rivista anarchica
anno 42 n. 371
maggio 2012


dossier Georges Brassens

Ricordando un uomo libero

della redazione di “A”

Appena appresa la notizia della morte di Brassens, telefonammo a Fabrizio De André proponendogli di scriverne lui un ricordo.
Fabrizio si schermì e in "A" 97 (dicembre 1981/gennaio 1982) questo è quanto pubblicammo.

 

Parigi, 1947, nel negozietto lungo il canale Saint-Martin, dove si trova dall’indomani della Liberazione la redazione de Le libertaire, l’organo della federazione anarchica, si affaccia un giovane ventenne. Si presenta, milita nel gruppo anarchico del 15° arrondissement: nel corso del colloquio con i compagni presenti, viene fuori la necessità di trovare un giovane che collabori per le spedizioni del giornale. Il ragazzo si offre.
Con questo ricordo si apre il lungo articolo che Maurice Joyeux, anziano militante della federazione anarchica, dedica sul n. 417 de Le monde libertaire (diretta continuazione de Le libertaire sopra citato) al cantautore Georges Brassens. Quel ragazzo, che per alcuni mesi restò poi a lavorare con il gruppo editore del giornale, era infatti Brassens. Negli anni successivi, quando ormai era diventato famoso, partecipò a numerosi gala, le feste promosse dalla federazione anarchica per sostenere la stampa e altre iniziative: furono queste feste ad assicurare i fondi necessari per tirare avanti. E Brassens, per un periodo, ne costituì la principale attrazione.
Ma l’anarchismo di Brassens, osserva Joyeux che ne restò amico anche quando smise di frequentare l’ambiente anarchico, viene fuori soprattutto dai suoi testi, dalla sua musica, dalla sua personalità. In Italia è stato Fabrizio De André a farne conoscere, nella sua versione, alcuni dei testi più significativi, più graffianti – negli anni ’60. In tempi più recenti Nanni Svampa ne ha proposto una sua originale versione in dialetto milanese, smussandone però la violenza verbale e la provocatorietà espressiva. Invece no. Brassens andrebbe conosciuto nella sua integralità, senza ritocchi o presunti abbellimenti. Perché se l’uomo è morto, la sua dolcezza e la sua rabbia sono più che mai vive, provocanti.

la redazione di "A"

Se n’è andato quasi come un personaggio delle sue canzoni, appoggiando la chitarra al muro, senza voler disturbare nessuno. Probabilmente infastidito dal suono dei tromboni che inevitabilmente sarebbero risuonati. I tromboni che prendevano una rivincita su anni di sberleffi, su anni di insulti giostrati sulle corde. «Chi resta ha sempre ragione» diceva in una sua canzone. E chi resta si trova tra le mani le sue canzoni, si trova tra le mani il suo sorriso un po’ triste, i suoi gatti, le impronte di vita che egli ha lasciato con della musica addosso.
È morto un anarchico, come gli anarchici ha preso per il culo la vita e la morte, forse per esorcizzarle, forse per strizzar loro l’occhio, per farsele amiche. Come gli anarchici ha cantato la vita con il suo odore aspro, il suo alito di fiori e aglio, ha corteggiato la morte, forse senza paura, forse sentendo il suo fiato sul collo. Come gli anarchici ha puntato il dito, armato solo della spada di legno della sua chitarra, della sua cultura di uomo e non di sapiente. Armato solo delle parole che gli suggerivano gli occhi. Come gli anarchici è stato accusato, insultato, deriso, come gli anarchici ha accusato, insultato, deriso, avendo però dalla sua, la forza di chi non ha nulla da perdere. La forza di chi ha perso l’unico bene per cui val la pena di lottare: la libertà, e lo rivuole indietro. Retorica? Illusione? Forse. La stessa retorica e la stessa illusione, se così vogliamo chiamarle, di chi crede che possa esistere una realtà migliore. Di chi lotta perché questa realtà si… realizzi.
Brassens non ha mai legato con gli altri «colleghi» quelli del maglione, del whisky nella mano, della sigaretta all’angolo della bocca, del conto in banca, dell’angoscia di esistere senza in realtà vivere. Il suo sberleffo aveva il sapore di un saporito pernacchio che veniva dal profondo, non era isterico, né angosciato, né voleva dimostrare chissà cosa, era un pernacchio e basta, fatto in prima fila, fatto dal balcone. Era il: «Scemi, scemi!» di uno che vive, che azzanna il sedere alla vita e non ha tempo di fermarsi a spiegare agli altri che sono statue di sale, ma li dileggia dalla strada passando. Erano due occhi spalancati sul mondo, con il gusto di un bambino che morsica una mela e non ha nulla da temere. Erano due mani pronte al gestaccio, pronte a tirare il sasso, come pronte a carezzare, come pronte a strozzare. Era una voce neanche tanto bella, ma che era fatta di parole e non di suoni da baraccone. Era la voce che sempre corre tra la gente, che grida: «Il re è nudo!», anche quando sembra che non ci sia più speranza, che tutto sia perduto. Era un uomo, forse come tanti, con in più il pregio di una lingua come bisturi e di un cervello colmo fin all’orlo di vita. Tutta da gustare, fino alla tomba, fin sotto terra a guardare le radici, ma che siano radici di fiori. «Non lascerò chiudere la cassa, voglio passare prima dal mio barbiere», e anche dopo morto «se mi toccano i gatti lo giuro farò il fantasma per spaventarli!».
È morto un anarchico, aveva il pregio d’aver preso la vita e la morte sotto il braccio per portarle a bere, aveva il pregio d’aver preso i potenti e loro scagnozzi, per il sedere e per le palle, tirando forte. Aveva il pregio di essere un uomo che voleva libertà come aria, scusa se è poco!

“G”
G. era Gabriele Roveda, all'epoca componente del nostro collettivo redazionale


I testi di qualche canzone

La non demande en mariage
........
De servante n'ai pas besoin,
Et du ménage et de ses soins
Je te dispense...
Qu'en éternelle fiancée,
A la dame de mes pensée’
Toujours je pense...
J'ai l'honneur de
Ne pas te demander ta main,
Ne gravons pas
Nos noms au bas
D'un parchemin
.

La non richiesta di matrimonio
........
Non ho bisogno di serva,
e dal peso delle faccende domestiche
ti dispenso...
Come a un’eterna fidanzata,
alla signora dei miei pensieri,
sempre io penso...

 

 

La ballade des gens qui sont nés quelque part
.........
Mon Dieu, qu’il ferait bon sur la terre des hommes
Si l'on n'y rencontrait cette race incongru’,
Cette race importune et qui partout foisonne:
La race des gens du terroir des gens
(du cru.
Que la vi’ serait belle en toutes circonstances
Si vous n'aviez tiré du néant tous ces jobards,
Preuve, peut-être bien de votre inexistence:
Les imbéciles heureux qui sont nés quelque part.

La ballata di quelli nati in qualche posto
........
Mio Dio, come si starebbe bene sulla terra degli uomini
se non vi si incontrasse questa razza di scorretti,
questa razza molesta e che abbonda dappertutto:
la razza della gente del suo paese d’origine, della gente
(del posto.
Come sarebbe bella la vita in ogni momento
se tu non avessi tratto dal nulla questi balordi,
che sono la prova, forse, dalla tua inesistenza:
i beati imbecilli che sono nati in qualche posto.