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				Il punto di vista del caimano 
				Mio
				padre pensa che io sia comunista. Lo pensa anche uno dei miei
				capi all’università, e questo già è più strano, perché si
				tratta di uomo intelligente, che vive nel mondo reale e dovrebbe
				aver chiaro che la creolizzazione delle ideologie ha prodotto
				entità intermedie e terzi spazi politici catalogabili solo
				attraverso acronimi. Questi ultimi, una volta sciolti, non
				significano assolutamente nulla. E hanno la vita di una falena
				senza coltivarne il fascino caduco. Però, dal punto di vista di
				mio padre, io sono molto comunista, sebbene anche un elementare
				questionario sul senso – contingente e storico – del
				comunismo mi metterebbe in seria difficoltà. Ma dal suo punto di
				vista di ex democristiano cattolico e in cerca di riferimenti
				nella selva incomprensibile dei simboli politici contemporanei,
				non vi sono dubbi: io sono comunista, mangio i bambini, non vado
				in chiesa e probabilmente per sindaco di Milano ho anche votato
				quel comunista di Pisapia. Prima di convertirmi allo stato
				d’animo zen che mi caratterizza ora, tentavo di convincerlo che
				– in confronto ai miei amici – io sono moderata. E
				soprattutto profondamente pacifista, contraria a ogni forma di
				violenza e tendente a sposare l’elementare principio secondo
				cui l’essere umano ha diritto alla sua libertà prima ancora
				che al cibo e nella misura in cui questa libertà non lede la
				libertà di altri. In ogni caso, dal punto di vista di mio padre,
				questo è comunismo puro, staliniano, maoista, da degenerati e
				forse contagioso come l’AIDS. Appunto: anni fa, mi occupavo
				di AIDS e rappresentazioni culturali: tipo come vengono
				immaginati i malati di AIDS al cinema, nei romanzi e in prodotti
				artistici assortiti. Dunque, inevitabilmente, ho tenuto una serie
				di corsi sull’omosessualità e sui queer studies. Il mondo è
				piccolo, e sembra che io ne conosca la porzione più amichevole e
				ciarliera. Perciò, a causa della consueta improbabile catena di
				comunicazioni che si crea ogni qualvolta una testolina iperattiva
				produce un pettegolezzo, non faticai a scoprire che i miei
				studenti, alla fine di uno di quei corsi, se ne andavano in giro
				a dire: “Ah, la prof è molto brava, anche se è lesbica”. A
				parte l’errore sulle mie scelte sessuali, mi colpì il curioso
				punto di vista secondo il quale l’omosessualità aveva effetti
				sul cervello oltre che sulle preferenze emotive ed erotiche. Ma
				io – che comunque ero stata etichettata come omosessuale – me
				l’ero cavata, ed ero rimasta “brava”.  Nel corso della
				mia ormai lunga carriera di insegnante, ho campionato una serie
				di definizioni interessanti, un assortimento di intuizioni che i
				giovani virgulti avevano su di me, sulla mia vita privata, sulle
				caratteristiche del mio guardaroba e sulle mie letture preferite.
				In nessun caso, era necessario che vi fosse un vero fondamento a
				queste intuizioni: quando si costruisce un’icona, lo si fa non
				sulla base delle caratteristiche reali di chi deve indossarla, ma
				su quelle che il veneratore dell’icona desidera siano tipiche
				del leader. La bellezza è nell’occhio di chi guarda. Oppure:
				così capiamo com’è potuto succedere che nel nostro
				immaginario occidentale ci sia un gesù che cammina sull’acqua
				e moltiplica pani, pesci e alcolici alla bisogna, che mica si può
				fare un matrimonio senza bersi un sano cicchetto. Comunque sia,
				io non ho nulla in contrario alle icone né alle fedi: ritengo
				siano umane, e per lo più una questione di punti di vista. Basta
				tenere a mente che i punti di vista sono per loro natura
				parziali, e possono cambiare a seconda dell’angolazione che
				scegli per guardare. La mia figlia grande ha sempre avuto un
				debole filologico per le parole. Una parola significa quello che
				significa, e non ci si gira attorno. Quando era piccola e stava
				imparando a leggere le lettere dell’alfabeto, una volta
				passammo davanti all’insegna di un hotel. Lei guardò la
				scritta e lesse: “Accaotel”. Io le feci notare che la parola
				andava letta “otel”, perché l’acca era muta. Lei ripeté:
				“accaotel”. Poi mi guardò seria e aggiunse: “Mettiti nei
				suoi panni: come credi che si senta l’acca a non essere
				letta?”. Forse avevo esagerato coi discorsi sul rispetto per il
				diverso.  La mia figlia piccola, invece, quando era piccola,
				aveva un debole per la musica e per i fidanzati. Si fidanzava
				ogni due ore, e voleva sempre sposarsi. Siccome sia la scuola
				materna che la scuola elementare vedevano i bambini italiani in
				nettissima minoranza, la mia figlia piccola si innamorava
				continuamente di qualche bambino straniero. E poi voleva
				sposarsi. Sposarsi in chiesa e con l’abito bianco, come
				Cenerentola e il principe. Una volta, il compagno della mia vita
				le fece notare che forse Ahmed era musulmano e non avrebbe avuto
				piacere a sposarsi in chiesa. Lei rispose, sorpresa di tanta
				stupidità: “E che problema c’è? Ci sposiamo nella sua
				chiesa”. Meravigliosa saggezza: purché sia un rito, qualunque
				posto va bene, in un’anarchia religiosa che giova
				all’integrazione.  Tecnicamente, non sono anarchica.
				Piuttosto, un’intellettuale con poche idee ma confuse sulla
				gestione della cosa pubblica. E quelle poche frequentano ambiti
				tradizionalmente considerati come inutili. Scuola, università,
				biblioteche e luoghi di cultura. Scrivo persino. E non
				statistiche e bilanci. Addirittura storie. E, pensate un po’,
				le invento io. Le tiro fuori dal mio crapino inutile. Qualche
				tempo fa, una mia amica scrittrice - bravissima e di conseguenza
				di incerti successi - ha conosciuto un giovane caso letterario:
				un caimano, a tutti gli effetti, che tuttavia stava ramazzando,
				con la sua opera prima, una quantità di premi letterari. Il
				caimano, venne poi fuori nella conversazione, lavorava nella
				collana che lo aveva pubblicato, e già questo creava un piccolo,
				esiziale conflitto di interessi. Per di più, si seppe in
				seguito, il caimano era incorso in una incresciosa accusa di
				plagio perché – parrebbe – aveva appunto plagiato, per un
				racconto su una rivista di moda, un intero capitolo di un romanzo
				di Thomas Mann. Senza citare la fonte, s’intende. Una
				disdicevole dimenticanza.  Ora, vent’anni fa una cosa del
				genere ti avrebbe stroncato la carriera come scrittore e avrebbe
				derubricato la tua intelligenza umana a quella di un lombrico.
				Adesso no. Ed è un problema di punti di vista. Un grosso,
				monumentale, incomprensibile problema di punti di vista. Ed è il
				motivo per cui, come dice mia figlia grande, un tempo avevamo
				Leopardi, ora abbiamo il caimano. 
				 
				 
				Nicoletta
				Vallorani 
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