rivista anarchica
anno 42 n. 371
maggio 2012


dossier Georges Brassens

Sono talmente anarchico...

Intervista a Alberto Patrucco di Giuseppe Ciarallo

A colloquio con un artista che ha tradotto e canta Brassens. E ne condivide l’approccio rigorosamente anarchico.

Un paio d’anni fa circa mi capitò, durante un viaggio in macchina, di ascoltare un’intervista radiofonica, mi sembra che fosse su Popolare Network, durante la quale veniva presentato un disco appena uscito, che aveva il curioso titolo “Chi non la pensa come noi”, e conteneva una serie di canzoni di Brassens tradotte in italiano. Curiosamente, durante tutto il corso dell’intervista lo speaker non nominò mai l’intervistato, per cui una volta tornato a casa conoscevo il titolo del disco ma non avevo la benché minima idea di chi ne fosse l’autore. Fortunatamente venne in mio aiuto Mr. Google. Così venni a sapere che la voce profonda che avevo avuto il sommo piacere di ascoltare in radio, tra una domanda e l’altra venivano mandate in onda le canzoni, era quella di Alberto Patrucco. Il giorno successivo acquistai il CD, e non è esagerato dire che per qualche mese le liriche di Brassens, così magistralmente tradotte nella nostra lingua, accompagnarono ogni mio momento libero. In seguito contattai Patrucco per un’intervista da pubblicare sulla rivista letteraria PaginaUno, e da lì è nata una bellissima e ricca amicizia.

Ciarallo – Bene, Alberto, il lavoro svolto nel tradurre i brani di Brassens che compongono il tuo primo album e quelli nuovi che faranno parte del disco di prossima uscita, dimostra una dedizione alla musica del grande chansonnier che va oltre il semplice amore del fan. Come sei entrato nell’universo brassensiano, e soprattutto cosa ti ha spinto a cimentarti nella traduzione, per poi sfornare il notevole “Chi non la pensa come noi”?

Patrucco – Ho incontrato Georges Brassens, incontrato virtualmente, beninteso, su disco… a casa di mio zio Marc, che era canadese francofono, pressappoco a metà degli anni Sessanta. Ero giovanissimo, avrò avuto otto o nove anni, forse anche meno. Non ricordo cosa accadde, so che rimasi letteralmente rapito dal suo modo di fare canzone, un vero e proprio coup de foudre. Ripensandoci, fu davvero curioso. Non tanto perché mi “sfuggiva” il contenuto, quanto e soprattutto perché non capivo una sola parola di quel che Brassens cantava. Probabilmente avevo capito… che c’era molto da capire. Poi è venuto il tempo di un approccio diverso. Scoprendo veramente Brassens mi resi conto di quanto fosse straordinario anche come musicista, e quanto fosse grande il suo patrimonio artistico e poetico. Per questo, quasi per una sorta di timore reverenziale, mai avrei pensato un giorno di tradurre le sue canzoni.
A istigarmi, nel 2005, furono gli amici del Club Tenco, Enrico De Angelis, Antonio Silva e in particolare Sergio Sacchi mi suggerì l’idea di riproporre il teatro-canzone. Da quello spunto iniziale, all’idea di tradurre alcuni pezzi di Brassens (mia passione letteral-musicale di sempre), il passo è stato assai breve. Il che non significa facile.

Alberto Patrucco al piano
(foto di Gigi Galbiati)

Il più difficile da tradurre

Molti sono stati i tentativi di traduzione dei testi di Brassens. In alcuni casi si sono avuti risultati soddisfacenti, in altri, l’impressione è stata quella che i testi italiani non fossero proprio all’altezza degli originali. Comunque le tue versioni hanno rappresentato una novità assoluta rispetto alle precedenti, visto che tu non ti sei limitato a tradurre pedissequamente le canzoni, ma le hai rielaborate, mantenendo integro il ritmo e conservando le rime, cosa non facile visto l’abbondante uso di argot da parte del Maestro, e la diversità di conformazione fonetica tra la lingua italiana e quella francese.

