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				 Migranti 
				  Lo
				sfruttamento dei migranti 
				di Elena Violato 
				Contro gli identitarismi e contro
				l'avanzare di questa globalizzazione la proposta contenuta nel
				libro di Andrea Staid è quella del meticciato, che non
				dev'essere necessariamente un dato di fatto ma innanzitutto un
				atteggiamento mentale. 
				Migranti,
				immigrati, stranieri, clandestini, rifugiati, richiedenti asilo,
				arabi, asiatici, africani, sudamericani... insomma Loro... e
				Noi. Noi abbiamo tanti pareri diversi su Loro, più o meno
				tante quante sono le forme del razzismo contemporaneo. Anche tra
				i benpensanti, tra quelli che magari con fare caritatevole
				cercano di dare sempre almeno un euro alla ragazza incinta fuori
				dalla chiesa che chiede l'elemosina, c'è sempre l'idea di fondo
				che Loro hanno bisogno di un aiuto e Noi, l'unica cosa che
				possiamo fare in tal senso, se non si ha cuore di rispedirli a
				casa, è tentare di farli integrare, invitarli, imporre loro di
				integrarsi... Integrazione: Loro che vengono da Paesi
				politicamente e culturalmente arretrati devono adattarsi a Noi,
				diventare come Noi, esponenti dei Paesi civilizzati e
				democratici.  Come Noi che spingendo il capitalismo oltre ogni
				limite stiamo devastando un pianeta intero, l'economia mondiale e
				le vite di milioni di persone che proprio a causa Nostra sono
				costrette ad emigrare dalle loro terre e venire da Noi, solo per
				poi scoprire che per Loro qua non c'è felicità, e che a Noi
				possono andar bene solo come schiavi. Noi che emulando
				l'efficienza delle macchine, aneliamo spasmodicamente di
				eliminare i basilari bisogni umani e dobbiamo fare i conti con un
				aumento di suicidi, di consumo di alcolici, di droghe, di
				psicofarmaci, un aumento che sembra essere direttamente
				proporzionale alla velocità con la quale aumenta il ritmo di
				“crescita”, di “evoluzione”, di “progresso”. Noi
				che crediamo di essere il centro del mondo e al massimo siamo una
				delle maggiori cause della rovina del Mondo. Noi che vorremmo che
				anche chi non è Noi, incominci a vedere, a credere come Noi. Se
				giunti a questo punto il termine “razzismo” per alcuni può
				apparire, nonostante tutto, troppo forte, allora si potrebbe
				proporre di parlare di “etnocentrismo”, cioè del mettere la
				propria cultura (intesa in senso antropologico) come chiave unica
				e giusta di lettura del reale. E a proposito di questo risulta
				interessante il libro di Andrea Staid, “Le nostre braccia”,
				che lungi dal voler fare la classica esaltazione delle classi
				migranti oppresse e sfruttate, con l'intento di investirle della
				carica di soggetto rivoluzionario del ventunesimo secolo, tenta
				di andare oltre ed eliminare definitivamente il binomio
				Noi-Loro. Lo fa primariamente mettendo in discussione il
				concetto di identità chiusa e definita una volta per tutte,
				mostrando come la storia del genere umano sia stata
				caratterizzata da continui cambiamenti, rimescolamenti e
				mutazioni, tant'è che in nessun caso si può parlare di culture
				“pure”, incontaminate da influssi esterni. Inoltre, continua
				Staid, oggi più che mai è assurdo inneggiare ad un'originalità
				dei costumi dato che con la globalizzazione e la mobilità
				internazionale, molte delle cose che mangiamo, facciamo, diciamo
				e pensiamo provengono da altre parti del pianeta e la tendenza è
				sempre di più quella di un appiattimento generale su un'unica
				grande monocultura, mix artificioso di tutte le culture del
				pianeta, il cui cavallo di battaglia rimane, nonostante la crisi,
				il lifestyle americano. Contro gli identitarismi e contro
				l'avanzare di questa globalizzazione la proposta contenuta in
				questo testo è quella del meticciato, che non dev'essere
				necessariamente un dato di fatto ma innanzitutto un atteggiamento
				mentale.  La
				paura è debolezza, nient'altro,
				scrive Bruno Barba nella prefazione del libro Un'identità
				in costruzione
				- consapevole
				di esserlo
				-, accogliente,
				attenta, curiosa, aperta, non avrebbe nulla da temere. Panta
				rei, tutto scorre, e Noi vorremmo fermare il mondo, non per
				scendere, ma per dominare. Così non è e così non
				dev'essere, secondo Andrea Staid e secondo molti altri che vedono
				nella mutazione culturale una componente essenziale di qualsiasi
				processo che voglia anche solo vagamente definirsi
				“rivoluzionario”. 
				 
