rivista anarchica
anno 42 n. 368
febbraio 2012


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migranti

Le braccia dei migranti

AgenziaX ha appena pubblicato un libro che raccoglie, con un taglio antropologico, le voci di alcuni migranti. Ne è autore Andrea Staid, nostro collaboratore.
Pubblichiamo in queste pagine due testomonianze estrapolate dal libro; l'opinione di Elena Violato; lo scritto di Andrea Perin, posto in appendice al libro, sulle ibridazioni alimentari dei migranti.
Il tutto all'insegna di un auspicato meticciamento.

Foto di Chiara Beretta

Per contatti e presentazioni: lenostrebaccia@inventati.org

AgenziaX, Milano 2011, pagg. 169, €13,00
per comprarlo
in libreria (distribuzione Mimesis) o http://www.agenziax.it.

Migranti


Lo sfruttamento dei migranti

di Elena Violato

Contro gli identitarismi e contro l'avanzare di questa globalizzazione la proposta contenuta nel libro di Andrea Staid è quella del meticciato, che non dev'essere necessariamente un dato di fatto ma innanzitutto un atteggiamento mentale.

Migranti, immigrati, stranieri, clandestini, rifugiati, richiedenti asilo, arabi, asiatici, africani, sudamericani... insomma Loro... e Noi.
Noi abbiamo tanti pareri diversi su Loro, più o meno tante quante sono le forme del razzismo contemporaneo. Anche tra i benpensanti, tra quelli che magari con fare caritatevole cercano di dare sempre almeno un euro alla ragazza incinta fuori dalla chiesa che chiede l'elemosina, c'è sempre l'idea di fondo che Loro hanno bisogno di un aiuto e Noi, l'unica cosa che possiamo fare in tal senso, se non si ha cuore di rispedirli a casa, è tentare di farli integrare, invitarli, imporre loro di integrarsi...
Integrazione: Loro che vengono da Paesi politicamente e culturalmente arretrati devono adattarsi a Noi, diventare come Noi, esponenti dei Paesi civilizzati e democratici.
Come Noi che spingendo il capitalismo oltre ogni limite stiamo devastando un pianeta intero, l'economia mondiale e le vite di milioni di persone che proprio a causa Nostra sono costrette ad emigrare dalle loro terre e venire da Noi, solo per poi scoprire che per Loro qua non c'è felicità, e che a Noi possono andar bene solo come schiavi.
Noi che emulando l'efficienza delle macchine, aneliamo spasmodicamente di eliminare i basilari bisogni umani e dobbiamo fare i conti con un aumento di suicidi, di consumo di alcolici, di droghe, di psicofarmaci, un aumento che sembra essere direttamente proporzionale alla velocità con la quale aumenta il ritmo di “crescita”, di “evoluzione”, di “progresso”.
Noi che crediamo di essere il centro del mondo e al massimo siamo una delle maggiori cause della rovina del Mondo. Noi che vorremmo che anche chi non è Noi, incominci a vedere, a credere come Noi.
Se giunti a questo punto il termine “razzismo” per alcuni può apparire, nonostante tutto, troppo forte, allora si potrebbe proporre di parlare di “etnocentrismo”, cioè del mettere la propria cultura (intesa in senso antropologico) come chiave unica e giusta di lettura del reale.
E a proposito di questo risulta interessante il libro di Andrea Staid, “Le nostre braccia”, che lungi dal voler fare la classica esaltazione delle classi migranti oppresse e sfruttate, con l'intento di investirle della carica di soggetto rivoluzionario del ventunesimo secolo, tenta di andare oltre ed eliminare definitivamente il binomio Noi-Loro.
Lo fa primariamente mettendo in discussione il concetto di identità chiusa e definita una volta per tutte, mostrando come la storia del genere umano sia stata caratterizzata da continui cambiamenti, rimescolamenti e mutazioni, tant'è che in nessun caso si può parlare di culture “pure”, incontaminate da influssi esterni. Inoltre, continua Staid, oggi più che mai è assurdo inneggiare ad un'originalità dei costumi dato che con la globalizzazione e la mobilità internazionale, molte delle cose che mangiamo, facciamo, diciamo e pensiamo provengono da altre parti del pianeta e la tendenza è sempre di più quella di un appiattimento generale su un'unica grande monocultura, mix artificioso di tutte le culture del pianeta, il cui cavallo di battaglia rimane, nonostante la crisi, il lifestyle americano.
Contro gli identitarismi e contro l'avanzare di questa globalizzazione la proposta contenuta in questo testo è quella del meticciato, che non dev'essere necessariamente un dato di fatto ma innanzitutto un atteggiamento mentale.
La paura è debolezza, nient'altro, scrive Bruno Barba nella prefazione del libro Un'identità in costruzione - consapevole di esserlo -, accogliente, attenta, curiosa, aperta, non avrebbe nulla da temere.
Panta rei, tutto scorre, e Noi vorremmo fermare il mondo, non per scendere, ma per dominare.
Così non è e così non dev'essere, secondo Andrea Staid e secondo molti altri che vedono nella mutazione culturale una componente essenziale di qualsiasi processo che voglia anche solo vagamente definirsi “rivoluzionario”.

Elena Violato


Migranti


Le voci dei migranti

di Andrea Staid

Tra le numerose testimonianze riportate nel libro, abbiamo scelto di riproporre qui quelle di due migranti, rispettivamente dalla Mauritania e dal Ghana.

