polemica gli rispose con un’altra canzone: «In gruppo in fila in processione/è tempo che io lo confessi/io son di quelli che manifestano./Sono di quelli che si fan tacere/in nome di libertà inventate/il denunciatore dei massacri/che ha perduto con soddisfazione/vent’anni di guerre colonialiste./In gruppo in fila in processione/e anche solo se capita/seguiterò a lottare./Mi si può dire con arguzia/che in gruppo in fila in processione/siamo dei pecoroni/ma ho una consolazione:/ si può esser da solo e un coglione/e in questo caso lo si resta».
Brassens, tutto preso dalla sua lotta per salvare l’individuo in una società che vedeva sempre più massificata, arriva a fare un panegirico dello “sbirro buono” che salva il barbone dal congelamento dandogli il suo mantello, e giunge fino all’imperdonabile equiparazione fra il resistente e il collaborazionista nella Francia occupata.
Indubbiamente così molti dei suoi “allievi spirituali” prendono le distanze, ma Brassens non era uomo da compiacere alcuno, sotto il suo apparente distacco e la sua bonomia è sempre rimasto un manicheo che vuole dividere e provocare. Probabilmente è proprio qui, nel Brassens più discutibile, quello che oltre a scioccare i benpensanti vuole scandalizzare i suoi “seguaci” gran parte della sua forza, della sua irriducibilità a monumento culturale, del motivo per cui va ascoltato, criticato, tradotto.
E così tutti i Brassensiani hanno finito per farsi il proprio Brassens a propria misura. Vagare ascoltando i suoi interpreti e i suoi traduttori – una galassia quasi sterminata, ma noi ci limitiamo a segnalare qualche italiano – può essere uno dei modi più interessanti e trasversali di avvicinarsi alla sua opera.

Come due gocce d'acqua

Per esempio Giorgio Ferigo era uno di quegli strani tipi di cui non si dovrebbe perdere memoria: un medico umanista, un filosofo politico, un contemplativo incazzato, un personaggio raro e sconosciuto fuori dai confini del suo Friuli. Fra le sue molte iniziative culturali e musicali c’è anche “Jerbata: 13 canzoni di Georges Brassens tradotte in friulano”. Il Brassens tradotto in friulano (anzi in carnico) da Ferigo è un ragionatore che vive in disparte, che sogguarda il mondo con dolce distacco, con ironia carica d’amore, con compassione fraterna, insomma un montanaro dal cervello fino che parla da pari a pari con gli alberi, coi fiori e con quella morte che ha riunito al Georges di Sète il Giorgio friulano morto nel novembre del 2007.
Tutt’altro “Brassens” è quell’energumeno dal cuore d’oro che parla milanese… a prima vista si somigliano come due gocce d’acqua, ma mentre quello viveva in disparte in montagna, quest’altro sta nella periferia meneghina di Ortica o Lambrate dei primi anni ’60. Quello è contadino, tranquillo e contemplativo, questo è urbano, svelto e con la lingua tagliente. Un sentimentale travestito da cinico, curioso del mondo e di tutto, che passa il tempo ad attraversare i quartieri in tram, s’immischia di fatti non suoi, tutt’uno con quella città che oggi non c’è più. Milano col cuore in mano, il paesone dei “ghisa” (i vigili urbani, chiamati così per via dell’elmetto spropositato) e dei “rocchetta” (i magnaccia): poveri cristi senza lavoro, gestori di un’“impresa” familiare, varata in seguito a qualche disastro economico che li aveva condannati all’indigenza più nera. Questa era la grande e bella città operaia di Milano, caduta vittima del berlusconismo ante litteram degli anni ’80, vera protagonista di quelle canzoni di Brassens tradotte da Nanni Svampa.
Ferigo e Svampa, due artisti agli antipodi, due indoli diverse: un appassionato curioso delle forme che prendono le parole al servizio del sociale e un professionista del palco con quasi mezzo secolo di carriera alle spalle. Eppure entrambi attratti da quest’altra strana bestia di cantautore francese.
Poi c’è Fausto Amodei, figura centrale per la storia della nostra canzone, l’autore di “Per i morti di Reggio Emilia”: uno dei due o tre canti passati, senza soluzione di continuità e senza bombardamenti mediatici, dalla sua chitarra all’inconscio popolare (Compagno cittadino/fratello partigiano/teniamoci per mano/in questi giorni tristi...).
Fausto – che ha sempre esercitato il mestiere di architetto, relegando l’attività di cantante e autore ai ritagli di tempo – non ha mai nascosto di avere una venerazione per Brassens, e ha omaggiato il maestro traducendolo (soprattutto) in piemontese. Purtroppo la sua natura schiva, poco incline a frequentare gli studi di registrazione, ci priva di una testimonianza discografica di tali versioni, ma la memoria dei non pochi spettatori che hanno assistito ai recital in cui Amodei ha proposto tale repertorio, conserva l’impressione di un ennesimo Brassens dal carattere ancora diverso da tutti gli altri, un Brassens dalla lingua golosa ed educata, che pronuncia degli inappuntabili turpiloqui perfettamente rimati e a denti stretti, insomma un “Brassens gianduiotto”, un Brassens torinese!