				Elena
				Violato 
				 
				Migranti 
				 Le voci dei migranti 
				di Andrea Staid 
				 
				Tra le numerose testimonianze riportate nel
				libro, abbiamo scelto di riproporre qui quelle di due migranti,
				rispettivamente dalla Mauritania e dal Ghana. 
				Dalla Mauritania / Moktar 
				Ho
				27 anni arrivo dalla Mauritania, da una città vicino al deserto,
				molto povera con pochissime possibilità di trovare il lavoro. In
				Europa ci sono arrivato nel 2006. Sono approdato in Spagna
				passando per Ceuta. In quel periodo insieme ad altri amici
				marocchini avevamo iniziato delle lotte contro i muri che
				separavano il Marocco dalle vostre città. Non so se lo sai, ma
				Ceuta, che è nel nord del Marocco, in realtà è Europa,
				Spagna. Insieme ad altri abbiamo cercato di scavalcare quei
				recinti per riuscire ad arrivare in Europa. I primi tentativi
				sono andati bene e io sono riuscito a passare, il problema è
				stato che nelle settimane a seguire la Guardia Civil ha aperto il
				fuoco contro i ragazzi e ci sono stati feriti e morti, ma nessuno
				se lo ricorda. Nel marzo del 2006 arrivo ad Algeciras in
				Spagna senza permesso. Speravo tramite dei parenti che avevo nel
				sud della Spagna di trovare lavoro in fretta e dimenticare le
				tragedie che avevo vissuto. Ma non è andata così. I miei
				parenti non riescono a trovarmi lavoro e soprattutto non posso
				regolarizzare i miei documenti. Comincio a fare piccoli lavori
				nelle serre ma la paga è molto bassa e le ore di lavoro sono 12
				tutti i giorni. Parlando con i miei parenti decido di partire
				verso l’Italia, a Genova dove il fratello di mio padre avrebbe
				dovuto trovarmi lavoro. 
  Verso
				la fine di Agosto del 2006 parto con un treno, compro il
				biglietto per me costosissimo visto i pochi soldi che ero
				riuscito a mettermi da parte. Il viaggio inizia bene incontro
				degli ottimi compagni di viaggio spagnoli. I problemi cominciano
				quando arrivo alla frontiera con la Francia. Dei poliziotti mi
				chiedono i documenti e si accorgono che il mio passaporto è
				senza permesso di soggiorno e mi fanno scendere dal treno. Non
				ricordo precisamente il nome della stazione dove sono sceso mi
				sembra Cerbère. Io per fortuna parlo francese e almeno capivo la
				lingua, il problema era quello che mi dicevano. Non ho mai capito
				legalmente cos’è successo, io so soltanto che sono stato
				trattenuto delle ore in stazione fino a che mi hanno portato in
				un qualcosa di molto simile a una prigione. Dopo alcune ore che
				sono rinchiuso, mi dicono che mi avrebbero rimandato a casa mia.
				Io gli ho chiesto se potevano farmi tornare in Spagna e il
				poliziotto si è messo a ridere e mi ha fatto portare in una
				stanza con altre otto persone. In questa stanza eravamo tutti
				africani c’erano due ragazzi senegalesi, quattro marocchini e
				due egiziani. Ero disperato e i ragazzi cercavano di tirarmi
				su di morale. Il giorno dopo comincio a capire grazie ad Hamed
				che sono in una prigione per immigrati e che dovevo fare qualcosa
				se non volevo tornare a casa da mia madre e le mie sorelle come
				uno sconfitto che non era stato in grado di trovarsi un lavoro.
				 Dopo quasi una settimana all’interno di questa prigione
				iniziano delle proteste, i primi giorni soltanto con le guardie
				che ci controllavano, a cui chiedevamo di poter telefonare alle
				nostre famiglie o a dei parenti che vivevano in Francia. Io non
				riuscivo a capire cosa fare non avendoli e soprattutto non sapevo
				come fare con mio zio a Genova che mi aspettava ormai da
				tempo. Dopo qualche giorno le proteste diventano più forti ed
				è proprio Hamed uno dei più incazzati. Io decido di seguirlo
				nella protesta anche perché mi aveva detto che erano i giorni
				giusti per riuscire a scappare. Il capo guardia era uno distratto
				che si addormentava spesso durante le ore notturne. Era un
				martedì notte, mi ricordo bene, io e Hamed con altri due
				decidiamo che è il momento giusto per scappare ma per farlo
				dovevamo accettare di non correre il rischio di essere presi e
				portati in un’altra prigione che Hamed diceva essere ancora
				peggio. 
				 
				Però i soldi mi servivano 
				Quella notte anche se ho avuto paura è stata
				una bella esperienza perché alla fine ce la abbiamo fatta. La
				cosa più difficile non è stato uscire dalla prigione ma una
				volta fuori muoversi a piedi con il buio senza sapere dove
				andare. Decidiamo di dividerci per non farci notare e ognuno va
				per la sua strada io riesco ad arrivare in poche ore di cammino
				al primo paese, Millas. In questo posto che non avevo mai sentito
				nominare, ho avuto fortuna di trovare dei ragazzi che mi hanno
				offerto una sigaretta chiedendomi come ero arrivato lì. Dopo che
				gli ho raccontato la mia storia, uno di loro mi dice che può
				aiutarmi. Mi parla di suo zio che ha della terra e che se volevo
				poteva farmi lavorare da lui. Io accetto anche se in realtà
				pensavo a come proseguire il mio viaggio e alla telefonata a mio
				zio. Però i soldi mi servivano per forza e soprattutto non
				sapevo come muovermi, dove andare. Provavo un senso di totale
				spaesamento e ripensavo alle mie giornate prima della partenza
				per il Marocco e se devo dirti la verità le rimpiangevo ma come
				ti dicevo prima non potevo tornare a casa.
  Il
				giorno dopo conosco lo zio di Jean e comincio subito a lavorare,
				mi dice che per un mese posso stare li, dormire in una specie di
				casa costruita sul suo terreno, la paga per me era buona e in un
				mese avrei fatto i soldi che mi servivano per riaffrontare il
				viaggio e soprattutto mi sarei fatto un’idea su come arrivare a
				Genova. Il lavoro era semplice, ma la fatica comunque era
				tanta, lavorare la terra non è una cosa che mi piace troppo…
				Quando andavo a lavorare provavo sempre un senso di paura, non
				sapevo se mi stavano cercando perché ero scappato dalla prigione
				e quindi non mi muovevo mai. Per un mese la mia giornata era
				occupata soltanto dal lavoro, mi alzavo, facevo colazione e
				andavo a raccogliere nel campo, una pausa per il pranzo e poi
				ritornavo a lavorare. Alla sera ero distrutto e non me la sentivo
				di andare in giro quindi se non passava Jean per fare due
				chiacchiere, mi mettevo a dormire. Molte volte mi distendevo,
				occhi chiusi e un milione di pensieri su cosa sarebbe potuto
				ancora accadere alla mia vita. Quando stavo in Mauritania
				lavoravo poco e la mia vita si ripeteva simile tutti i giorni,
				non mi sentivo pronto per un viaggio in un mondo sconosciuto,
				infatti rispetto ai miei amici, sono quello che ha iniziato il
				viaggio per l’occidente da più grande, avevo già 24 anni e
				nel mio paese non sono pochi come qua. Da noi a 24 anni sei un
				uomo e devi lavorare per la tua famiglia. Per questo che mi sono
				sentito costretto a partire. Insomma ero agitato e soprattutto
				volevo arrivare in Italia dai miei parenti, ma non sapevo come
				fare. Ero spaventato dalla possibilità di finire rinchiuso
				un’altra volta. In quel mese Jean mi ha aiutato a capire il
				modo migliore per arrivare a Genova e alla fine un suo amico che
				lavorava con il furgone mi ha offerto un passaggio fino al
				confine con l’Italia. Luc, l’amico di Jean non se la sente
				di attraversare con me il confine e lo capisco. Quindi decido di
				passarlo da solo a piedi. Va tutto bene, il confine lo passo ed
				entro finalmente in Italia. Credevo di metterci qualche giorno
				invece ci ho messo mesi. A Sanremo prendo un treno per Genova e
				per fortuna va tutto per il verso giusto. Alla stazione di Porta
				Principe mi viene a prendere mio zio che non vedevo da quando
				avevo 12 anni. L’emozione è stata forte ma mio zio mi dice
				subito che è meglio andare via dalla stazione che in Italia la
				polizia fa ancora più controlli che in Francia. Questa frase me
				la ricordo ancora perché dalla felicità di pochi secondi prima
				ho pensato con terrore che potevano rimettermi in una prigione
				per immigrati. 
				 