Dalla Mauritania / Moktar

Ho 27 anni arrivo dalla Mauritania, da una città vicino al deserto, molto povera con pochissime possibilità di trovare il lavoro. In Europa ci sono arrivato nel 2006. Sono approdato in Spagna passando per Ceuta. In quel periodo insieme ad altri amici marocchini avevamo iniziato delle lotte contro i muri che separavano il Marocco dalle vostre città. Non so se lo sai, ma Ceuta, che è nel nord del Marocco, in realtà è Europa, Spagna.
Insieme ad altri abbiamo cercato di scavalcare quei recinti per riuscire ad arrivare in Europa. I primi tentativi sono andati bene e io sono riuscito a passare, il problema è stato che nelle settimane a seguire la Guardia Civil ha aperto il fuoco contro i ragazzi e ci sono stati feriti e morti, ma nessuno se lo ricorda.
Nel marzo del 2006 arrivo ad Algeciras in Spagna senza permesso. Speravo tramite dei parenti che avevo nel sud della Spagna di trovare lavoro in fretta e dimenticare le tragedie che avevo vissuto. Ma non è andata così. I miei parenti non riescono a trovarmi lavoro e soprattutto non posso regolarizzare i miei documenti. Comincio a fare piccoli lavori nelle serre ma la paga è molto bassa e le ore di lavoro sono 12 tutti i giorni. Parlando con i miei parenti decido di partire verso l’Italia, a Genova dove il fratello di mio padre avrebbe dovuto trovarmi lavoro.
Verso la fine di Agosto del 2006 parto con un treno, compro il biglietto per me costosissimo visto i pochi soldi che ero riuscito a mettermi da parte. Il viaggio inizia bene incontro degli ottimi compagni di viaggio spagnoli. I problemi cominciano quando arrivo alla frontiera con la Francia. Dei poliziotti mi chiedono i documenti e si accorgono che il mio passaporto è senza permesso di soggiorno e mi fanno scendere dal treno.
Non ricordo precisamente il nome della stazione dove sono sceso mi sembra Cerbère. Io per fortuna parlo francese e almeno capivo la lingua, il problema era quello che mi dicevano. Non ho mai capito legalmente cos’è successo, io so soltanto che sono stato trattenuto delle ore in stazione fino a che mi hanno portato in un qualcosa di molto simile a una prigione. Dopo alcune ore che sono rinchiuso, mi dicono che mi avrebbero rimandato a casa mia. Io gli ho chiesto se potevano farmi tornare in Spagna e il poliziotto si è messo a ridere e mi ha fatto portare in una stanza con altre otto persone. In questa stanza eravamo tutti africani c’erano due ragazzi senegalesi, quattro marocchini e due egiziani.
Ero disperato e i ragazzi cercavano di tirarmi su di morale. Il giorno dopo comincio a capire grazie ad Hamed che sono in una prigione per immigrati e che dovevo fare qualcosa se non volevo tornare a casa da mia madre e le mie sorelle come uno sconfitto che non era stato in grado di trovarsi un lavoro.
Dopo quasi una settimana all’interno di questa prigione iniziano delle proteste, i primi giorni soltanto con le guardie che ci controllavano, a cui chiedevamo di poter telefonare alle nostre famiglie o a dei parenti che vivevano in Francia. Io non riuscivo a capire cosa fare non avendoli e soprattutto non sapevo come fare con mio zio a Genova che mi aspettava ormai da tempo.
Dopo qualche giorno le proteste diventano più forti ed è proprio Hamed uno dei più incazzati. Io decido di seguirlo nella protesta anche perché mi aveva detto che erano i giorni giusti per riuscire a scappare. Il capo guardia era uno distratto che si addormentava spesso durante le ore notturne. Era un martedì notte, mi ricordo bene, io e Hamed con altri due decidiamo che è il momento giusto per scappare ma per farlo dovevamo accettare di non correre il rischio di essere presi e portati in un’altra prigione che Hamed diceva essere ancora peggio.