Georges Brassens, che è il cantautore più difficile da tradurre, è paradossalmente il più tradotto al mondo (per quel che so lo è ancor più che Bob Dylan). Tradurre Brassens, come dicevo, è davvero molto impegnativo. Aldilà della lingua, va da sé, salvaguardare sostanza, poesia e incisività satirica, non è per nulla semplice. Per quel che mi riguarda, una volta vinti i timori del confronto con un tal mostro sacro, il mio sforzo si è concentrato nel tenere insieme le due anime di Brassens, quella gergale, colloquiale, e quella dotta, di pura poesia. E, per il mio primo disco, ho voluto mettere dei paletti assai rigidi al mio lavoro. Ho scelto innanzitutto di tradurre solo brani “inediti nella nostra lingua”, di farlo per rime e non per assonanze – complicandomi maggiormente la vita ma tentando di essere il più brassensiano possibile – e, infine, di vestire di colori musicali quello che in origine era solo voce, chitarra e contrabbasso. Dalla proposta minimale propria dell’autore mi attirava l’idea di passare, senza stravolgimenti, a una lettura musicale più articolata e ampia. E qui, il merito va soprattutto a Daniele Caldarini, l’autore degli arrangiamenti dell’album, che ha restituito la profondità musicale, forse mai adeguatamente riconosciuta, insita nell’opera di Brassens. Comunque, premesso che qualsivoglia avvicinamento all’opera del Nostro rischia di rivelarsi incompleta, e aldilà della riuscita o meno di talune traduzioni rispetto ad altre, della valentia o meno dei traduttori, credo di poter dire che in genere chi abbraccia l’opera di Brassens lo fa con amore. E di solito si sente.

Cosa ti è piaciuto di più delle precedenti traduzioni (e relativi traduttori) e cosa, secondo te, non ha funzionato? Ad esempio, cosa ne pensi della scelta di Nanni Svampa, già negli anni sessanta, di trasporre le canzoni di Brassens in dialetto milanese?

Sono l’ultimo arrivato e non ho niente da insegnare a nessuno, peraltro tra i traduttori di Brassens ci sono nomi altisonanti come De André, Svampa, Amodei, Chierici, Medail… Ci sono state operazioni di traduzione importanti, altre meno, altre molto personali. Forse, pochi sono riusciti a tenere insieme l’anima alta e quella bassa di Brassens. Nanni Svampa, con le sue traduzioni in milanese, ha colto soprattutto il tratto popolare: senza dubbio una impresa di molto valore che però, a mio avviso, ha un po’ limitato il raggio d’azione. Comunque trovo estremamente curioso ricordare la bizzarria tutta italiana che vuole praticamente sconosciuto nel nostro paese il “capostipite” dei più importanti cantautori italiani, non ultimo Fabrizio De Andrè, a lungo considerato l’artista più vicino alla poetica brassensiana.

Alberto Patrucco sul palco
(foto di Valeria Rogolino)

“Mi ha fatto letteralmente dannare”

Qual è stata la canzone che ti ha impegnato maggiormente, che ti ha fatto pensare: “Questa non ce la faccio proprio a tradurla”? E quale, invece, quella che ti ha divertito di più trasporre nella nostra lingua?

Non c’è stata una sola canzone che non mi abbia fatto dire: questa, a tradurla non riuscirò mai! E, semmai dovessi farcela, verrà una “cosetta”. Poi, invece… Alcune canzoni si sono dimostrate davvero intraducibili e, tra le tante, in tutta onestà, per qualcuna non ce l’ho proprio fatta. Sarà anche per il fatto, e qui la sparo un po’ grossa ma sotto sotto ne sono convinto, che la traduzione deve essere meglio dell’originale. Con Brassens è molto difficile che ciò accada, ma ritengo sia giusto partire con questo obiettivo, altrimenti non è nemmeno il caso di cimentarsi nell’impresa. Comunque, “Supplique pour être enterré à la plage de Sète”, mi ha fatto letteralmente dannare. In primis, perché è un capolavoro: dove tocchi, hai solo paura di fare danni. Poi, è molto personale, è il suo testamento e, senza stravolgere nulla, ho voluto provare a “spersonalizzarla”. Infine, è lunghissima, la più lunga che Brassens abbia mai scritto. Quella che mi ha più divertito, invece, è “La cane de Jeanne”. Anche perché, forse, è la più corta.

Brassens diceva: Sono talmente anarchico che attraverso sulle strisce pedonali per non avere a che fare con la gendarmeria. Questa sua naturale appartenenza al credo libertario mi sembra che sia molto presente in tutta la produzione dell’artista, anche in quelle canzoni che apparentemente sono le più “neutre”…

Diceva anche, «Quando si è anarchici, lo si è per sempre. È congenito. Significa rimettere ogni giorno tutto in discussione». E ancora, «L’anarchico s’immagina sia un tipo che dice “no” a tutto. Al contrario l’anarchico dice “sì” a tutto». Nel 1946 scrive sulla rivista anarchica Le Libertaire e, di lì a poco tempo, i suoi stessi compagni si accorgono di avere a che fare con il più anarchico tra gli anarchici. Il manifesto dell’individualismo libertario di Brassens è «La mauvaise réputation». Composta nei mesi della clandestinità, una delle prime canzoni che ha scritto, sottolinea la sua avversità e la sua diversità rispetto al mondo borghese. Ci teneva a precisare: «Il mio individualismo d’anarchico è una lotta per conservare il mio pensiero libero».