				Quando esco di casa, ci penso sempre 
				Anche a Genova non è stato semplice, grazie a
				mio zio avevo cibo e un letto nella sua casa. Ho cominciato a
				lavorare con lui nei mercati. Ma il problema dei documenti
				rimaneva. Visto che mio zio non poteva regolarizzarmi dovevo
				cercarmi un lavoro in regola, ma il problema è che non avendo i
				documenti nessuno me lo voleva dare. Quindi tutti quelli da cui
				andavo a chiederlo mi dicevano che dovevo lavorare in nero perché
				non avevo il permesso di soggiorno. La situazione oggi per me
				è ancora difficile, sì, sono riuscito dopo quattro anni a
				trovarmi una stanza con altri amici, ho imparato l’italiano ma
				non ho il permesso di soggiorno. Quando esco di casa ci penso
				sempre, ho paura anche di prendere un treno, perché so che se
				vengo fermato vado a finire in prigione. Quest’anno ho
				cominciato a informarmi con altri ragazzi africani e sud
				americani sulle possibilità che abbiamo di rivendicare i nostri
				diritti. Ho partecipato a manifestazioni per il permesso di
				soggiorno per i lavoratori immigrati ma se ti devo dire la verità
				sono pessimista, non riesco a credere in una vittoria, la mia
				speranza è di riuscire a sposarmi e di trovare un lavoro con il
				contratto. 
				Dal Ghana / Ajene 
				Il
				mio viaggio per arrivare in Italia è iniziato nel deserto tra
				l'Africa sub-sahariana e i Paesi del Maghreb. Io abitavo in
				Ghana. Ho iniziato la mia traversata a bordo di un camion guidato
				da un ragazzo di Tripoli. Durante il viaggio siamo stati
				fermati tante volte dalla polizia e ci hanno rubato tutto quello
				che avevamo. Ho visto con i miei occhi persone costrette dai
				militari a bere acqua sporca per provocare problemi intestinali,
				per costringere a espellere le palline con le banconote
				arrotolate nel cellophane che avevano ingoiato per non farsi
				derubare. Due ragazzi sono stati ammazzati come cani perché non
				volevano dargli tutto1. Queste cose sono dure da sopportare e il
				viaggio è stato lungo e difficile. Non abbiamo mangiato mai
				nulla e avevamo soltanto una bottiglia d’acqua, siamo entrati
				in Libia nei pressi della frontiera di Toummo se non ricordo male
				anche perché ora comincio a dimenticare, sono passati quasi
				dieci anni da quei giorni. Io sono stato molto fortunato perché
				ero riuscito a nascondere bene i miei soldi. Arrivato in Libia
				dalla frontiera sono riuscito a raggiungere in poco tempo Tripoli
				e da li ho cominciato a capire cosa devo fare per imbarcarmi e
				per arrivare in Italia. Non vedevo l'ora di iniziare la mia nuova
				vita. Sapevo che non sarebbe stato facile e che mi sarebbe
				costato tanto, sia per i soldi sia per la mia testa, ma non
				pensavo così tanto. A Tripoli sono riuscito a mettermi in
				contatto con alcuni ragazzi che volevano andare in Italia a
				lavorare e che sapevano a chi chiedere, ma il prezzo per il
				“passaggio” era veramente troppo alto. Speravo di trovare
				qualcosa di meglio ma alla fine ho capito che dovevo aspettare…
				Trovarmi un lavoro in Libia, mettere da parte i soldi e partire. 
				  