Però i soldi mi servivano

Quella notte anche se ho avuto paura è stata una bella esperienza perché alla fine ce la abbiamo fatta. La cosa più difficile non è stato uscire dalla prigione ma una volta fuori muoversi a piedi con il buio senza sapere dove andare. Decidiamo di dividerci per non farci notare e ognuno va per la sua strada io riesco ad arrivare in poche ore di cammino al primo paese, Millas. In questo posto che non avevo mai sentito nominare, ho avuto fortuna di trovare dei ragazzi che mi hanno offerto una sigaretta chiedendomi come ero arrivato lì. Dopo che gli ho raccontato la mia storia, uno di loro mi dice che può aiutarmi. Mi parla di suo zio che ha della terra e che se volevo poteva farmi lavorare da lui. Io accetto anche se in realtà pensavo a come proseguire il mio viaggio e alla telefonata a mio zio. Però i soldi mi servivano per forza e soprattutto non sapevo come muovermi, dove andare. Provavo un senso di totale spaesamento e ripensavo alle mie giornate prima della partenza per il Marocco e se devo dirti la verità le rimpiangevo ma come ti dicevo prima non potevo tornare a casa.
Il giorno dopo conosco lo zio di Jean e comincio subito a lavorare, mi dice che per un mese posso stare li, dormire in una specie di casa costruita sul suo terreno, la paga per me era buona e in un mese avrei fatto i soldi che mi servivano per riaffrontare il viaggio e soprattutto mi sarei fatto un’idea su come arrivare a Genova.
Il lavoro era semplice, ma la fatica comunque era tanta, lavorare la terra non è una cosa che mi piace troppo… Quando andavo a lavorare provavo sempre un senso di paura, non sapevo se mi stavano cercando perché ero scappato dalla prigione e quindi non mi muovevo mai. Per un mese la mia giornata era occupata soltanto dal lavoro, mi alzavo, facevo colazione e andavo a raccogliere nel campo, una pausa per il pranzo e poi ritornavo a lavorare. Alla sera ero distrutto e non me la sentivo di andare in giro quindi se non passava Jean per fare due chiacchiere, mi mettevo a dormire. Molte volte mi distendevo, occhi chiusi e un milione di pensieri su cosa sarebbe potuto ancora accadere alla mia vita. Quando stavo in Mauritania lavoravo poco e la mia vita si ripeteva simile tutti i giorni, non mi sentivo pronto per un viaggio in un mondo sconosciuto, infatti rispetto ai miei amici, sono quello che ha iniziato il viaggio per l’occidente da più grande, avevo già 24 anni e nel mio paese non sono pochi come qua. Da noi a 24 anni sei un uomo e devi lavorare per la tua famiglia. Per questo che mi sono sentito costretto a partire.
Insomma ero agitato e soprattutto volevo arrivare in Italia dai miei parenti, ma non sapevo come fare. Ero spaventato dalla possibilità di finire rinchiuso un’altra volta.
In quel mese Jean mi ha aiutato a capire il modo migliore per arrivare a Genova e alla fine un suo amico che lavorava con il furgone mi ha offerto un passaggio fino al confine con l’Italia.
Luc, l’amico di Jean non se la sente di attraversare con me il confine e lo capisco. Quindi decido di passarlo da solo a piedi. Va tutto bene, il confine lo passo ed entro finalmente in Italia. Credevo di metterci qualche giorno invece ci ho messo mesi. A Sanremo prendo un treno per Genova e per fortuna va tutto per il verso giusto. Alla stazione di Porta Principe mi viene a prendere mio zio che non vedevo da quando avevo 12 anni. L’emozione è stata forte ma mio zio mi dice subito che è meglio andare via dalla stazione che in Italia la polizia fa ancora più controlli che in Francia. Questa frase me la ricordo ancora perché dalla felicità di pochi secondi prima ho pensato con terrore che potevano rimettermi in una prigione per immigrati.

Quando esco di casa, ci penso sempre

Anche a Genova non è stato semplice, grazie a mio zio avevo cibo e un letto nella sua casa. Ho cominciato a lavorare con lui nei mercati. Ma il problema dei documenti rimaneva.
Visto che mio zio non poteva regolarizzarmi dovevo cercarmi un lavoro in regola, ma il problema è che non avendo i documenti nessuno me lo voleva dare. Quindi tutti quelli da cui andavo a chiederlo mi dicevano che dovevo lavorare in nero perché non avevo il permesso di soggiorno.
La situazione oggi per me è ancora difficile, sì, sono riuscito dopo quattro anni a trovarmi una stanza con altri amici, ho imparato l’italiano ma non ho il permesso di soggiorno. Quando esco di casa ci penso sempre, ho paura anche di prendere un treno, perché so che se vengo fermato vado a finire in prigione. Quest’anno ho cominciato a informarmi con altri ragazzi africani e sud americani sulle possibilità che abbiamo di rivendicare i nostri diritti. Ho partecipato a manifestazioni per il permesso di soggiorno per i lavoratori immigrati ma se ti devo dire la verità sono pessimista, non riesco a credere in una vittoria, la mia speranza è di riuscire a sposarmi e di trovare un lavoro con il contratto.

Dal Ghana / Ajene

Il mio viaggio per arrivare in Italia è iniziato nel deserto tra l'Africa sub-sahariana e i Paesi del Maghreb. Io abitavo in Ghana. Ho iniziato la mia traversata a bordo di un camion guidato da un ragazzo di Tripoli.
Durante il viaggio siamo stati fermati tante volte dalla polizia e ci hanno rubato tutto quello che avevamo. Ho visto con i miei occhi persone costrette dai militari a bere acqua sporca per provocare problemi intestinali, per costringere a espellere le palline con le banconote arrotolate nel cellophane che avevano ingoiato per non farsi derubare. Due ragazzi sono stati ammazzati come cani perché non volevano dargli tutto1. Queste cose sono dure da sopportare e il viaggio è stato lungo e difficile. Non abbiamo mangiato mai nulla e avevamo soltanto una bottiglia d’acqua, siamo entrati in Libia nei pressi della frontiera di Toummo se non ricordo male anche perché ora comincio a dimenticare, sono passati quasi dieci anni da quei giorni. Io sono stato molto fortunato perché ero riuscito a nascondere bene i miei soldi. Arrivato in Libia dalla frontiera sono riuscito a raggiungere in poco tempo Tripoli e da li ho cominciato a capire cosa devo fare per imbarcarmi e per arrivare in Italia. Non vedevo l'ora di iniziare la mia nuova vita.
Sapevo che non sarebbe stato facile e che mi sarebbe costato tanto, sia per i soldi sia per la mia testa, ma non pensavo così tanto. A Tripoli sono riuscito a mettermi in contatto con alcuni ragazzi che volevano andare in Italia a lavorare e che sapevano a chi chiedere, ma il prezzo per il “passaggio” era veramente troppo alto. Speravo di trovare qualcosa di meglio ma alla fine ho capito che dovevo aspettare… Trovarmi un lavoro in Libia, mettere da parte i soldi e partire.