Georges Brassens legge Le monde libertaire,
il foglio anarchico di cui fu collaboratore

Al contempo noto una enorme differenza tra l’anarchismo di Brassens e quello di un altro grande della canzone francese, l’amato Leo Ferré. Il primo sembra voglia seppellire il nemico con la classica risata e lo sberleffo, il secondo, invece, canta rabbia malinconica e pura e non sembra essere molto incline alla satira e all’ironia.

La componente anarchica di Brassens, il suo pensiero, credo che non si possa riferire a una corrente precisa. Diceva, «Tra gli anarchici tutti sono d’accordo sulle idee di fondo, ma sui mezzi, alcuni sono per la violenza, altri no. Io ero individualista…». Com’è nel suo stile, non fa propria una dottrina integralmente (o integralisticamente), preferisce adattarla alla sua personalità, viverla in modo del tutto originale. Brassens detestava unirsi a un gregge: «Amo il pensiero solitario, detesto le pecore», «Mi sono costruito la mia umanità da solo, senza seguire nessun metodo». Per quel che mi riguarda, pur conscio che a lui avrebbe dato fastidio, considero Brassens come un buon Maestro per le sue aperture mentali, per le sue valutazioni sul mondo, aldilà e al di sopra di ogni cliché.
Diverso è il discorso per Ferré. Il suo mi sembra un approccio più militante, con un coinvolgimento emotivo più intenso. E ascoltando la sua bellissima, epica “Les anarchistes”, si capisce la malinconia e la rabbia che armano la sua mano nello scrivere.

Durante i tuoi spettacoli ti sarà capitato spesso di cantare quel magnifico inno all’internazionalismo e all’abbattimento di ogni confine o barriera, che è “Quegli imbecilli nati in un posto”. Che reazione hai notato nel pubblico di quei paesi, soprattutto della cosiddetta Padania, che vivono e si crogiolano nel mito della cultura locale e del territorio da difendere a spada tratta dal diverso, dall’invasore?

Uno dei brani più attuali è senza dubbio «La ballade des gens qui sont nés quelque part», poiché viviamo in un momento storico sospeso tra mondializzazione e misero attaccamento al proprio giardino, alle proprie confuse e spesso sconosciute radici culturali. L’inizio sereno e ridente – È vero son graziosi i tipici paesi / I borghi, le frazioni, i cari vecchi ambienti / Con chiese, panorami e vicoli scoscesi… – non lascia minimamente immaginare il contenuto delle strofe successive. Quando, con tono ben diverso, si comincia a parlare degli abitanti: Al diavolo quei figli e la loro patria-madre / Finissero impalati sul loro campanile… Singolarmente violenti questi versi, ma testimoniano bene l’insofferenza verso gli imbecilli, verso le persone che per quanto «piccoline», sono in realtà una vera minaccia perché il loro atteggiamento è alla base di innumerevoli disgrazie. Più che il campanilismo, credo che Brassens volesse colpire il sentimento che è alla base di esso: il credersi migliori degli altri o, in qualche modo, pensare di «avere Dio dalla propria parte», che fa sì che i campanilisti non siano soltanto delle persone pittoresche, ma anche sommamente pericolose. Il pubblico, fin qui, ha reagito e reagisce bene. Ma, è il pubblico che segue i miei spettacoli. E, fin qui, di imbecilli non ne ho visto uno.

E per concludere, so che per lo scorso ottobre, mese in cui è caduto il novantesimo anniversario della nascita di Brassens e il trentesimo della sua morte, avresti voluto organizzare un tributo, libro e CD, coinvolgendo tutti i tuoi amici musicisti, scrittori, illustratori, fumettisti, ma non sei riuscito a trovare una casa editrice, un produttore che si entusiasmasse a tale progetto, forse giudicato frettolosamente “no commercial potential”. Ma è così difficile, nell’Italia di oggi, trovare uno sbocco alle tante iniziative culturali che pure quotidianamente si creano nel nostro Paese?

Su questo argomento ci si potrebbero scrivere intere pagine o liquidare la cosa con una battuta fulminante. Purtroppo editori e produttori non sono altro che un piccolo ingranaggio di quel perverso meccanismo che reputa l’artista un peso per la società produttiva (a tal proposito mi viene in mente la favola della cicala e della formica di Esopo), e la cultura qualcosa che “non dà da mangiare” come candidamente espresso qualche tempo fa da un nostro ex ministro dell’Economia. Ma i nostri gretti governanti non si chiedono quanto sia importante avere sì il pane, ma anche le rose? Conoscendo i personaggi, già immagino la risposta: “Le rose? Se son rose, appassiranno!”.

Giuseppe Ciarallo