				 
				All'epoca non parlavo italiano 
				A Tripoli ho lavorato tre mesi per accumulare
				soldi, mangiavo il meno possibile, non uscivo mai e non conoscevo
				quasi nessuno, facevo una vita orribile. Ma alla fine avevo i
				soldi che mi chiedevano e sono partito. Era una notte nell’estate
				del 2002. Il viaggio in mare è stato se possibile ancora più
				duro di quello nel deserto, prima di tutto perché io non avevo
				mai viaggiato in mare e poi perché la barca era piccola e noi
				eravamo tanti, quasi tutti uomini africani, poche donne e solo
				due o tre bambini, se non ricordo male. Parlando poi in Italia
				con tanti amici africani penso che io sono stato fortunato perché
				nella nostra barca non è morto nessuno, anche se in molti sono
				stati male. A Lampedusa la polizia ci consegna un numero,
				acqua e cibo e ci porta in una specie di carcere. Lì capisco che
				devo lottare ancora per riuscire a vivere libero e trovarmi un
				lavoro. All’epoca non parlavo italiano e anche questo era un
				problema perché non capivo quello che mi dicevano. Da Lampedusa
				però riesco ad andarmene abbastanza in fretta, anche perché
				quasi tutte le sere arrivavano altre barche e non ci stavamo più.
				Ci hanno spostato in Puglia ma non ne sono sicuro, in un centro
				che sembrava meno carcere come quello di Lampedusa. C’era poca
				polizia e soltanto una rete all’entrata. Dopo tre giorni in
				questo centro, conosco Labaan e con lui decidiamo di andarcene
				senza aspettare il permesso perché avevamo capito che ci
				volevano rimandare a casa nostra e dopo tutti i sacrifici fatti
				per arrivare e cambiare vita, era una cosa che non poteva proprio
				succedere. Andiamo via di notte, non è stato difficile perché
				come ti dicevo c’era solo una rete e la polizia sembrava non
				guardasse troppo quello che facevamo, infatti andò tutto bene.
				Una volta scavalcata la rete nessuno ci fermò. Da lì abbiamo
				passato la notte a pochi chilometri dal centro, ci siamo messi a
				dormire in un campo ben nascosti. Con la luce siamo andati alla
				ricerca di una stazione per riuscire ad andare via dal sud Italia
				verso il nord che ci aspettavamo ricco e pieno di lavoro.
				 Troviamo la stazione dopo poche ore di cammino e decidiamo
				che è meglio separarci per non dare nell’occhio anche perché
				il primo problema da affrontare era come pagare il treno, visto
				che non avevamo i soldi italiani. Io mi presento alla
				biglietteria ma non concludo nulla, capisco che però è
				impossibile prendere un solo treno per arrivare a Milano, ne devo
				prenderne almeno due. Visto che non potevo pagare con i miei
				soldi, avevo anche 20 dollari ma non li hanno voluti. Salgo sul
				treno per Roma senza biglietto. Anche Labaan sale sullo stesso
				treno anche se non ci mettiamo nello stesso vagone. Da lì non ci
				siamo più rivisti e spero che anche per lui il viaggio sia
				continuato senza troppi problemi. A Roma riesco a cambiare i miei
				dollari e a fare il biglietto per un treno fino a Modena, la
				città dove ho fatto il mio primo lavoro italiano. 
				  
				 
				Sinceramente mi sento afritaliano 
				A Modena scendo in stazione molto presto di
				mattina, sono totalmente spaesato e anche se dentro di me sono
				felice, capisco che la mia situazione è complicata, non ho
				nessuna carta che dice che posso stare in Italia. Per fortuna
				incontro dopo poche ore dei ragazzi Ghanesi che mi aiutano
				subito, mi invitano a mangiare nella loro casa e mi spiegano che
				è meglio se non me ne vado in giro troppo senza il permesso di
				soggiorno. Questi ragazzi sono stati la mia salvezza perché per
				un mese mi hanno fatto dormire sul loro divano, facendomi
				conoscere gli italiani giusti che mi hanno aiutato a trovare
				lavoro. Sono stato nelle campagne per sei mesi, venivo pagato
				poco ma almeno riuscivo a mangiare e a permettermi una stanza in
				affitto. Il problema del permesso però rimaneva perché non
				lavoravo in regola. Dopo questo lavoro ne ho trovato uno meno
				faticoso e pagato meglio, lavoravo da un benzinaio dove sono
				rimasto quasi un anno, il padrone era tranquillo ma anche lui mi
				diceva che non aveva i soldi per regolarizzarmi. I miei amici
				italiani mi dicevano che entro poco ci sarebbe stata una
				sanatoria per tutti i migranti e di non preoccuparmi e io ci
				speravo anche perché sinceramente mi stavo trovando bene. Nella
				mia testa c’era ancora la voglia di andare a Milano, la città
				dove avrei potuto fare un vero lavoro e guadagnare bene per
				mettermi da parte dei soldi.  Dopo 5 anni a Modena senza
				permesso di soggiorno e altri due lavori, uno in un forno e uno
				in una cooperativa edile, trovo un lavoro vicino a Milano in una
				fabbrica metal-meccanica come operaio, questo lavoro l’ho
				trovato grazie a un amico, Mario che erano anni che cercava una
				possibilità per la mia regolarizzazione. In questa fabbrica ho
				lavorato duramente per due anni, mi hanno fatto subito il
				contratto, con varie difficoltà ma alla fine ce la abbiamo fatta
				e ho ottenuto un permesso di soggiorno legato al mio contratto.
				Guadagnavo più di mille euro al mese, finalmente potevo avere
				una casa e una vita tutta mia. In quei due anni 2007\8 ho
				conosciuto vari amici e amiche, uscivo la sera e mi occupavo
				insieme ad africani e italiani di una scuola di italiano per
				migranti.  È stata un’esperienza molto bella e soprattutto
				ho conosciuto Monica, mia moglie, una ragazza toscana di Firenze
				ma che stava a Milano. Adesso siamo sposati e io sono diventato
				italiano. Sinceramente non mi sento proprio italiano, ma
				afritaliano, nel senso che non vivo più da Ghanese ma non sono
				neanche un italiano al 100%. Certo tante cose della vostra
				cultura ormai fanno parte di me, le ultime esperienze si sono
				incontrate e mescolate con la mia parte africana. Anche se non è
				stato facile, adesso amo l’Italia, mi piace la musica, la
				cucina, il cinema, ma amo anche l’Africa, il mio paese dove
				finalmente posso tornare senza paura per stare con la mia
				famiglia. Quando vado in Ghana per i figli di mia sorella sono
				un italiano con la faccia nera e che parla la loro lingua ma per
				gli italiani sono un africano che lavora in Italia, insomma un
				casino ma finalmente sono felice. Anche se non finirò mai di
				pensare a tutti i fratelli che non ce la fanno, che muoiono nel
				viaggio o che vengono riportati a casa dalla polizia. Io alla
				fine sono stato fortunato e adesso devo lottare per i diritti di
				tutti quelli che non sono arrivati o che vogliono arrivare. 
				 