All'epoca non parlavo italiano

A Tripoli ho lavorato tre mesi per accumulare soldi, mangiavo il meno possibile, non uscivo mai e non conoscevo quasi nessuno, facevo una vita orribile. Ma alla fine avevo i soldi che mi chiedevano e sono partito. Era una notte nell’estate del 2002. Il viaggio in mare è stato se possibile ancora più duro di quello nel deserto, prima di tutto perché io non avevo mai viaggiato in mare e poi perché la barca era piccola e noi eravamo tanti, quasi tutti uomini africani, poche donne e solo due o tre bambini, se non ricordo male. Parlando poi in Italia con tanti amici africani penso che io sono stato fortunato perché nella nostra barca non è morto nessuno, anche se in molti sono stati male.
A Lampedusa la polizia ci consegna un numero, acqua e cibo e ci porta in una specie di carcere. Lì capisco che devo lottare ancora per riuscire a vivere libero e trovarmi un lavoro. All’epoca non parlavo italiano e anche questo era un problema perché non capivo quello che mi dicevano. Da Lampedusa però riesco ad andarmene abbastanza in fretta, anche perché quasi tutte le sere arrivavano altre barche e non ci stavamo più. Ci hanno spostato in Puglia ma non ne sono sicuro, in un centro che sembrava meno carcere come quello di Lampedusa. C’era poca polizia e soltanto una rete all’entrata. Dopo tre giorni in questo centro, conosco Labaan e con lui decidiamo di andarcene senza aspettare il permesso perché avevamo capito che ci volevano rimandare a casa nostra e dopo tutti i sacrifici fatti per arrivare e cambiare vita, era una cosa che non poteva proprio succedere.
Andiamo via di notte, non è stato difficile perché come ti dicevo c’era solo una rete e la polizia sembrava non guardasse troppo quello che facevamo, infatti andò tutto bene. Una volta scavalcata la rete nessuno ci fermò.
Da lì abbiamo passato la notte a pochi chilometri dal centro, ci siamo messi a dormire in un campo ben nascosti. Con la luce siamo andati alla ricerca di una stazione per riuscire ad andare via dal sud Italia verso il nord che ci aspettavamo ricco e pieno di lavoro.
Troviamo la stazione dopo poche ore di cammino e decidiamo che è meglio separarci per non dare nell’occhio anche perché il primo problema da affrontare era come pagare il treno, visto che non avevamo i soldi italiani.
Io mi presento alla biglietteria ma non concludo nulla, capisco che però è impossibile prendere un solo treno per arrivare a Milano, ne devo prenderne almeno due. Visto che non potevo pagare con i miei soldi, avevo anche 20 dollari ma non li hanno voluti. Salgo sul treno per Roma senza biglietto. Anche Labaan sale sullo stesso treno anche se non ci mettiamo nello stesso vagone. Da lì non ci siamo più rivisti e spero che anche per lui il viaggio sia continuato senza troppi problemi. A Roma riesco a cambiare i miei dollari e a fare il biglietto per un treno fino a Modena, la città dove ho fatto il mio primo lavoro italiano.

Sinceramente mi sento afritaliano

A Modena scendo in stazione molto presto di mattina, sono totalmente spaesato e anche se dentro di me sono felice, capisco che la mia situazione è complicata, non ho nessuna carta che dice che posso stare in Italia. Per fortuna incontro dopo poche ore dei ragazzi Ghanesi che mi aiutano subito, mi invitano a mangiare nella loro casa e mi spiegano che è meglio se non me ne vado in giro troppo senza il permesso di soggiorno. Questi ragazzi sono stati la mia salvezza perché per un mese mi hanno fatto dormire sul loro divano, facendomi conoscere gli italiani giusti che mi hanno aiutato a trovare lavoro. Sono stato nelle campagne per sei mesi, venivo pagato poco ma almeno riuscivo a mangiare e a permettermi una stanza in affitto. Il problema del permesso però rimaneva perché non lavoravo in regola.
Dopo questo lavoro ne ho trovato uno meno faticoso e pagato meglio, lavoravo da un benzinaio dove sono rimasto quasi un anno, il padrone era tranquillo ma anche lui mi diceva che non aveva i soldi per regolarizzarmi. I miei amici italiani mi dicevano che entro poco ci sarebbe stata una sanatoria per tutti i migranti e di non preoccuparmi e io ci speravo anche perché sinceramente mi stavo trovando bene. Nella mia testa c’era ancora la voglia di andare a Milano, la città dove avrei potuto fare un vero lavoro e guadagnare bene per mettermi da parte dei soldi.
Dopo 5 anni a Modena senza permesso di soggiorno e altri due lavori, uno in un forno e uno in una cooperativa edile, trovo un lavoro vicino a Milano in una fabbrica metal-meccanica come operaio, questo lavoro l’ho trovato grazie a un amico, Mario che erano anni che cercava una possibilità per la mia regolarizzazione. In questa fabbrica ho lavorato duramente per due anni, mi hanno fatto subito il contratto, con varie difficoltà ma alla fine ce la abbiamo fatta e ho ottenuto un permesso di soggiorno legato al mio contratto. Guadagnavo più di mille euro al mese, finalmente potevo avere una casa e una vita tutta mia. In quei due anni 2007\8 ho conosciuto vari amici e amiche, uscivo la sera e mi occupavo insieme ad africani e italiani di una scuola di italiano per migranti.
È stata un’esperienza molto bella e soprattutto ho conosciuto Monica, mia moglie, una ragazza toscana di Firenze ma che stava a Milano. Adesso siamo sposati e io sono diventato italiano. Sinceramente non mi sento proprio italiano, ma afritaliano, nel senso che non vivo più da Ghanese ma non sono neanche un italiano al 100%. Certo tante cose della vostra cultura ormai fanno parte di me, le ultime esperienze si sono incontrate e mescolate con la mia parte africana. Anche se non è stato facile, adesso amo l’Italia, mi piace la musica, la cucina, il cinema, ma amo anche l’Africa, il mio paese dove finalmente posso tornare senza paura per stare con la mia famiglia.
Quando vado in Ghana per i figli di mia sorella sono un italiano con la faccia nera e che parla la loro lingua ma per gli italiani sono un africano che lavora in Italia, insomma un casino ma finalmente sono felice. Anche se non finirò mai di pensare a tutti i fratelli che non ce la fanno, che muoiono nel viaggio o che vengono riportati a casa dalla polizia. Io alla fine sono stato fortunato e adesso devo lottare per i diritti di tutti quelli che non sono arrivati o che vogliono arrivare.

