rivista anarchica
anno 42 n. 368
febbraio 2012



scuola

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Il punto di vista del caimano

Mio padre pensa che io sia comunista. Lo pensa anche uno dei miei capi all’università, e questo già è più strano, perché si tratta di uomo intelligente, che vive nel mondo reale e dovrebbe aver chiaro che la creolizzazione delle ideologie ha prodotto entità intermedie e terzi spazi politici catalogabili solo attraverso acronimi. Questi ultimi, una volta sciolti, non significano assolutamente nulla. E hanno la vita di una falena senza coltivarne il fascino caduco. Però, dal punto di vista di mio padre, io sono molto comunista, sebbene anche un elementare questionario sul senso – contingente e storico – del comunismo mi metterebbe in seria difficoltà. Ma dal suo punto di vista di ex democristiano cattolico e in cerca di riferimenti nella selva incomprensibile dei simboli politici contemporanei, non vi sono dubbi: io sono comunista, mangio i bambini, non vado in chiesa e probabilmente per sindaco di Milano ho anche votato quel comunista di Pisapia. Prima di convertirmi allo stato d’animo zen che mi caratterizza ora, tentavo di convincerlo che – in confronto ai miei amici – io sono moderata. E soprattutto profondamente pacifista, contraria a ogni forma di violenza e tendente a sposare l’elementare principio secondo cui l’essere umano ha diritto alla sua libertà prima ancora che al cibo e nella misura in cui questa libertà non lede la libertà di altri. In ogni caso, dal punto di vista di mio padre, questo è comunismo puro, staliniano, maoista, da degenerati e forse contagioso come l’AIDS.
Appunto: anni fa, mi occupavo di AIDS e rappresentazioni culturali: tipo come vengono immaginati i malati di AIDS al cinema, nei romanzi e in prodotti artistici assortiti. Dunque, inevitabilmente, ho tenuto una serie di corsi sull’omosessualità e sui queer studies. Il mondo è piccolo, e sembra che io ne conosca la porzione più amichevole e ciarliera. Perciò, a causa della consueta improbabile catena di comunicazioni che si crea ogni qualvolta una testolina iperattiva produce un pettegolezzo, non faticai a scoprire che i miei studenti, alla fine di uno di quei corsi, se ne andavano in giro a dire: “Ah, la prof è molto brava, anche se è lesbica”. A parte l’errore sulle mie scelte sessuali, mi colpì il curioso punto di vista secondo il quale l’omosessualità aveva effetti sul cervello oltre che sulle preferenze emotive ed erotiche. Ma io – che comunque ero stata etichettata come omosessuale – me l’ero cavata, ed ero rimasta “brava”.
Nel corso della mia ormai lunga carriera di insegnante, ho campionato una serie di definizioni interessanti, un assortimento di intuizioni che i giovani virgulti avevano su di me, sulla mia vita privata, sulle caratteristiche del mio guardaroba e sulle mie letture preferite. In nessun caso, era necessario che vi fosse un vero fondamento a queste intuizioni: quando si costruisce un’icona, lo si fa non sulla base delle caratteristiche reali di chi deve indossarla, ma su quelle che il veneratore dell’icona desidera siano tipiche del leader. La bellezza è nell’occhio di chi guarda. Oppure: così capiamo com’è potuto succedere che nel nostro immaginario occidentale ci sia un gesù che cammina sull’acqua e moltiplica pani, pesci e alcolici alla bisogna, che mica si può fare un matrimonio senza bersi un sano cicchetto. Comunque sia, io non ho nulla in contrario alle icone né alle fedi: ritengo siano umane, e per lo più una questione di punti di vista. Basta tenere a mente che i punti di vista sono per loro natura parziali, e possono cambiare a seconda dell’angolazione che scegli per guardare.
La mia figlia grande ha sempre avuto un debole filologico per le parole. Una parola significa quello che significa, e non ci si gira attorno. Quando era piccola e stava imparando a leggere le lettere dell’alfabeto, una volta passammo davanti all’insegna di un hotel. Lei guardò la scritta e lesse: “Accaotel”. Io le feci notare che la parola andava letta “otel”, perché l’acca era muta. Lei ripeté: “accaotel”. Poi mi guardò seria e aggiunse: “Mettiti nei suoi panni: come credi che si senta l’acca a non essere letta?”. Forse avevo esagerato coi discorsi sul rispetto per il diverso.
La mia figlia piccola, invece, quando era piccola, aveva un debole per la musica e per i fidanzati. Si fidanzava ogni due ore, e voleva sempre sposarsi. Siccome sia la scuola materna che la scuola elementare vedevano i bambini italiani in nettissima minoranza, la mia figlia piccola si innamorava continuamente di qualche bambino straniero. E poi voleva sposarsi. Sposarsi in chiesa e con l’abito bianco, come Cenerentola e il principe. Una volta, il compagno della mia vita le fece notare che forse Ahmed era musulmano e non avrebbe avuto piacere a sposarsi in chiesa. Lei rispose, sorpresa di tanta stupidità: “E che problema c’è? Ci sposiamo nella sua chiesa”. Meravigliosa saggezza: purché sia un rito, qualunque posto va bene, in un’anarchia religiosa che giova all’integrazione.
Tecnicamente, non sono anarchica. Piuttosto, un’intellettuale con poche idee ma confuse sulla gestione della cosa pubblica. E quelle poche frequentano ambiti tradizionalmente considerati come inutili. Scuola, università, biblioteche e luoghi di cultura. Scrivo persino. E non statistiche e bilanci. Addirittura storie. E, pensate un po’, le invento io. Le tiro fuori dal mio crapino inutile. Qualche tempo fa, una mia amica scrittrice - bravissima e di conseguenza di incerti successi - ha conosciuto un giovane caso letterario: un caimano, a tutti gli effetti, che tuttavia stava ramazzando, con la sua opera prima, una quantità di premi letterari. Il caimano, venne poi fuori nella conversazione, lavorava nella collana che lo aveva pubblicato, e già questo creava un piccolo, esiziale conflitto di interessi. Per di più, si seppe in seguito, il caimano era incorso in una incresciosa accusa di plagio perché – parrebbe – aveva appunto plagiato, per un racconto su una rivista di moda, un intero capitolo di un romanzo di Thomas Mann. Senza citare la fonte, s’intende. Una disdicevole dimenticanza.
Ora, vent’anni fa una cosa del genere ti avrebbe stroncato la carriera come scrittore e avrebbe derubricato la tua intelligenza umana a quella di un lombrico. Adesso no. Ed è un problema di punti di vista. Un grosso, monumentale, incomprensibile problema di punti di vista. Ed è il motivo per cui, come dice mia figlia grande, un tempo avevamo Leopardi, ora abbiamo il caimano.

Nicoletta Vallorani