				Andrea Staid 
				Per chi rimane senza soldi il viaggio si
				tramuta in tragedia. Secondo diverse testimonianze le oasi del
				deserto nigerino e libico sarebbero disseminate di schiavi.
				Giovani partiti dall'Africa occidentale alla volta dell'Europa e
				rimasti bloccati senza soldi per proseguire né per ritornare. 
				
					
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							 Interviste non strutturate, perché... 
							L’intervista riveste un ruolo importante
							nella ricerca sociale e antropologica, sottolinea il grande
							valore dell’oralità, della visualità, della partecipazione
							e dell’osservazione, rende fondamentale il contatto diretto
							per la costruzione di uno studio antropologico.  Si possono
							usare diverse tipologie di interviste, per esempio interviste
							non strutturate, semistrutturate e strutturate.  Io ho
							scelto, per la costruzione della mia ricerca, l’intervista
							non strutturata. Con questo tipo di intervista, che racconta
							storie di vita, ho tentato di realizzare una comprensione
							profonda, complessa del punto di vista e della situazione
							degli intervistati.  Desideravo scoprire le esperienze, le
							sofferenze delle donne e degli uomini che ho intervistato, ho
							cercato di esaminare a fondo le loro storie di vita da
							migranti, permettendogli di comunicare liberamente. Proprio
							per questo motivo questo tipo di intervista è denominata non
							strutturata.  Ho lasciato l’intervistato libero di
							parlare delle esperienze importanti, con una mia influenza
							poco direzionale, cercando di stabilire dei rapporti umani,
							fondamentali perché dovevano fidarsi di me per rivelarmi
							informazioni intime della loro vita.  Per questo è
							importante lasciare ora la parola ai migranti, lavoratori
							precari, sfruttati che vivono con noi e che troppo spesso non
							vogliamo ascoltare. Le interviste costituiscono parte
							integrante del testo, sono i racconti delle donne e degli
							uomini che hanno vissuto i fatti che raccontano, sono le
							storie orali, documenti di grande importanza per capire la
							complessità della vita quotidiana.  In una società che ci
							sottopone a un continuo sovraccarico informativo gli eventi ci
							vengono raccontati da altri quasi in tempo reale, facendo
							perdere agli individui la capacità di sentirsi testimoni o
							narratori delle situazioni di cui si è stati
							protagonisti. Rendersi protagonisti, e non meri spettatori,
							della memoria, significa invece saper ascoltare, significa
							ricostruire esattamente gli eventi e il loro significato, ma
							anche riuscirli a rappresentare attraverso i protagonisti
							diretti. Senza aver parlato, discusso con i migranti questo
							testo non sarebbe esistito. 
							 
							 
							A.S. 
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				Migranti 
				I piatti dei migranti 
				di Andrea Perin 
				Che cosa mangiano i migranti? Si può parlare
				di meticciamento anche a tavola? In appendice al libro “Le
				nostre braccia” questo scritto di Andrea Perin ci fa sedere a
				tavola e scoprire che.... 
				  
				Si
				può definire meticcia una cucina? Se la si affronta nel suo
				percorso storico nessuna tradizione è pura, ognuna si è
				modificata nel corso tempo con scambi e ingressi. La stessa
				cucina italiana, una delle più ricche e articolate al mondo, non
				è un modello codificato e unitario bensì una rete di saperi e
				pratiche, strutturatisi in secoli di storia grazie anche alla
				posizione centrale che la penisola occupa nel Mediterraneo e che
				ha portato a secoli di occupazioni subite (e imposte), commerci
				con tutto il mondo, immigrazioni ed emigrazioni (1).
				Da ultimo, i poderosi trasferimenti che portarono milioni di
				persone dal sud al nord, che hanno rimescolato ancora gusti e
				ingredienti. Si tratta di una storia spesso dimenticata,
				oppure omessa per superficialità o interesse: la tipicità non
				di rado viene spacciata per tradizione, e la stessa tradizione
				viene presentata come un fattore statico che attraversa i secoli
				immutabile. Si vagheggia di un passato fatto di natura e
				sincerità, mentre per la maggior parte della popolazione la
				quotidianità era fatta di fame e miseria. La cucina italiana è
				diventata in molti casi un astratto elemento identitario da
				difendere, una barricata rispetto all’invasione di
				“stranieri”. In questo contesto il termine meticcio può
				essere utile per definire un tipo di cucina: non la moda fusion
				dei ristoranti glamour e neppure le fantasie dei blogger
				gastrofanatici, ma la contaminazione casalinga di ricette,
				ingredienti e conoscenze delle diverse culture che si confrontano
				nella società, una pratica che supera nella consuetudini le
				barriere culturali che limitano l’incontro e lo scambio. È un
				termine che trova giustificazione nell’impatto accelerato che
				la contemporaneità comporta nei cambiamenti rispetto al passato
				quando le modifiche delle abitudini richiedevano decenni o anche
				secoli (2). E soprattutto nella conseguente
				possibilità di scegliere. 
				 