Andrea Staid

Per chi rimane senza soldi il viaggio si tramuta in tragedia. Secondo diverse testimonianze le oasi del deserto nigerino e libico sarebbero disseminate di schiavi. Giovani partiti dall'Africa occidentale alla volta dell'Europa e rimasti bloccati senza soldi per proseguire né per ritornare.

Interviste non strutturate, perché...

L’intervista riveste un ruolo importante nella ricerca sociale e antropologica, sottolinea il grande valore dell’oralità, della visualità, della partecipazione e dell’osservazione, rende fondamentale il contatto diretto per la costruzione di uno studio antropologico.
Si possono usare diverse tipologie di interviste, per esempio interviste non strutturate, semistrutturate e strutturate.
Io ho scelto, per la costruzione della mia ricerca, l’intervista non strutturata. Con questo tipo di intervista, che racconta storie di vita, ho tentato di realizzare una comprensione profonda, complessa del punto di vista e della situazione degli intervistati.
Desideravo scoprire le esperienze, le sofferenze delle donne e degli uomini che ho intervistato, ho cercato di esaminare a fondo le loro storie di vita da migranti, permettendogli di comunicare liberamente. Proprio per questo motivo questo tipo di intervista è denominata non strutturata.
Ho lasciato l’intervistato libero di parlare delle esperienze importanti, con una mia influenza poco direzionale, cercando di stabilire dei rapporti umani, fondamentali perché dovevano fidarsi di me per rivelarmi informazioni intime della loro vita.
Per questo è importante lasciare ora la parola ai migranti, lavoratori precari, sfruttati che vivono con noi e che troppo spesso non vogliamo ascoltare. Le interviste costituiscono parte integrante del testo, sono i racconti delle donne e degli uomini che hanno vissuto i fatti che raccontano, sono le storie orali, documenti di grande importanza per capire la complessità della vita quotidiana.
In una società che ci sottopone a un continuo sovraccarico informativo gli eventi ci vengono raccontati da altri quasi in tempo reale, facendo perdere agli individui la capacità di sentirsi testimoni o narratori delle situazioni di cui si è stati protagonisti.
Rendersi protagonisti, e non meri spettatori, della memoria, significa invece saper ascoltare, significa ricostruire esattamente gli eventi e il loro significato, ma anche riuscirli a rappresentare attraverso i protagonisti diretti. Senza aver parlato, discusso con i migranti questo testo non sarebbe esistito.

A.S.


Migranti

I piatti dei migranti

di Andrea Perin

Che cosa mangiano i migranti? Si può parlare di meticciamento anche a tavola?
In appendice al libro “Le nostre braccia” questo scritto di Andrea Perin ci fa sedere a tavola e scoprire che....

Si può definire meticcia una cucina? Se la si affronta nel suo percorso storico nessuna tradizione è pura, ognuna si è modificata nel corso tempo con scambi e ingressi. La stessa cucina italiana, una delle più ricche e articolate al mondo, non è un modello codificato e unitario bensì una rete di saperi e pratiche, strutturatisi in secoli di storia grazie anche alla posizione centrale che la penisola occupa nel Mediterraneo e che ha portato a secoli di occupazioni subite (e imposte), commerci con tutto il mondo, immigrazioni ed emigrazioni (1). Da ultimo, i poderosi trasferimenti che portarono milioni di persone dal sud al nord, che hanno rimescolato ancora gusti e ingredienti.
Si tratta di una storia spesso dimenticata, oppure omessa per superficialità o interesse: la tipicità non di rado viene spacciata per tradizione, e la stessa tradizione viene presentata come un fattore statico che attraversa i secoli immutabile. Si vagheggia di un passato fatto di natura e sincerità, mentre per la maggior parte della popolazione la quotidianità era fatta di fame e miseria. La cucina italiana è diventata in molti casi un astratto elemento identitario da difendere, una barricata rispetto all’invasione di “stranieri”.
In questo contesto il termine meticcio può essere utile per definire un tipo di cucina: non la moda fusion dei ristoranti glamour e neppure le fantasie dei blogger gastrofanatici, ma la contaminazione casalinga di ricette, ingredienti e conoscenze delle diverse culture che si confrontano nella società, una pratica che supera nella consuetudini le barriere culturali che limitano l’incontro e lo scambio. È un termine che trova giustificazione nell’impatto accelerato che la contemporaneità comporta nei cambiamenti rispetto al passato quando le modifiche delle abitudini richiedevano decenni o anche secoli (2). E soprattutto nella conseguente possibilità di scegliere.

