rivista anarchica
anno 42 n. 370
aprile 2012


articolo 18

Licenziare per assumere. Geniale

di Angelo Tirrito

Alcune riflessioni sul dibattito in corso su garanzie, licenziamenti, disoccupazione, ecc...

 

Altre volte mi sono occupato del mercato e del falso anelito alla sua separazione dallo Stato, per la quale fingono di battersi tutti i liberisti di questo mondo, italiani compresi, che dimostrano il massimo accanimento “scientifico” al punto di esecrare il povero J. M. Keynes reo di immaginare lo stato come investitore capace, non tanto di generare argini diretti alla prevenzione delle crisi, quanto a mettere in moto meccanismi per contribuire a risolverle.
Negli ultimi tempi ero, però, costretto ad un certo imbarazzo. Non potevo non tenere conto di come, nel governo fosse, pesantemente presente, un personaggio che, per difendere se stesso dall’attenzione giudiziaria, lasciava che nel mercato giocassero liberamente anche le forze capaci di imporre i propri interessi: monopolisti, falsificatori di bilanci, corruttori e mafiosi compresi.
In questo quadro l’attacco all’art. 18 sembrava, più che altro, non tanto il frutto di un pensiero che avesse un qualche senso economico ma, piuttosto, della volontà di discreditare i sindacati.
Già la lettera dell’agosto 2011 dell’ Europa all’Italia in cui si tirava in ballo anche l’art. 18, aveva suscitato in me qualche apprensione, ma confesso di averla sottovalutata essendo questa parte confusa tra altre più gravide di conseguenze immediate.
Oggi al vertice del governo c’è un competente uomo del mercato. Dovremmo, quindi, dibattere su proposte di interventi, che nel rispetto di tutte le leggi, trovino la loro ragion d’essere in progetti di rilancio dei fattori produttivi, tra cui il lavoro, per assicurare il benessere per tutti. E data la alta considerazione nazionale ed internazionale che lo circonda insieme con tutti i ministri, ci sarebbe da aspettarsi di non essere presi in giro.
Ma ecco. di nuovo, l’eliminazione dell’art. 18. Bisogna licenziare per assumere. Soprattutto i giovani!

Dieci domande

Nell’introduzione all’opera in questione Non si definisce a che tipo di umanità apparterranno i licenziati. Tutto lascia prevedere che saranno i meno giovani. I quali, comunque, verranno assunti da altre aziende che nasceranno nel clima di rilancio del lavoro che i competenti sapranno realizzare. (ci ritornerò)
A questo punto chiunque fosse fornito di un minimo di logica dovrebbe porsi e porre alcune domande tipo le dieci che Repubblica poneva a Berlusconi.

  1. a quanti anni si acquisisce il diritto ad essere licenziati senza un perché? (ex Art. 18)
  2. quelli, comunque, licenziati con un perché, potranno essere assunti da altre aziende?
  3. i giovani per i quali i padri sono stati licenziati, quando arriveranno alla stessa età potranno, a loro volta, “godere” del licenziamento cosicché non correranno il pericolo di annoiarsi?
  4. visto che i licenziati verranno assunti da altre aziende, perché queste altre aziende non assumono direttamente i giovani?
  5. avendo, in grande fretta, cambiato il sistema pensionistico, i contributi versati dal lavoratore, che dopo anni di servizio hanno raggiunto maggiori importi mensili che permetterebbero pensioni proporzionate, verranno rispettati negli importi precedenti dalla azienda che li assume o saranno, con grave danno, calcolati ex-novo come per nuovi assunti?
  6. e nel periodo nel quale si è in attesa di un nuovo lavoro, chi verserà i contributi per le pensioni?
  7. non verrebbero più versati? e se dovessero versarli i lavoratori, su che importi verrebbero calcolati? sui precedenti emolumenti o su quelli che si percepirebbero come indennità di disoccupazione con conseguente riduzione della pensione? E la quota che precedentemente era a carico del datore di lavoro, da chi sarà versata?
  8. in questo secondo caso perché, senza colpa per il licenziamento subito, un lavoratore dovrebbe vedersi ridotto l’importo della pensione?
  9. poiché il licenziamento sarà disposto per procurare un beneficio all’ azienda, nel caso questa lo realizzasse, non sarebbe pure merito del lavoratore che ha contribuito a quei benefici prima col suo lavoro e poi col suo licenziamento?
  10. e se malgrado il licenziamento l’azienda fallisce, non sarebbe equo che i responsabili pagassero in qualche modo?

Ritengo che la ragione per cui si vuole eliminare l’art. 18 sia ben diversa e sia, come sempre, la sfrenata volontà del controllo assoluto del lavoro, facile ad ottenersi imponendo e gestendo la miseria, che non è solo quella economica, perché se fosse solo quella la ribellione sarebbe immediata.

Creare il lavoro?

La miseria, senza spazi di rivolta, (non necessariamente sanguinosa) è quella che distrugge ogni certezza e speranza per il presente e per l’ avvenire. E quella minima speranza per il futuro non può che nascere, per un lavoratore subordinato, dal fare il proprio dovere sul lavoro.
E che fine fa, nei confronti dei lavoratori, il famoso “merito” che “gli uomini del mercato” esaltano come unico elemento discriminante?
Come può esservi per un operaio, per un impiegato, per un lavoratore subordinato, un elemento fondamentale di valutazione diverso dall’esperienza acquisita, nel tempo, sul lavoro?
Si può valutare il merito di un lavoratore se il tempo diventa, invece, il motivo della perdita del suo lavoro?
Ma torno al rilancio dell’economia che realizzeranno questi tecnici. Lo dicono dovunque e in tutte le lingue. Bisogna creare lavoro! Creare lavoro? Ma che bisogno c’è di crearlo il lavoro?
Questi signori sono mai stati negli ospedali, nei pronto soccorso? sanno delle scuole con aule di 35 alunni, dello stato del nostro territorio, della situazione degli anziani, della mancanza quasi totale degli asili nido, dell’età media e della mancanza di personale nei tribunali, del degrado delle nostre città e delle nostre campagne ecc. ecc.
Ma con tutto il lavoro che c’è da fare che bisogno c’è di andarselo ad inventare? Ma qualcosa l’ hanno inventata!
Lustrando le loro grandi competenze hanno appena varato, nel decreto per la crescita, l’inventiva di Società a r. l. con capitale di un euro, da fondarsi da parte di giovani. Poiché, malgrado l’inventiva, per amministrare una qualunque azienda occorrono alcuni minimi investimenti come: contratti luce, gas, telefono, scaffalature, computer, cauzione per l’affitto ecc. per un importo, supponiamo, di 5.000 euro, il bilancio della società sarà di 1 euro di capitale e 4.999 euro di debito. Quale banca darà un fido e quale fornitore la merce? Inventiamoci pure che, commossi dalla buona volontà dei giovani e del governo, banche e fornitori diano ciò di cui si ha bisogno; i prezzi di vendita di questa nuova società non possono essere che superiori a quelli delle società più grosse e più capitalizzate presenti nel mercato. Le nuove società dei giovani saranno quindi società “marginali” che permetteranno alle altre società del mercato di aumentare i prezzi di vendita fino ad allinearli, quasi, a quelli delle società marginali.
Mettere in moto meccanismi che giochino a favore di aumenti dei prezzi per chi sono un aiuto? per i consumatori? E creare strutture che dilapidino velocemente i pochi risparmi dei padri e dei nonni (i veri finanziatori di quei giovani che apriranno quelle società) sarà un fattore di crescita e di coesione sociale?

Angelo Tirrito