				Orgoglio culturale 
				«È l’era del politeismo alimentare che
				spinge le persone a mangiare di tutto, senza tabù, generando
				combinazioni soggettive di alimenti e anche di luoghi ove
				acquistarli, neutralizzando ogni ortodossia alimentare». Nel
				primo rapporto Coldiretti/Censis del 2010 sulle abitudini
				alimentari degli italiani si evidenzia che “il rapporto con il
				cibo è una dimensione sempre più soggettiva, espressione
				dell’io che decide e che, a partire dalle proprie preferenze,
				abitudini, prassi e aspettative, nonché dalle risorse di cui
				dispone, definisce il contenuto del carrello e della tavola”.
				Solo per il 30,4% la propria alimentazione deriva ormai dalla
				tradizione familiare (3). Se
				l’immigrazione, con l’arrivo di nuovi gusti e nuovi prodotti,
				è anche un’occasione per allargare le possibilità a tavola
				degli italiani, la situazione per i migranti è sicuramente più
				complessa. Si sono scritti fiumi di inchiostro per raccontare
				come il cibo sia un fattore identitario, sull’importanza che
				assume per uno straniero costretto a cambiare tutti gli aspetti
				della sua vita. Per molti, specialmente qualche anno fa quando le
				comunità erano meno organizzate, è stata in effetti
				un’autentica sofferenza doversi cibare solo di pietanze
				italiane è «L’inizio è stato un po’ faticoso soprattutto
				perché non si trovava il nostro riso o altri ingredienti”
				(Hasina, Bangladesh) (4). Spesso era
				difficoltoso trovare alimenti compatibili con la propria
				religione. Per tutte le comunità la cucina è un orgoglio
				culturale e una esternazione di appartenenza. Basta scorrere le
				pubblicazioni o partecipare alle feste dove sono i migranti
				stessi a raccontare o eseguire i proprie piatti per verificare
				come le ricette siano riproposte uguali a quelle eseguite a casa,
				come se centinaia o migliaia di chilometri di distanza fossero
				annullati.  «Quando ero un po’ più grande mia madre mi ha
				detto: “Quando finirai la scuola tu dovrai andare in un altro
				paese a cercare lavoro, qui non ci sono soldi, devi andare in un
				altro paese. Non ci sarò più io a cucinare per te, e chi
				aiuterà te? Devi imparare adesso, guarda bene come faccio, sei
				grande abbastanza per imparare a cucinare”» (Somot e Raju,
				Bangladesh) (5). In realtà per il
				migrante l’alimentazione più che veicolare un’astratta
				appartenenza a una patria o definire una specificità culturale,
				rappresenta un legame emotivo e sensoriale soprattutto con la
				famiglia lontana, con i sapori condivisi sin dall’infanzia: i
				modelli gastronomici sono la cucina della mamma e della nonna,
				che sommati e condivisi con gli altri costruiscono un gruppo, una
				comunità (6). «Sono molto contento di
				cucinare questo piatto perché mi ricorda la mia famiglia,
				specialmente mia nonna, che cucinava i Domoda per noi, sempre. Ho
				mangiato cose diverse in Italia, ma non ho ancora trovato il cibo
				che mi ricorda la mia famiglia. - racconta Muhammed del Gambia -
				Quando mi hanno informato della cena, sono stato molto contento
				di cucinare i Domoda per ricordare la mia famiglia. Questo
				incontro è molto importante perché mi sento come con la mia
				famiglia» (7). Bahaa, egiziano: «Quando
				cucino questo piatto mi sento come dentro a casa mia in Egitto,
				con la mia famiglia. Ogni volta che cucino questo piatto mi sento
				come dentro le braccia di mia madre. Perché è troppo buona,
				come un dolce» (8). 
				  