Orgoglio culturale

«È l’era del politeismo alimentare che spinge le persone a mangiare di tutto, senza tabù, generando combinazioni soggettive di alimenti e anche di luoghi ove acquistarli, neutralizzando ogni ortodossia alimentare». Nel primo rapporto Coldiretti/Censis del 2010 sulle abitudini alimentari degli italiani si evidenzia che “il rapporto con il cibo è una dimensione sempre più soggettiva, espressione dell’io che decide e che, a partire dalle proprie preferenze, abitudini, prassi e aspettative, nonché dalle risorse di cui dispone, definisce il contenuto del carrello e della tavola”. Solo per il 30,4% la propria alimentazione deriva ormai dalla tradizione familiare (3).
Se l’immigrazione, con l’arrivo di nuovi gusti e nuovi prodotti, è anche un’occasione per allargare le possibilità a tavola degli italiani, la situazione per i migranti è sicuramente più complessa. Si sono scritti fiumi di inchiostro per raccontare come il cibo sia un fattore identitario, sull’importanza che assume per uno straniero costretto a cambiare tutti gli aspetti della sua vita. Per molti, specialmente qualche anno fa quando le comunità erano meno organizzate, è stata in effetti un’autentica sofferenza doversi cibare solo di pietanze italiane è «L’inizio è stato un po’ faticoso soprattutto perché non si trovava il nostro riso o altri ingredienti” (Hasina, Bangladesh) (4). Spesso era difficoltoso trovare alimenti compatibili con la propria religione.
Per tutte le comunità la cucina è un orgoglio culturale e una esternazione di appartenenza. Basta scorrere le pubblicazioni o partecipare alle feste dove sono i migranti stessi a raccontare o eseguire i proprie piatti per verificare come le ricette siano riproposte uguali a quelle eseguite a casa, come se centinaia o migliaia di chilometri di distanza fossero annullati.
«Quando ero un po’ più grande mia madre mi ha detto: “Quando finirai la scuola tu dovrai andare in un altro paese a cercare lavoro, qui non ci sono soldi, devi andare in un altro paese. Non ci sarò più io a cucinare per te, e chi aiuterà te? Devi imparare adesso, guarda bene come faccio, sei grande abbastanza per imparare a cucinare”» (Somot e Raju, Bangladesh) (5).
In realtà per il migrante l’alimentazione più che veicolare un’astratta appartenenza a una patria o definire una specificità culturale, rappresenta un legame emotivo e sensoriale soprattutto con la famiglia lontana, con i sapori condivisi sin dall’infanzia: i modelli gastronomici sono la cucina della mamma e della nonna, che sommati e condivisi con gli altri costruiscono un gruppo, una comunità (6). «Sono molto contento di cucinare questo piatto perché mi ricorda la mia famiglia, specialmente mia nonna, che cucinava i Domoda per noi, sempre. Ho mangiato cose diverse in Italia, ma non ho ancora trovato il cibo che mi ricorda la mia famiglia. - racconta Muhammed del Gambia - Quando mi hanno informato della cena, sono stato molto contento di cucinare i Domoda per ricordare la mia famiglia. Questo incontro è molto importante perché mi sento come con la mia famiglia» (7).
Bahaa, egiziano: «Quando cucino questo piatto mi sento come dentro a casa mia in Egitto, con la mia famiglia. Ogni volta che cucino questo piatto mi sento come dentro le braccia di mia madre. Perché è troppo buona, come un dolce» (8).