Palestra d’ardimento

Negli anni ’70 ebbe una certa rinomanza il fantasista Beppe Chierici, che pubblicò – con l’imprimatur dello stesso autore, suo amico personale – due dischi di canzoni tradotte in italiano e che anche recentemente è tornato alla carica con un CD di nuove versioni. Se le traduzioni di Chierici hanno sempre fatto storcere il naso ai puristi per l’eccesso di licenze formali che si prendono – parole piane che diventano tronche, rime forzate, uso insistito dei diminutivi -, hanno però il merito di restituire a Brassens alcune sue caratteristiche: il gusto della storiella surreale, dello scioglilingua non-sense e una certa friabile delicatezza, una cantabilità leggera che la nostra poesia possiede molto meno di quella dei “cugini” d’oltralpe. La militanza di Chierici nel genere della canzone per bambini riconduce anche i versi dello “Zio Georges” (a patto di sorvolare su qualche parolaccia) a questo pubblico ideale, che in Francia gli è devoto, pensate che esistono delle antologie specifiche delle sue canzoni per gli scolari delle elementari, che in gita cantano abitualmente “La chasse aux papillons”, come fosse “Quel mazzolin di fiori”.
Giuseppe Setaro è uno dei più misteriosi e infaticabili artigiani casalinghi del “brassensismo” nostrano: nulla o quasi si sa di lui, non sono mai riuscito a vederlo cantare, ma con i suoi 7 CD autoprodotti, fitti fitti di canzoni, il bergamasco sembra voler cedere alla tentazione di voltare in italiano la totalità dei testi di Brassens (senza dimenticare quelli dei poeti da lui messi in musica). Con la grazia nel porgere che gli è propria, Setaro ci regala un Georges nobile e puro, un classico della poesia un po’ asettico, da mettersi a fianco a Ronsard e Lamartine.
Coltissimo, ma decisamente incline agli umori pesanti di Rabelais (tanto per restare fra classici della letteratura) è Pardo Fornaciari. Personaggio pantagruelico lui stesso, con le sue dotte riflessioni sul “bagitto” (il dialetto della comunità ebraica livornese) e con la sua aria da Mangiafuoco buono, Pardo è un intellettuale impegnato, ma anche un gaudente che trovi in osteria a disquisire di ricerca filosofica con certi ubriachi che sembrano tutti cugini di Piero Ciampi. Si diletta a fare il cantastorie, l’agitatore culturale, il linguista ed è una delle firme storiche del fin troppo virulento giornale satirico “Il Vernacoliere”. Pardo nel CD “Porci, poveracci e vecchi malvissuti” ha trapiantato gli antieroi parigini di Brassens nel porto labronico, dandone una lettura che non si capisce se sia più erudita, plebea, emotiva, umorale o politicamente scorretta.
Questi sono solo alcuni esempi dell’attitudine di appropiarsi del repertorio di Brassens e farne la propria palestra d’ardimento, il proprio campo di battaglia linguistico, un’attitudine non solo italiana (Brassens è certamente l’autore più globalmente adattato al mondo), ma che nel nostro paese conosce una fioritura che troviamo frammentata anche in un’ulteriore ridda di citazioni sparse nei dischi di Gipo Farassino come in quelli di Gino Paoli, di Luca Faggella come dei Têtes de Bois (irresistibile nel loro “Pace e male” la versione di “Une jolie fleur” recitata da Arnoldo Foa). Così tornano pure a sentirsi nuovi brani e traduzioni per bocca dell’attore Alberto Patrucco, o per quella di chi scrive queste note, che in due propri CD ha inserito sue versioni italiane di classici del repertorio di Brassens.
Al di là dunque delle mode e della francofilia degli autori degli anni ’60, l’opera di Brassens resta una straordinaria fucina di idee e forme nuove, capace di confrontarsi coi linguaggi di ogni generazione.