				 
				Accorciare le distanze 
				Il cibo definisce chi appartiene e per
				esclusione identifica lo straniero, ma non è solo questo: è
				anche il primo grado di scambio e di riconoscimento dell’altro.
				Mangiare il cibo del diverso, dello straniero, vuol dire
				accorciare le distanze e appropriarsi di un pezzetto
				dell’identità altrui, farla propria. Se è vero che il “sapore
				è sapere”, è sempre possibile imparare nuovi gusti. La
				realtà per i migranti è meno lineare della semplice
				conservazione della propria tradizione perché il consumo
				alimentare risulta assai pragmatico e comprende spesso la cucina
				italiana, sia sui luoghi di lavoro o a scuola che a casa. «Fino
				a pochi anni fa pensavo che il cibo senegalese fosse il più
				buono al mondo. Ora penso che sia stata una gran fortuna
				conoscere anche quello italiano» (Aliou, Senegal) (9). «Io
				e mio marito preferiamo le cose fast tipo pasta, cose insomma che
				si preparano rapidamente durante la settimana, quando siamo di
				corsa. Quando c’è tempo cucino marocchino, o se c’è gente a
				cena o pranzo o durante le feste religiose. Le cose italiane sono
				più veloci da preparare» (Sara, Marocco) (10).
				 I risultati di un’indagine svolta nel biellese nel 2006 sui
				consumi alimentari di un piccolo campione di migranti hanno
				mostrato ad esempio una notevole familiarità e assimilazione con
				il modello italiano, insieme a un allontanamento dalle usanze più
				tradizionali: la maggior parte quotidianamente mangia e beve
				«all’italiana» (81,3%) o consuma «cibi e bevande
				internazionali» (20,5%). I cibi del paese d’origine vengono
				consumati saltuariamente (32,5%) o addirittura mai (17,5%)
				(11). Questa disinvoltura a tavola nasce
				in buona parte dalla comodità, visto che la cucina italiana è
				ritenuta più facile e veloce, spesso è desiderio di
				omologazione al modello della cultura ospite: sono sempre di più
				i corsi di cucina italiana per migranti, anche per obbligo
				professionale (colf, collaboratrici, etc.). I migranti poi
				sono inseriti stabilmente nei processi produttivi della catena
				alimentare italiana. Sono già oltre 38mila nel 2010 le imprese
				del settore gestite da migranti secondo una ricerca del FIPE,
				pari al 12,1% del totale, e se oltre 2.500 sono i ristoranti
				etnici è ormai evidente a tutti come molti ruoli siano coperti
				da «stranieri» anche nei bar, nelle panetterie, nelle pizzerie,
				nelle cucine di ristoranti e trattorie. Senza contare le persone
				impiegate nella produzione, come nei prosciuttifici emiliani o
				nei caseifici del grana padano e della fontina valdostana
				(12). Tanto che, in un provocatorio
				articolo il New York Times di qualche anno fa
				si chiedeva: “Is the Cuisine Still Italian Even if the Chef
				Isn’t?”. Sebbene la a cucina italiana sia una delle più
				impermeabili alle modifiche, scriveva il corrispondente, sarà
				sempre uguale o comincerà a subire modifiche dai suoi cuochi
				«stranieri»? (13). Senza scomodare gli
				chef professionali sono le cucine casalinghe i laboratori del
				cambiamento, dove nella quotidianità dell’alimentazione si
				fondono i sapori, le esperienze si incrociano, i gusti si
				adattano. Se nelle feste si mangia come lo preparavano la mamma o
				la nonna, e agli amici si offre la cucina tradizione per
				soddisfare le aspettative, per sé e per i propri familiari e gli
				amici più stretti ci si comporta come in ogni cucina del mondo:
				ci si adatta alla disponibilità della dispensa e del
				frigorifero. Sono modifiche quasi clandestine, al di fuori
				delle regole, che si possono al momento cogliere solo per singoli
				fotogrammi senza una visione generale: alle feste o nei libri non
				compaiono o si negano, qualche volte si leggono in trasparenza,
				quasi mai sono oggetto di specifiche attenzioni o sono
				protagoniste di avvenimenti. D’altro canto, quando mai un
				ricettario è specchio fedele della realtà? 
				  
				 
				Una sorta di meticciato industriale 
				Una prima causa di meticciamento, forzata, è
				dovuta alla sostituzione degli ingredienti originali con le con
				materie prime del luogo: «Questa ricetta che vi presento oggi è
				il bulz come l’abbiamo mangiato a Pasqua in Romania a Moeciu
				preparato però quando siamo tornati a casa con la farina di mais
				italiano, la salsiccia bolognese e il formaggio che abbiamo
				comprato in Romania.» (14)  La differenza
				è data proprio dal sapore che il mercato e la produzione
				italiana conferiscono a verdure, frutta e carne, spesso anche
				all’acqua : “In realtà però, quando si tratta di
				ingredienti freschi, utilizzati sia nella cucina russa sia in
				quella italiana (...), devo ammettere che il gusto è
				notevolmente diverso da quello dei prodotti della mia terra”
				(Alla, Russia) (15). È probabilmente
				facile adattare le ricette italiane ai propri gusti, tenendo
				presente che i piatti più conosciuti e apprezzati sono
				soprattutto i primi o la pizza, ottime basi cui aggiungere e
				modificare sapori. «Io ad esempio, preparo una carbonara
				speciale con modifiche al dosaggio e con l’aggiunta di panna
				acida» (Daniel, Romania) (16), mentre la
				giapponese Ayame condisce gli spaghetti con tonno, daikon e alghe
				nori (17) e Alexandra, di madre cretese,
				mette la cannella nel ragù delle lasagne (18).
				«Le spezie sono tipiche di giù e ce le portiamo qui, poi le
				usiamo sulla pasta e viene un mix ottimo» (Shaima, Marocco)
				(19).  In ritardo di anni rispetto
				all’Europa, sta iniziando una produzione industriale di cibo
				italiano «halal», una sorta di meticciato industriale, che
				rende lecite ai mussulmani le ricette che conterrebbero
				ingredienti non assimilabili (20). Un
				processo meno scontato è l’intervento e la modifica sui propri
				piatti identitari, ad esempio con l’introduzione di ingredienti
				italiani prima sconosciuti. «Quando cucino piatti peruviani
				aggiungo spesso formaggi italiani, anche perché mi piace fare
				degli esperimenti» (Maritta, Perù). «Il riso che comunemente
				si mangia in Romania, lo modifico con l’aggiunta di funghi,
				zucchine e quant’altro» (Daniel, Romania) (21).
				Oppure con una semplificazione dei piatti tradizionali, come fa
				Modou tramutando in risotto il senegalese ceebu jn (22)
				(senza dimenticare che in patria spesso gli uomini non cucinano).
				 Ma chi opera questi cambiamenti, e perché? La sensazione è
				che in generale non esistano regole ma solo situazioni,
				disponibilità e curiosità, e che diventa una scelta
				programmatica e consapevole solo in alcuni casi, come ad esempio
				quello delle coppie miste: qui l’incontro dei sapori assume
				spesso il valore anche orgoglioso di uno scambio riconosciuto, di
				una metafora della propria condizione, a volte rappresenta un
				equilibrio per conciliare le diverse tradizioni e abitudini. «Non
				posso passare la vita a escludere mio marito dalla cucina
				italiana che amo tanto, ma troppe ricette prevedono vino, per
				sfumare, soffriggere, aromatizzare, pancetta dolce o affumicata
				per aggiungere sapore - scrive Cristina - Ho provato e ho
				scoperto ottimi compromessi, le ricette si ‘sporcano’ un po’
				e noi ci mescoliamo» (23). Per quelle che
				vengono chiamate burocraticamente «Seconde generazioni», e che
				rispecchiano condizioni assai variegate tra loro, le abitudini di
				consumo alimentare esprimono in maniera evidente la doppia
				appartenenza culturale, spesso non vi sono rigide preferenze per
				i cibi italiani o quelli della propria tradizione, che vengono
				consumati indifferentemente. Vista la giovane età raramente
				cucinano e si confrontano con la creazione di sapori, ma spesso
				il soddisfacimento congiunto delle diverse appartenenze culturali
				a tavola è una via potenzialmente aperta a nuove forme di
				meticciamento, anche a quelle che incrociano tradizioni diverse
				da quella italiana. Per concludere, se la cucina meticcia è
				un’esperienza casalinga e dispersa, resterà qualcosa di
				condiviso? «L’unica grande regola del meticciato è l’assenza
				di regole. (...) Ciò che nascerà dall’incontro rimane
				sconosciuto» (24). Sono troppe le variabili
				per fare previsioni, e in fondo non importa. La cucina è
				un’attività libera, fuori dai controlli e in sostanza
				refrattaria alle imposizioni, anche da quelle fintamente benevole
				dei ricettari tradizionali e non.  Ed è bello vedere come le
				barriere culinarie, erette a difesa delle identità, si possano
				superare in un boccone. 
				 