Accorciare le distanze

Il cibo definisce chi appartiene e per esclusione identifica lo straniero, ma non è solo questo: è anche il primo grado di scambio e di riconoscimento dell’altro. Mangiare il cibo del diverso, dello straniero, vuol dire accorciare le distanze e appropriarsi di un pezzetto dell’identità altrui, farla propria. Se è vero che il “sapore è sapere”, è sempre possibile imparare nuovi gusti.
La realtà per i migranti è meno lineare della semplice conservazione della propria tradizione perché il consumo alimentare risulta assai pragmatico e comprende spesso la cucina italiana, sia sui luoghi di lavoro o a scuola che a casa.
«Fino a pochi anni fa pensavo che il cibo senegalese fosse il più buono al mondo. Ora penso che sia stata una gran fortuna conoscere anche quello italiano» (Aliou, Senegal) (9).
«Io e mio marito preferiamo le cose fast tipo pasta, cose insomma che si preparano rapidamente durante la settimana, quando siamo di corsa. Quando c’è tempo cucino marocchino, o se c’è gente a cena o pranzo o durante le feste religiose. Le cose italiane sono più veloci da preparare» (Sara, Marocco) (10).
I risultati di un’indagine svolta nel biellese nel 2006 sui consumi alimentari di un piccolo campione di migranti hanno mostrato ad esempio una notevole familiarità e assimilazione con il modello italiano, insieme a un allontanamento dalle usanze più tradizionali: la maggior parte quotidianamente mangia e beve «all’italiana» (81,3%) o consuma «cibi e bevande internazionali» (20,5%). I cibi del paese d’origine vengono consumati saltuariamente (32,5%) o addirittura mai (17,5%) (11).
Questa disinvoltura a tavola nasce in buona parte dalla comodità, visto che la cucina italiana è ritenuta più facile e veloce, spesso è desiderio di omologazione al modello della cultura ospite: sono sempre di più i corsi di cucina italiana per migranti, anche per obbligo professionale (colf, collaboratrici, etc.).
I migranti poi sono inseriti stabilmente nei processi produttivi della catena alimentare italiana. Sono già oltre 38mila nel 2010 le imprese del settore gestite da migranti secondo una ricerca del FIPE, pari al 12,1% del totale, e se oltre 2.500 sono i ristoranti etnici è ormai evidente a tutti come molti ruoli siano coperti da «stranieri» anche nei bar, nelle panetterie, nelle pizzerie, nelle cucine di ristoranti e trattorie. Senza contare le persone impiegate nella produzione, come nei prosciuttifici emiliani o nei caseifici del grana padano e della fontina valdostana (12).
Tanto che, in un provocatorio articolo il New York Times di qualche anno fa si chiedeva: “Is the Cuisine Still Italian Even if the Chef Isn’t?”. Sebbene la a cucina italiana sia una delle più impermeabili alle modifiche, scriveva il corrispondente, sarà sempre uguale o comincerà a subire modifiche dai suoi cuochi «stranieri»? (13).
Senza scomodare gli chef professionali sono le cucine casalinghe i laboratori del cambiamento, dove nella quotidianità dell’alimentazione si fondono i sapori, le esperienze si incrociano, i gusti si adattano. Se nelle feste si mangia come lo preparavano la mamma o la nonna, e agli amici si offre la cucina tradizione per soddisfare le aspettative, per sé e per i propri familiari e gli amici più stretti ci si comporta come in ogni cucina del mondo: ci si adatta alla disponibilità della dispensa e del frigorifero.
Sono modifiche quasi clandestine, al di fuori delle regole, che si possono al momento cogliere solo per singoli fotogrammi senza una visione generale: alle feste o nei libri non compaiono o si negano, qualche volte si leggono in trasparenza, quasi mai sono oggetto di specifiche attenzioni o sono protagoniste di avvenimenti. D’altro canto, quando mai un ricettario è specchio fedele della realtà?

Una sorta di meticciato industriale

Una prima causa di meticciamento, forzata, è dovuta alla sostituzione degli ingredienti originali con le con materie prime del luogo: «Questa ricetta che vi presento oggi è il bulz come l’abbiamo mangiato a Pasqua in Romania a Moeciu preparato però quando siamo tornati a casa con la farina di mais italiano, la salsiccia bolognese e il formaggio che abbiamo comprato in Romania.» (14)
La differenza è data proprio dal sapore che il mercato e la produzione italiana conferiscono a verdure, frutta e carne, spesso anche all’acqua : “In realtà però, quando si tratta di ingredienti freschi, utilizzati sia nella cucina russa sia in quella italiana (...), devo ammettere che il gusto è notevolmente diverso da quello dei prodotti della mia terra” (Alla, Russia) (15).
È probabilmente facile adattare le ricette italiane ai propri gusti, tenendo presente che i piatti più conosciuti e apprezzati sono soprattutto i primi o la pizza, ottime basi cui aggiungere e modificare sapori. «Io ad esempio, preparo una carbonara speciale con modifiche al dosaggio e con l’aggiunta di panna acida» (Daniel, Romania) (16), mentre la giapponese Ayame condisce gli spaghetti con tonno, daikon e alghe nori (17) e Alexandra, di madre cretese, mette la cannella nel ragù delle lasagne (18). «Le spezie sono tipiche di giù e ce le portiamo qui, poi le usiamo sulla pasta e viene un mix ottimo» (Shaima, Marocco) (19).
In ritardo di anni rispetto all’Europa, sta iniziando una produzione industriale di cibo italiano «halal», una sorta di meticciato industriale, che rende lecite ai mussulmani le ricette che conterrebbero ingredienti non assimilabili (20).
Un processo meno scontato è l’intervento e la modifica sui propri piatti identitari, ad esempio con l’introduzione di ingredienti italiani prima sconosciuti. «Quando cucino piatti peruviani aggiungo spesso formaggi italiani, anche perché mi piace fare degli esperimenti» (Maritta, Perù). «Il riso che comunemente si mangia in Romania, lo modifico con l’aggiunta di funghi, zucchine e quant’altro» (Daniel, Romania) (21). Oppure con una semplificazione dei piatti tradizionali, come fa Modou tramutando in risotto il senegalese ceebu jn (22) (senza dimenticare che in patria spesso gli uomini non cucinano).
Ma chi opera questi cambiamenti, e perché? La sensazione è che in generale non esistano regole ma solo situazioni, disponibilità e curiosità, e che diventa una scelta programmatica e consapevole solo in alcuni casi, come ad esempio quello delle coppie miste: qui l’incontro dei sapori assume spesso il valore anche orgoglioso di uno scambio riconosciuto, di una metafora della propria condizione, a volte rappresenta un equilibrio per conciliare le diverse tradizioni e abitudini.
«Non posso passare la vita a escludere mio marito dalla cucina italiana che amo tanto, ma troppe ricette prevedono vino, per sfumare, soffriggere, aromatizzare, pancetta dolce o affumicata per aggiungere sapore - scrive Cristina - Ho provato e ho scoperto ottimi compromessi, le ricette si ‘sporcano’ un po’ e noi ci mescoliamo» (23).
Per quelle che vengono chiamate burocraticamente «Seconde generazioni», e che rispecchiano condizioni assai variegate tra loro, le abitudini di consumo alimentare esprimono in maniera evidente la doppia appartenenza culturale, spesso non vi sono rigide preferenze per i cibi italiani o quelli della propria tradizione, che vengono consumati indifferentemente. Vista la giovane età raramente cucinano e si confrontano con la creazione di sapori, ma spesso il soddisfacimento congiunto delle diverse appartenenze culturali a tavola è una via potenzialmente aperta a nuove forme di meticciamento, anche a quelle che incrociano tradizioni diverse da quella italiana.
Per concludere, se la cucina meticcia è un’esperienza casalinga e dispersa, resterà qualcosa di condiviso? «L’unica grande regola del meticciato è l’assenza di regole. (...) Ciò che nascerà dall’incontro rimane sconosciuto» (24). Sono troppe le variabili per fare previsioni, e in fondo non importa. La cucina è un’attività libera, fuori dai controlli e in sostanza refrattaria alle imposizioni, anche da quelle fintamente benevole dei ricettari tradizionali e non.
Ed è bello vedere come le barriere culinarie, erette a difesa delle identità, si possano superare in un boccone.