Una traduzione attenta

Non posso concludere questo scritto senza dare concretezza al fantasma che aleggia ogni qual volta si parli di Brassens in Italia, senza dire qualcosa del suo allievo spirituale più universalmente noto. Lo faccio con una riflessione (per la quale devo ringraziare Riccardo Venturi, cui l’ho saccheggiata) che la dice lunga sulla sottigliezza e sul confronto cui la pratica della traduzione delle canzoni ci può spingere.
L’ultima strofa di una delle più contestate canzoni di Georges – Mourir pour des ideés – scritta nella sua fase più matura, recita così:

Ô vous, les boutefeux, ô vous les bons apôtres
Mourez donc les premiers, nous vous cédons le pas
Mais de grâce, morbleu! laissez vivre les autres!
La vie est à peu près leur seul luxe ici bas
Car, enfin, la Camarde est assez vigilante
Elle n'a pas besoin qu'on lui tienne la faux
Plus de danse macabre autour des échafauds!
Mourrons pour des idées, d'accord, mais de mort lente
D'accord, mais de mort lente.

Fabrizio de André la cantò così:

E voi gli sputafuoco, e voi i nuovi santi
Crepate pure per primi noi vi cediamo il passo
Però per gentilezza lasciate vivere gli altri
La vita è grosso modo il loro unico lusso
Tanto più che la carogna è già abbastanza attenta
Non c'è nessun bisogno di reggerle la falce
Basta con le garrotte in nome della pace
Moriamo per delle idee, va bè, ma di morte lenta
Ma di morte lenta.

La canzone di Brassens – inserita nel suo penultimo LP – fu pubblicata nel 1972, la traduzione di de Andrè è del 1974, dunque, se si considerano i tempi solitamente lunghi di registrazione, missaggio, stampa di un disco, e poi ancora la particolare lentezza e attenzione che Fabrizio de Andrè adoperava nel realizzare i suoi progetti, viene da considerare come questa traduzione – l’ultima da lui compiuta da un testo di Brassens – sia stata rapidamente realizzata (le altre precedenti erano fatte a distanza di decenni dalla pubblicazione dell’originale) e testimoni una sorta di urgenza espressiva.
E proprio così dev’essere stato: de André ha saccheggiato pensiero, forme e melodie brassensiane e ha tradotto un pugno di sue canzoni nei primi anni della carriera, come una sorta di apprendistato; nella fase di cui stiamo parlando pareva interessato da tutt’altro modo di scrivere, centrato sul modello anglo-americano di Dylan e Cohen, dunque le due traduzioni – Le passanti e Morire per delle idee – rappresentano un commiato da una certa cultura, ma anche una folgorazione e un ultimo ritorno di fiamma.
La traduzione di Mourir pour des idées è molto attenta e la strofa che prendiamo ad esempio non lo è meno delle altre. Uno solo è il cambiamento, che proprio per la sua singolarità risulta macroscopico. Al termine del testo originale francese si hanno dei versi del tutto tipici del medioevo atemporale brassensiano:

Car, enfin, la Camarde est assez vigilante
Elle n'a pas besoin qu'on lui tienne la faux
Plus de danse macabre autour des échafauds!

La danse macabre autour des échafauds, ovvero la danza macabra attorno al patibolo è un'immagine che più brassensiana non si potrebbe. C'è tutto un mondo attorno ad essa, che va dalle poesie di François Villon alle illustrazioni dei libri popolari, dalle tradizioni nordeuropee alle ballate popolari.
Ma cosa canta de André? Parte con una resa fedele:

Tanto più che la carogna è già abbastanza attenta,
non c'è nessun bisogno di reggerle la falce

Ma poi:

Basta con le garrotte, in nome della pace.

Le “garrotte”? La “pace”? Dov'erano le “garrotte” nel testo di Brassens?
La traduzione di de André, dicevamo, è del 1974. Si tenga a mente l'anno. Ritengo che nominare le garrote in un testo scritto nel 1974 sia un riferimento ad un fatto ben preciso di tremenda attualità: la condanna a morte e l'esecuzione per garrottaggio dell'anarchico Salvador Puig i Antich, avvenuta proprio agli inizi di marzo del 1974. De André toglie di mezzo il medioevo atemporale e inserisce un fatto politico che riporta all’attualità di quegli anni. Traducendo, de André cerca di essere sé stesso quanto più possibile, tenta di inserirsi nello specifico storico con una variazione di prospettiva: sembra di vedere tutta la storia di Spagna, in quel “basta con le garrotte”, una storia che rispecchia le incisioni di Francisco Goya di No se puede saber por qué, con l'immagine terribile della schiera di garrottati che si trasmette fino alla storia recente di quel paese ed all'assassinio del giovane anarchico, di cui forse abbiamo perduto memoria, ma che ancora ci deve scuotere. Altrimenti noi saremmo perduti e queste non sarebbero che canzonette
.

Alessio Lega