				Andrea Perin 
				Note
								 
				
					Alberto
					Capatti, Massimo Montanari, La
					cucina italiana. Storia di una cultura,
					Laterza, Roma-Bari 1999; Massimo Montanari, L’identità
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					Montanari
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					Reza
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					racconto... Ti racconto. Storie e ricette del nostro mondo,
					Editrice Coop Consumatori, Bologna 2007, p. 44. 
					 
					Testimonianza
					raccolta durante la rassegna “Parole di frontiera”, nella
					serata dedicata al “Piacere”, cena aperta di condivisione di
					piatti, svoltasi nel circolo arci La Scighera di Milano, 13
					maggio 2010. A cura di Naga e arci Scighera, in collaborazione
					con Associazione Asinitas di Milano. 
					 
					Klaus
					E. Müller, Piccola
					etnologia del mangiare e del bere,
					Il Mulino, Bologna 2005, p. 109-116. 
					 
					Testimonianza
					raccolta durante la rassegna “Parole di frontiera”. 
					 
					Testimonianza
					raccolta durante la rassegna “Parole di frontiera”. 
					 
					Le
					ricette di Sunugal. Scambio di sapori e saperi tra Italia e
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					Milano 2011, pp. 27,28. 
					 
					Laura
					Fontana Sabatini, I
					consumi e i cultural bridging: le seconde generazioni di donne
					egiziane e marocchine a Milano,
					Tesi di Laurea Specialistica in Marketing Management, Università
					Commerciale Luigi Bocconi, Facoltà di Economia di Milano, Anno
					Accademico 2007-2008, p. 63. 
					 
					Emilio
					Sulis (a cura di), Abitudini,
					opinioni e consumi migranti. Un approfondimento nel contesto
					biellese,
					in Carla Fiorio, Enzo Mario Napolitano e Luca Massimiliano
					Visconti (a cura di), Stili
					migranti, i quaderni di welcome marketing etnica,
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					http://www.confcommercio.it/home/Inchieste/Il--melting-pot--della-ristorazione-italiana.htm_cvt.htm.
					
					 
					Lo
					spunto per l’articolo furono il premio del Gambero Rosso per
					la miglior carbonara a Nabil Hadj Hassen, chef d’origine
					tunisina, e il secondo posto del premio conferito dalla
					prestigiosa rivista gastronomica a un ristorante il cui capo
					cuoco è indiano. Ian Fisher, Is
					the Cuisine Still Italian Even if the Chef Isn’t?,
					New York Times, 7 aprile 2008. 
					 
					http://lacucinadicrista.blogspot.com/2011/06/bulz-ca-la-moeciu-like-i-eat-at-moeciu.html.
					
					 
					Benedetta
					Cucci (a cura di), Ricette
					delle nuove famiglie d’Italia,
					Pendragon, Bologna 2010, p.94. 
					 
					Reza
					Rashidy (a cura di), op.
					cit.,
					p. 216 
					 
					Intervista
					in JallaJalla,
					Radio Popolare di Milano dell’11 marzo 2011, in studio Andrea
					Perin e Nello Avellani. Vd. Anche
					http://ricettescorrette.noblogs.org/post/2011/07/08/jallajalla-storia-della-pasta/.
					
					 
					Intervista
					in JallaJalla,
					Radio Popolare di Milano del 30 aprile 2010, in studio Andrea
					Perin e Paolo Maggioni. vd. Anche
					http://ricettescorrette.noblogs.org/post/2010/05/03/jallajalla-alexandra-e-le-lasagne-alla-cannella/.
					
					 
					Laura
					Fontana Sabatini, op.cit.,
					p. 62. 
					 
					Ad
					esempio http://www.trealfierihalal.com.
					
					 
					Reza
					Rashidy (a cura di), op.
					cit.,
					p. 200 e p. 216. 
					 
					Intervista
					in JallaJalla,
					Radio Popolare di Milano del 6 febbraio 2010 – in studio
					Andrea Perin e Paolo Maggioni. Vd. Anche
					http://ricettescorrette.noblogs.org/post/2010/03/04/jallajalla-modou-e-il-riso-alla-modouu.
					
					 
					http://cribaba.blogspot.com/2011/04/brasato-al-barolo-per-palati-islamici.html.
					
					 
					François
					Laplantine, Alexis Nouss, Il
					pensiero meticcio,
					Elèuthera, Milano 2006, p. 10. 
					 
				 
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