Andrea Perin

Note

  1. Alberto Capatti, Massimo Montanari, La cucina italiana. Storia di una cultura, Laterza, Roma-Bari 1999; Massimo Montanari, L’identità italiana in cucina, Laterza, Roma-Bari 2010.

  2. Montanari Massimo, Il cibo come cultura, Laterza, Roma-Bari 2004; Arjun Appadurai, Modernità in polvere, Meltemi, Roma 1996.

  3. http://www.coldiretti.it/docindex/cncd/informazioni/747_09.htm.

  4. Reza Rashidy (a cura di), Mi racconto... Ti racconto. Storie e ricette del nostro mondo, Editrice Coop Consumatori, Bologna 2007, p. 44.

  5. Testimonianza raccolta durante la rassegna “Parole di frontiera”, nella serata dedicata al “Piacere”, cena aperta di condivisione di piatti, svoltasi nel circolo arci La Scighera di Milano, 13 maggio 2010. A cura di Naga e arci Scighera, in collaborazione con Associazione Asinitas di Milano.

  6. Klaus E. Müller, Piccola etnologia del mangiare e del bere, Il Mulino, Bologna 2005, p. 109-116.

  7. Testimonianza raccolta durante la rassegna “Parole di frontiera”.

  8. Testimonianza raccolta durante la rassegna “Parole di frontiera”.

  9. Le ricette di Sunugal. Scambio di sapori e saperi tra Italia e Senegal, Milano 2011, pp. 27,28.

  10. Laura Fontana Sabatini, I consumi e i cultural bridging: le seconde generazioni di donne egiziane e marocchine a Milano, Tesi di Laurea Specialistica in Marketing Management, Università Commerciale Luigi Bocconi, Facoltà di Economia di Milano, Anno Accademico 2007-2008, p. 63.

  11. Emilio Sulis (a cura di), Abitudini, opinioni e consumi migranti. Un approfondimento nel contesto biellese, in Carla Fiorio, Enzo Mario Napolitano e Luca Massimiliano Visconti (a cura di), Stili migranti, i quaderni di welcome marketing etnica, 2007, p. 169-199.

  12. http://www.confcommercio.it/home/Inchieste/Il--melting-pot--della-ristorazione-italiana.htm_cvt.htm.

  13. Lo spunto per l’articolo furono il premio del Gambero Rosso per la miglior carbonara a Nabil Hadj Hassen, chef d’origine tunisina, e il secondo posto del premio conferito dalla prestigiosa rivista gastronomica a un ristorante il cui capo cuoco è indiano. Ian Fisher, Is the Cuisine Still Italian Even if the Chef Isn’t?, New York Times, 7 aprile 2008.

  14. http://lacucinadicrista.blogspot.com/2011/06/bulz-ca-la-moeciu-like-i-eat-at-moeciu.html.

  15. Benedetta Cucci (a cura di), Ricette delle nuove famiglie d’Italia, Pendragon, Bologna 2010, p.94.

  16. Reza Rashidy (a cura di), op. cit., p. 216

  17. Intervista in JallaJalla, Radio Popolare di Milano dell’11 marzo 2011, in studio Andrea Perin e Nello Avellani. Vd. Anche http://ricettescorrette.noblogs.org/post/2011/07/08/jallajalla-storia-della-pasta/.

  18. Intervista in JallaJalla, Radio Popolare di Milano del 30 aprile 2010, in studio Andrea Perin e Paolo Maggioni. vd. Anche http://ricettescorrette.noblogs.org/post/2010/05/03/jallajalla-alexandra-e-le-lasagne-alla-cannella/.

  19. Laura Fontana Sabatini, op.cit., p. 62.

  20. Ad esempio http://www.trealfierihalal.com.

  21. Reza Rashidy (a cura di), op. cit., p. 200 e p. 216.

  22. Intervista in JallaJalla, Radio Popolare di Milano del 6 febbraio 2010 – in studio Andrea Perin e Paolo Maggioni. Vd. Anche http://ricettescorrette.noblogs.org/post/2010/03/04/jallajalla-modou-e-il-riso-alla-modouu.

  23. http://cribaba.blogspot.com/2011/04/brasato-al-barolo-per-palati-islamici.html.

  24. François Laplantine, Alexis Nouss, Il pensiero meticcio, Elèuthera, Milano 2006, p. 10.